Dal quotidiano del 24 gennaio 2006

 

Quali “tradizioni popolari” valorizzare e come.

di Vito Teti

 

La notizia è dell’altro giorno (19 gennaio) e mi pare di quelle che meritano una grande attenzione, anche dalle nostri parti. Il Ministero dei Beni Culturali, seguendo una linea dell’Unesco, ha deciso un’ azione di protezione e valorizzazione delle tradizioni popolari del nostro Paese, grazie anche alle risorse messe a disposizione dalla recente finanziaria. Il progetto “Le nostre tradizioni, una risorsa per il futuro”, presentato da Francesco Rutelli, ministro dei Beni Culturali e vicepresidente del Consiglio, dovrebbe avere il compito (grazie all’apporto di un gruppo di esperti, in primo luogo antropologi, operatori dei media, artisti, musicisti) di scoprire, catalogare e valorizzare le tradizioni popolari individuate come “patrimonio culturale vivente” del nostro paese. Un’opera di adeguata divulgazione sarà affidata ai mezzi di comunicazione e ad appuntamenti di dimensione nazionale in grado di “spettacolarizzare” le tradizioni e quindi di arrivare al grande pubblico, non solo italiano.

E’ significativo che il Ministero dei Beni Culturali accolga elaborazioni ormai condivise da studiosi di varie discipline e di varie tendenze: non esiste una Cultura, ma tante culture che si esprimono e si affermano nei diversi contesti locali. I beni culturali non sono soltanto quelli materiali, artistici, archeologici, ma anche quelli immateriali, simbolici, rituali, “spettacoli”. L’Unesco considera “patrimonio culturale intangibile” le tradizioni orali, compreso il linguaggio in quanto veicolo di tale patrimonio; le arti dello spettacolo; le consuetudini sociali, gli eventi rituali, festivi e cerimoniali; le concezioni e le pratiche relative all’universo e alla natura; i saperi e le tecniche relativi all’artigianato.

Naturalmente tale iniziativa pone grandi questioni di ordine teorico e problemi di natura pratica e “politica” e anche qualche legittimo dubbio. Se i criteri, la filosofia, le forme della tutela, della valorizzazione e del recupero di un reperto archeologico o di un immobile, di un palazzo o di un “centro storico” sono sempre “opinabili” e danno adito a discussioni e  a interpretazioni le più diverse, qualsiasi forma di intervento, dall’alto e dall’esterno, su un bene immateriale, rituale e simbolico suggerisce un supplemento di questioni teoriche e pratiche. Ne elenco alcune in forma di domanda.

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Dove finisce la conoscenza e comincia la valorizzazione? Come intervenire? Come interagire con individui e gruppi che sono i “portatori” e i “fruitori” di quelle tradizioni? Intervenendo dall’alto non si privilegiano e non si inventano tradizioni e non se ne cancellano delle altre? E’ possibile ed è utile salvaguardare per legge e per decreto le produzioni culturali di un popolo, di un gruppo, di una comunità che magari hanno un rapporto difficoltoso con quelle tradizioni a anche l’intenzione di abbandonarle?  E quali sono i criteri corretti, rispettosi, adeguati in base a cui decidere cosa tutelare e valorizzare? Le tradizioni meritano di essere tutte valorizzate e perché e come? Non ci sono tradizioni da abbandonare o da superare? Chi decide i tempi e le modalità? La valorizzazione non rischia di mummificare e di cristallizzare riti che sono il frutto di processi storici di lunga durata, che hanno una loro dinamicità? Non si banalizzano e non si mummificano, riducendoli a forme di nuovo esotismo per vacanzieri distratti, eventi che hanno un altro “senso” nei diversi contesti culturali? Come conciliare il “senso locale” delle tradizioni con una prospettiva omologante e standardizzata, che tende a ridurre e a neutralizzare le diversità, a disinnescare l’ “alterità” trasformandola in una sorta di paccottiglia turistica? Tradizione non vuol dire anche “tradimento”, “mobilità”, “dinamicità” che nascono dal basso e in un serrato dialogo con culture e identità diverse? Un analogo intervento sui saperi e sulle culture locali non nasconde un sogno omologante della globalizzazione, non rischia di standardizzare quanto invece si presenta con colori, suoni, ritmi i più diversi? Sovrintendere alle culture locali non potrebbe significare anche snaturarle, mutarle, condizionarle, talvolta cancellarle? Le “tradizioni” sono separabili da economia, società, mentalità, religione, arte, musica, letteratura teatro, politica? La “tutela” e la “valorizzazione” delle “tradizioni” hanno un senso se non vengono anche estese alla “salvaguardia” e alla “cura” (che certo non escludono interventi e modifiche) dell’ambiente, del paesaggio, delle economie locali?

Naturalmente bisogna uscire dall’angusta dilemma se è meglio “conservare”, “proteggere”, non intervenire per non modificare e “non guastare” o fare i conti, senza sterili rimpianti, con i mutamenti che ci stanno di fronte, considerando che le culture, le tradizioni, le identità non sono qualcosa di dato una volta per sempre, ma si ridefiniscono in continuazione anche in rapporto alle influenze esterne. La “materia” (i beni “immateriali”) di cui ci stiamo occupando è troppo delicata, controversa, fluida per essere lasciata in mano soltanto a pochi esperti o a dirigenti dei Ministeri: essa deve essere invece offerta come proposta aperta alle comunità e agli attori locali, ai protagonisti, ai portatori delle tradizioni e delle culture che si intendono valorizzare.

Manifestate queste perplessità e invitato alla problematicità e all’attenzione, c’è, comunque, da auspicare che anche a livello regionale si dia finalmente inizio a una riflessione peraltro da tempo e da più parti sollecitata. La Calabria ha molto da dire con la propria storia, con i propri riti, la propria tradizione musicale, i propri linguaggi, le mille manifestazioni culturali, a volte altamente “spettacolari”, ed ha anche – va sottolineato con legittimo orgoglio - con una tradizione di studi demo-antropologi che, nelle sue elaborazioni più alte, aperte e non anguste, ha aperto piste anche a livello nazionale ed europeo, con la capacità interrogarsi da quasi due secoli, in maniera originale, sul nesso demologia – costruzione dell’identità, sul folklore come “concezione del mondo e della vita” delle popolazioni.

 La Calabria ha tanto da suggerire e da attendersi nel campo della “valorizzazione delle culture locali”, anche perché, in maniera ambigua, è stata individuata ora come luogo di “tradizioni” associate ad arretratezza, arcaicità, superstizione o criminalità (si pensi alla prospettiva antropologica positivista) ora, in maniera romantica e sterilmente nostalgica (il rimpianto del “buon tempo antico” mai esitito), come terra di tradizioni “incontaminate”, “originarie” “pure” e “genuine”. Naturalmente, le due prospettive, opposte e complementari - hanno ancora i loro attardati cultori (i “negatori” o i “retori” dell’identità che da noi scivola in un’astorica, enfatica, retorica “calabresità”) - non sono capaci di dare conto di una storia culturale contraddittoria, variegata e complessa, che ha visto scontri e dialoghi, esclusioni e scambi tra alto e basso, locale e “straniero”, contribuendo a fare dell’identità non qualcosa di statico e di monocromatico, ma di mobile e dinamico, aperto e plurale. Tutto questo è utile ricordarlo e richiamarlo nel momento in cui la regione potrebbe candidarsi (dipende dalla capacità di farsi ascoltare a livello nazionale dai nostri rappresentanti locali) a disegnare (almeno con un grande evento), la mappa delle diciotto o venti manifestazioni previste per tutto il territorio nazionale dal Ministero dei Beni Culturali.

L’obiettivo però può è deve essere più ambizioso. La Calabria potrebbe e dovrebbe farsi promotrice di un grande “Progetto della memoria e dell’identità”, come ho avuto modo di ricordare in passato sui giornali e come tante volte ho proposto a tanti uomini politici, ricevendo tanto ascolto a cui, per mille ragioni, poi non seguono fatti concreti. Il territorio regionale - non è inutile ricordarlo – è un “libro” che attende ancora di essere aperto, letto, considerato; ogni area è segnata da mille “vie dei canti”, da pellegrinaggi, riti, feste, anche fortemente “spettacolari”, e si offre con una mappa colorata e significativa di manifestazioni da valorizzare e da proteggere. A titolo meramente esemplificativo, segnalo eventi come l’ “Affruntata” o “Cunprunta” o “Svilata” (di Vibo, del Vibonese, del Catanzarese e del Reggino), i riti della Settimana Santa (come quelli di Caulonia, Cassano, Nocera Torinese e di tante altre comunità), le sacre rappresentazioni di Laino e di Caccuri (e di tanti altri centri), la festa di S. Rocco a Gioiosa Jonica e a Palmi, la grandiosa processione della Madonna della Consolazione a Reggio Calabria, la fiera di S. Giuseppe a Cosenza (ma anche in altri centri montani e costieri, come Serra S. Bruno, Pizzo, Amantea), processioni a mare come quella di Crotone (ma anche di Soverato, Vibo Marina, Catanzaro Lido, Palmi e di altri centri sorti di recente lungo le coste), pellegrinaggi insieme antichi e postmoderni come quello dall’antico abitato di Pentedattilo a Melito Porto Salvo, o nei paesi abbandonati (esempio eccezionale di un senso religioso delle rovine).

Non si tratta certo di ancorarsi soltanto a riti di “antica” tradizione, che tuttavia vengono continuamente rielaborati, ma anche a manifestazioni di recente invenzione, che potremmo rinchiudere nella voce folklore e neo-folklore. Penso, ad esempio a eventi “folklorici” ormai conoslidati e noti come il Carnevale del Pollino e la sagra della ‘nduja a Spilinga o della sardella a Crucoli; a manifestazioni culturali di qualità che hanno dato nell’ultimo decennio buona prova di sé e che opportunamente sostenute potrebbero ulteriormente alimentare turismo ed economie locali (arrivo e ritorno nei paesi). Ricordo il Festival jazz di Roccella Jonica, le manifestazioni sul teatro (e sulla tarantella) come quelle di Caulonia, “Paleariza” nei paesi grecanici, il Festival del Peperoncino a Diamante e l’elenco non è esaustivo e va completato (senza però dilatarlo all’infinito).

Le tradizioni e le culture popolari come luogo di riflessione, ma anche di attrazione turistica, potrebbero dare un grande impulso all’economia regionale a condizione che si evitino quelle tendenze a folkorizzare in maniera strapaesana il territorio, a patto che si liquidino definitivamente giostre, mascherate e parate con sbandieratori e suonatori in costume, che celebrano improbabili eventi e personaggi storici, che non hanno nulla a che fare con le tradizioni calabresi. Con manifestazioni che scimmiottano il Palio di Siena e senza alcuna capacità di innovare ed inventare, in maniera qualificata ed originale, la Calabria continuerà a non avere ascolto nemmeno in questo ambito. Le immagini positive non vengono assegnate per eredità o per decreto, con generici proclami o con sterili rivendicazioni: vanno costruite quotidianamente, con pazienza e con fatica, con “persuasione”. C’è bisogno di un ragionamento diverso, di un’elaborazione mirata, di una riflessione condivisa che coinvolga Regione, Assessorati, Province Comuni, organizzazioni culturali, università, mondo della scuola, Chiesa. Non va dimenticato infatti che molte delle “tradizioni” sono spesso legate a un festa, a un pellegrinaggio o a un evento religioso ed è un dato che non va dimenticato, tenendo conto che la Chiesa calabrese si presenta con posizioni diversificate, plurali, aperte, attente (che vanno dalla rispettosa “conservazione” al controllo, dalla negazione di antiche ritualità ritenute inadeguate a forme di invenzione) sulla “pietà popolare” e sulle forme della “religione popolare” (di tutto ciò bisognerà parlare in altre occasioni).

L’università (al cui interno operano istituti di ricerca nel settore dei beni demo-etno-antropologici, del teatro, della musica popolare, delle minoranze linguistiche ecc.) dovrebbe giocare un ruolo decisivo, abbandonando logiche di mera richiesta e di assistenza, tentazioni di consulenze e reperimento di fondi fine a se stessi, senza alcuna ricaduta pratica. E’ ovvio che le competenze e le professioni anche in questo campo (come avviene nelle iniziative di intervento pubblico) vadano attentamente esaminate, valorizzate e riconosciute, ma le “tradizioni” non possono costituire un luogo di consumo, di rivendicazione di spazi, di mera attrazione di finanziamenti. Gli istituti universitari e di ricerca dovrebbero candidarsi per un lavoro rigoroso di ricognizione, documentazione ed elaborazione dei “dati”, delle voci, dei suoni, ponendosi il problema di creare nuove professioni, nuove occupazioni grazie alle quali “riguardare” e “valorizzare” i luoghi. Esiste in tale direzione una proposta al Presidente Loiero di un “Museo delle Identità della Calabria” (collegato a una rete museale aperta, diffusa e ramificata sul territorio, con attenzione all’emigrazione, all’alimentazione, alle catastrofi, al cibo e all’acqua, alle storie di vita e alle tradizioni orali, ecc.) e  anche la bella idea di un “Museo della ‘ndrangheta” (con un centro studi permanente sulla legalità) di cui ha scritto su questo giornale Fulvio Librandi. Vorrei ricordare che di una legge regionale sulle tradizioni popolari parla da tempo anche il consigliere regionale Egidio Chiarella.

Sarebbe incomprensibile che, con i nuovi mezzi oggi a disposizione, non si faccia nemmeno quello che hanno fatto i folkloristi del passato forniti soltanto di matita e quaderno. Memorie, tradizioni orali, feste, riti, linguaggi, antichi e nuovi, potrebbero essere registrati, documentati, filmati, classificati, archiviati (con rigorosi criteri scientifici e senza la consueta improvvisazione) e fare parte di un “Archivio regionale della memoria e delle identità”. Si parla tanto di risorse della regione e non ci si rende conto del grande patrimonio sonoro, linguistico, rituale, “immateriale” che spesso va scomparendo o che altre volte si sta rinnovando o che altre ancora viene decorosamente inventato da attori locali e scoperto e “valorizzato” da tanti appassionati che non hanno e non chiedono alcun aiuto e che sono mossi soltanto passione per la ricerca e da amore per la propria terra.

Perché anche là dove siamo avanzati nell’elaborazione e nella proposta culturale dobbiamo attendere sempre l’impulso dall’alto o dall’ esterno? La politica regionale (non faccio problemi di appartenenze e di schieramenti, sarebbe auspicabile un’iniziativa, una legge che impegni tutte le forze politiche, tutto il Consiglio Regionale), deve fare la propria parte. Deve dire finalmente quale idea di Calabria ha in mente: quella edulcorata, enfatica, delle sagre di basso profilo o quella dei grandi eventi in cui si ripensi, in maniera problematica, l’appartenenza, ma anche il rapporto tra il mondo locale e quello globale. Deve capire se rassegnarsi ad “accontentare” (restandone ostaggio) sempre famelici clienti, parenti e amici, o diventare invece protagonista di scelte coraggiose, mirate, responsabili, magari regolate con un’apposita legge regionale sulla valorizzazione delle tradizioni locali, che prenda a modello, senza copiare meccanicamente, le indicazioni dell’Unesco e quelle nazionali, coinvolgendo attivamente, lontano da logiche clientalari, giovani laureati, ricercatori, inventando anche nuove professioni per una generazione che non vuole più partire, ma qui ed ora vuole misurarsi con i nuovi linguaggi.  E anche sollecitando la partecipazione di privati, piccoli produttori, artigiani, operatori turistici.

Bisognerebbe avere la capacità, la volontà, il coraggio di scegliere, selezionare, privilegiare secondo logiche di qualità, ma anche produttive e con attenzione ad eventi che hanno già forte capacità di attrattiva e, almeno in parte, sperimentate. Bisognerebbe (con la partecipazione di diversi attori pubblici e privati, di esperti e di operatori culturali) scegliere anche da noi un numero limitato di eventi di grande respiro, di qualità, di attrazione a partire dai quali “catturare” lo sguardo di locali e forestieri, promuovere iniziative in campo economico, artigianale, turistico e anche restituire fiducia e sano (e non retorico) orgoglio dell’appartenenza, spingendo all’emulazione anche quei “piccioli luoghi” ricchi di storia e di risorse culturali e umane che attendono di essere inserite in una rete di comunicazioni e di produzione di eventi che dia un’immagine unitaria, articolata, non angusta della regione. Un intervento mirato a sostenere (in varie forme) le iniziative locali, capaci di camminare con le proprie forze, in realtà tenderebbe ad “includere” (a vario titolo) quelle zone dove più forte è il problema dello spopolamento. 

Il pessimismo, in questa terra, è scontato, ma oggi è necessario che ognuno, nel proprio campo e con le proprie competenze, si adoperi generosamente per inventare e alimentare la speranza.