Il Prof Teti manda tanti auguri di buone feste a tutti gli emigrati
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24 dicembre 2007
C'era una volta il Paese e il Presepe
di Vito Teti

C’era una volta il Natale e c’era la comunità, c’era il presepe e c’era il paese… Presepe e paese erano strettamente abbracciati, quasi innamorati, nella Calabria del passato al punto che, come scrive Alvaro, il figurinaio che lavorava la creta (la stessa creta rossa e verde con cui i Greci fecero vasi e figurine) a Natale andava in giro a rivedere i personaggi delle presepe e a introdurvi i personaggi nuovi della vita delle persone, «perché gli stessi Presepi sono trasformati in rappresentazioni della vita locale, con la zingara, lo scemo, il cacciatore, i carabinieri che arrestano un ladro di montagna».
D’altra parte l’idea e l’immagine del presepe venivano in mente e in soccorso a quanti volevano descriverlo e raccontarlo in quel suo inconfondibile adagiarsi alle rocce e alle colline, nella sua dimensione geoantropologica. L’immagine del paese presepe, come ha ricordato Luigi Lombardi Satriani, è certamente una delle più ricorrenti nella narrativa calabrese e nella letteratura meridionalistica. Celebre la descrizione di Alvaro in Gente in Aspromonte: «Il paese è calmo e denso più di una mandra. Nelle giornate chiare i buoi salgono pel sentiero scosceso come per un presepe, e, ben modellati e bianchi come sono, sembrano più grandi degli alberi, animali preistorici…».
Il presepe raccontava il paese, lo rappresentava, e il Natale lo rifondava, rovesciando l’ordine di ogni giorno e costruendo un tempo e una Nascita mitici. In una notte santa e magica dai monti e dalle valli scorrevano latte e miele. Fontane e fiumi accoglievano olio e vino invece dell’acqua. La sera della vigilia veniva apparecchiata la tavola per i familiari defunti; gli “strinari” "andavano a cercare cibi e bevande, il pasto era costituito da nove, tredici, ventiquattro portate. Leggende e rituali del periodo natalizio, rinviavano a una dimensione meravigliosa, a un mondo alla rovescia che prefigurava una sorta di età dell’oro, di abbondanza e di letizia, a un’attesa di rinnovamento. Vivi, defunti, animali, cose, cibi costituivano un insieme indissolubile che riaffermava, a livello simbolico, un tempo nuovo e una vita nuova. Nulla più della figura dell’incantato del presepe che guarda assorto e fisso la stella, che annuncia la nascita del Bambinello, racconta lo stupore melanconico e utopico del calabrese che aspira alla giustizia; niente più di quel personaggio riassume il senso di stupore e di meraviglia delle persone che si trovano di fronte ad eventi straordinari ed eccezionali.
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Nostalgia di quel Natale? Dietro i sogni di abbondanza della povera gente si nascondeva un mondo di privazione e di fame. Ma la nostalgia non prefigura un ritorno al passato. Il termine dovrebbe essere prosciugato del peso di retorico e lacrimevole rimpianto di un buon tempo antico che tanta letteratura le ha assegnato. La fine di un’idea di una storia “progressiva” per cui quello che viene dopo è sempre migliore di quanto è accaduto prima aiuta a vedere nella nostalgia non tanto una sorta di sentimento regressivo, quanto una sorta di emozione per criticare un presente desacralizzato e per affermare un’idea di futuro diverso da quello che ci impone la più selvaggia globalizzazione e l’omologazione basata sui profitti di pochi.
L’Italia, non solo i paesi, fra anni cinquanta e anni sessanta vive un periodo di grande trasformazione, esprime energie e potenzialità diffuse, afferma capacità progettuali e ansie di riscatto e di emancipazione. Se ho nostalgia di quegli anni, non è soltanto perché (e di per sé sarebbe un buon motivo) erano gli anni della mia infanzia, ma perché allora i paesi uscivano dalla fame e dalla miseria, sognavano il cambiamento (i nostri contadini che occupavano le terre e i nostri emigranti che cercavano un mondo migliore sono i migliori testimoni) e nello stesso tempo erano ancora lontani da quel boom economico che avrebbe comportato la fine dell’antico mondo e, alla lunga, il trionfo delle merci e dei beni superflui. Ricordare quel Natale in cui i suonatori facevano la novena nel cuore della notte, i bambini andavano a zolle per il presepe. Ricordare il panettone (un panettone) che veniva atteso come un miracolo, le letterine ai genitori erano cariche di impegno, di attese e di speranze. Ricordare le cartelle della tombola segnate con le bucce delle arance o dei mandarini, gli auguri da dare alle vicine di casa, le interminabili giocate a stop e sette e mezzo, le serenate e i primi veglioni. Ricordare l’età in cui si attendeva qualcosa: il ritorno del padre emigrato in Canada, la Befana con le “susumelle” e i torroni di Soriano, la messa di mezzanotte per dormire, sognando, sulle sedie della chiesa. Ricordare quel Natale non significa sognare un ritorno al passato (che aveva anche le sue infelicità) ma meditare su questo presente pieno di oggetti e vuoto di valori, denso di conoscenze e scarso di legami autentici. Meditare su quella società dove ogni bene era necessario, sacro, mai inutile significa riflettere sul fatto che, come ricordava Pasolini, sul fatto che in un universo in cui ogni bene appare superfluo alla fine la vita stessa diventa superflua.
Una nostalgia critica, oppositiva, utopica ha un senso, tuttavia, se siamo capaci di uscire anche da una visione disperata del presente, se sappiamo cogliere anche la poesia del Natale che, nonostante tutto, permane, se siamo capaci di interrogarci sui grandi mutamenti conosciuti dai paesi.
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C’era un volta il presepe e c’era una volta il paese… Non è l’incipit di una fiaba e nemmeno di un incubo. E’ l’inizio di una storia che dobbiamo conoscere e sulla quale dobbiamo meditare. Mentre con la nonna e la mamma andavo in una piccola bottega del paese a comprare i dolci natalizi, il torrone, la tombola, i quaderni – avevo già capito chi era la Befana e Babbo Natale non era arrivato nei paesi – mio padre era in un posto magico chiamato Toronto. I compagni della quinta elementare si apprestavano a partire tutti in Canada. Tanti paesi della regione si svuotavano a seguito di alluvioni e di frane stavano costruendo un doppio lungo la costa o in posti lontani si dilatavano, uscivano fuori da sé. Dopo un secolo di partenze e di fughe, la Calabria conosceva una dispersione che nel giro di pochi decenni ha modificato organizzazione dello spazio, rapporto tra zone interne e zone marine, nell’antropologia delle popolazioni. Il paese compatto, si è slabbrato, riposizionato, deterritoralizzato in altri luoghi della regione o fuori di essa. Nei paesi dell’interno vengono, quasi quotidianamente, chiusi uffici postali, ospedali, scuole, botteghe artigiane, negozi, presidii delle forze dell’ordine. Quello che ieri ai locali e ai forestieri appariva «troppo pieno» oggi è diventato praticamente vuoto, “vacanti”. Anche lungo le coste con abitati anonimi, chiusi, dove il cemento e la devastazione hanno trionfato.
Sbaglieremmo, però, se non riuscissimo a cogliere le novità positive, le nuove risorse che stanno emergendo nelle comunità. Se non guardassimo ai paesi come a luoghi dove elementi tradizionali, arcaici, moderni e postmoderni convivono e interagiscono. Osserviamo il Natale di oggi: internet, panettoni, finzioni, irritazioni, telefonate, giocattoli, Winx, Sherek, Gormiti, PSP costituiscono ormai un continuum con alberi di Natale, zolle, pranzi tradizionali, canti attorno al presepe, messa di mezzanotte, visita ai parenti e ai vicini. Tornano ancora i defunti, e tornano ancora gli emigrati e arrivano immigrati provenienti dall’Est o dall’altra sponda del Mediterraneo.
Il paese resta ancora un luogo riconoscibile, con pratiche diverse da quelle di altri luoghi moderni e postmoderni. Parrocchie, amministrazioni, associazioni, pro loco organizzano iniziative di accoglienza, socialità, convivialità. Nel numero 2 di “Spola”, dedicato ai Paesi, molti studiosi, con un’angolazione diversa, raccontano la resistenza dei paesi, le eccellenze che vengono create, un ritorno al paese che vanno decifrati.
Guardiamo, con occhio libero, quello che insegnano i tanti presepi viventi segnalati in molti paesi della regione. Ricordo una delle prime manifestazioni organizzata a Celico nel 1978, ripresa da Rai 3 e trasmessa a livello nazionale. I paesi non erano ancora rassegnati e trovavano nel folklore e in una tradizione inventata elementi per arginare lo svuotamento e la dispersione in atto.
I presepi viventi vengono organizzati, nel periodo che va da Natale all’Epifania, in tante comunità (Bisignano, Savutello di Cleto, Castiglione di Falerna, Decollatura, Grotteria e l’elenco è soltanto indicativo, come si può capire leggendo le pagine di questo giornale) che conoscono gravi fenomeni di spopolamento e addirittura in paesi abbandonati, completamente vuoti, in zone deserte. Le rovine e i paesi vuoti diventano la scena di feste, pellegrinaggi, manifestazioni culturali, rappresentazioni teatrali, presepi viventi.
Mentre tanti paesi muoiono, le persone rimaste organizzano presepi viventi: invenzioni postmoderne che vedono come protagonisti giovani, anziani, emigrati che ritornano, professionisti. Se il presepe di una volta raccontava la vita, il presepe vivente sembra inventare una vita là dove non c’è più. Persone di tutte le età e di tutte i ceti, sparsi nelle mille Calabria, indossano vestiti (comprati, costosi, fantasiosi o cuciti artigianalmente) di contadini, pastori, artigiani, soldati romani, magi, la “sacra famiglia”, con bue e asinello, sostano nei vicoli davanti a vuote o camminano nelle strade e negli slarghi, dove sono state allestite botteghe artigiane e dove vengono preparati e offerti piatti locali. Vengono ricapitolate, a volte in maniera fantasiosa, importanti storie locali e riconosciuti antichi mestieri. Soltanto un sogno rivolto al passato o non anche l’indicazione che i saperi, i luoghi, le risorse del luogo possono costituire elementi di rinascita di questa regione? Il presepe vivente ricostruisce un paese immaginato e mitizzato, rivela un rimorso, un rimpianto, un desiderio di ritorno a un tempo perduto, a un luogo della memoria, svela sentimenti di dolore e di insoddisfazione, ma ricorda anche che i luoghi non muoiono facilmente e che un’altra vita appare possibile in questi posti. Tante persone, che mantengono un legame intenso o sofferto con il luogo di origine, da cui magari sono fuggiti, ci dicono che non serve illudersi con tentativi di ripristinare un improponibile del passato, ma che forse vale la penna affermare una nuova idea di paese. L’anno scorso ho seguito a Bova Superiore un presepe vivente, che quasi in maniera didascalica raccontava e rappresentava non il paese come era e com’è, ma il paese come potrebbe essere con case aperte ai turisti e agli emigrati, con botteghe artigiane e con produzioni alimentari, anche valorizzando antichi mestieri scomparsi, puntando sulla bellezza mozzafiato di luoghi. Vedendo camminare la gente tra quei vicoli vuoti che si riempivano ho immaginato che i nostri paesi potrebbero essere riempiti anche grazie ai beni immateriali da offrire con una diversa logica dell’accoglienza e dell’ospitalità, più vicina a quella della tradizione che non a quella di una retorica postmoderna che mira soltanto a grandi e a piccoli interessi personali e di gruppo, incapaci di creare beni e benessere comuni.
Monsignor Bregantini ha scritto della ’ndrangheta che è «una società vuota, apparentemente forte, ma all’interno fragilissima, per cui la si deve svuotare dall’interno, facendola ridicola e stupida». Dovremmo scoprire l’arte, la pazienza, la capacità di svuotare ciò che è troppo, inutilmente, pieno e di riempire ciò che è troppo, imperdonabilmente, vuoto. Proviamo a rendere più leggere le tavole piene di cibi, contribuiamo a rendere meno scarni i corpi di milioni di persone che muoiono di fame e di sete. Svuotiamo la nostra mente dai ricordi opprimenti e riempiamo i nostri occhi delle immagini dei bambini che inventano oggi il loro Natale. Meno panettoni, che buttano, e più carezze, che non sappiamo fare. Rinunciamo a tradizioni mute e sterili, e riempiamo i paesi di nuove culture, di nuovi saperi, di altri legami. Svuotiamo il nostro cuore di sentimenti di ostilità e conflittualità, coltiviamo nuovi sentimenti di accoglienza e di ospitalità, rinunciamo alla disperazione e apriamoci alla speranza. Fantasia e delirio? Forse. Sogno e utopia? Forse. Sono cresciuto appurando che anche le molliche erano necessarie, sacre e non andavano sprecate e che nella notte in cui nasceva il Bambinello gli animali parlavano, i potenti si intenerivano e diventavano buoni, e dai monti e dalle valli scorrevano latte e miele. C’è ancora il Natale, ci sono ancora i paesi. Dipende da noi saperli cercare e trovare.