Dal Quotidiano del 14 ottobre 2007

Antropologia

Sulla rappresentazione dei calabresi

LO  SGUARDO

ESASPERATO

Di Vito Teti

Meraviglie e limiti dell’identità...

e dell’uso del peperoncino

Approda oggi a Torino, nell’ambito della decima edizione del

“Festival Cinemambiente”, il libro di Vito Teti

“Storia del peperoncino” (Donzelli, Roma 2007),

durante un incontro dal titolo “Dall’America alla Calabria, all’India

il primo esempio di globalizzazione culturale”

(presso Palazzo Granari della Roccia, alle 11,30).

In Calabria, il libro di Teti sarà presentato il prossimo 26 ottobre

(a Rossano, presso il Museo Amarelli).

L’aperitivo letterario torinese di oggi,

sarà moderato dai giornalisti della “Stampa”

 Margherita Oggero e Rocco Moliterni.

In queste pagine pubblichiamo “Meraviglie e limiti dell’identità...

e dell’uso del peperoncino”,

saggio sull’identità calabrese e la percezione di essa

che costituisce l’ultimo capitolo del volume.

 

La Calabria è forse una delle regioni d’Italia che, tenendo conto della sua estensione e del numero dei suoi abitanti, ha conosciuto la sovraesposizione e, insieme, un’altrettanto significativa sottoesposizione delle proprie immagini.

L’essere stata il luogo delle città magnogreche, degli insediamenti greco- bizantini, una terra di passaggi e di arrivi, il luogo di grandi catastrofi (come il terremoto del 1783, ma anche di altri successivi), di rovine e di bellezze, il paese dei briganti e di tanti episodi cruenti, la patria di intellettuali famosi, un luogo di solarità e di alluvioni, emblema della povertà meridionale, metafora della lontananza e della diversità, luogo di grandi avvenimenti che hanno avuto risonanza a livello europeo: quelle del periodo della dominazione francese e del brigantaggio popolare, quella successiva all’unificazione nazionale e alla grande emigrazione di fine secolo e, nel secolo appena trascorso, le tante opere che si sono occupate del grande terremoto del 1905, di quello del 1908 che distrugge Reggio e Messina, delle lotte contadine per la terra all’indomani della caduta del fascismo, della povertà della regione, delle grandi alluvioni dei primi anni cinquanta, dei fatti di Reggio del 1970. La Calabria diventa, in questi frangenti, ma anche in altri, “luogo” di interesse più generale, i suoi paesi e le sue persone diventano simboli e metafore di processi più vasti. Tutte queste vicende ne hanno fatto una terra osservata e immaginata, compresa e ignorata, vilipesa ed esaltata, dimenticata e chiacchierata. La regione ha conosciuto una esasperazione degli sguardi che hanno condizionato i modi di percepirsi e di rappresentarsi degli abitanti. A pensarci bene, quasi tutti gli scritti, tutte le opere, anche le più importanti e le più originali, dei calabresi cominciano, quasi inevitabilmente, con qualche citazione: debbono smentire, attenuare,contrastare qualche immagine o pregiudizio esterni. Prima di parlare delle cose e dei fatti di Calabria, c’è qualche avvertenza o premessa di rito da fare. Bisogna misurarsi, confrontarsi, con quello che da altri è stato scritto. Spesso non si scrive per sostenere una tesi, ma per contrastarne un’altra, per confutare le immagini esterne, non tanto per affermare la propria soggettività, il proprio punto di vista.

È una sorta di condanna, uno svantaggio iniziale. È un giocare, necessariamente, sulla difensiva. Parlare di Calabria significa sempre dichiarare preliminarmente non tanto quello che la regione è, quanto piuttosto quello che essa non è, non tanto chi sono i calabresi, quanto chiarire che non tutti sono come di solito si dice o si vuole che siano. È un destino pesante quello che è stato consegnato, almeno a partire dall’epoca moderna, agli intellettuali e agli studiosi calabresi: fare sempre, qualsiasi cosa scrivano, una sorta di preliminare dichiarazione di intenti, una doverosa difesa d’ufficio. Ogni libro sulla Calabria, a ben pensarci, ha una parte già scritta, contiene sempre una sorta di sofferta, obbligatoria, necessaria premessa, una difesa della propria identità, una «pars destruens» dei luoghi comuni, dei pregiudizi, degli stereotipi, magari delle immagini enfatiche, esistenti sui luoghi di cui ci si intende occupare. Anche grandi autori calabresi, che rientrano a pieno titolo nella più alta tradizione del pensiero occidentale, che pure denunciano mali e ingiustizie della loro terra, sono stati costretti, di fronte a immagini negative esterne, a pregiudizi e a stereotipi, a rifugiarsi nel mito, a evocare bellezze e glorie locali, a difendere, anche in maniera artificiosa, una dignità offesa, a rivendicare l’orgoglio dell’appartenenza. Nel Seicento, nel Settecento e nell’Ottocento capitoli di libri e intere opere venivano scritti per confutare gli stereotipi più bizzarri e deteriori sulle popolazioni e i luoghi della Calabria. Nel 1737, in appendice all’opera di Gabriele Barrio, “De antiquitate et situ Calabriae”, ripubblicata con note di Tommaso Aceto e aggiunte di Sertorio Quattromani, il calabrese Pietro Paolo Frentano pubblica una dissertazione di 73 pagine dal titolo “Bruttii a calumnia de inlatis Jesu Cristo Domino nostro tormentis et morte vindicati”. Lo studioso calabrese rigetta la calunnia antibruzi (che avrebbero fatto parte della legione romana che partecipò all’uccisione di Cristo) che si era affermata a partire dal Cinquecento sulla base di infondate e imprecise annotazioni di autori romani, che non erano riusciti a domare i bruzi. I tenaci oppositori della conquista romana si erano guadagnati una fama ingiusta presso i loro nemici, che giocavano con facili, quanto improbabili e inesatte, deduzioni etimologiche:

Bruzii da bruti, bruttaces. Lo stereotipo spesso viene costruito facendo scempio del linguaggio e delle tradizioni degli altri. Altre tradizioni su Giuda Iscariota denominato Giuda Iscaliota e originario di Scalea, quindi calabrese, circolano nelle leggende anticalabresi diffuse a partire dal Cinquecento. Tante pagine e molta erudizione, tanto argomentare filologico, sono impiegati per contrastare una leggenda e fastidiosi luoghi comuni, proprio alla fine dell’opera di Barrio,

che si andava affermando, nonostante molte imprecisioni, come una sorta di costruzione identitaria, di appartenenza orgogliosa dei calabresi, presentando una mappa di bellezze, di miti, di luoghi leggendari, di eroi, di personaggi che rendevano il senso di una storia complessa, ricca e controversa. È una sorta di condanna (almeno a partire da Tommaso Campanella) dover dichiarare, giustificare, rivendicare la «propria identità a partire da ciò che non si è». È un buon esempio di quella costruzione identitaria basata sulla difensiva e sulla necessità di vantare tradizioni e storie “gloriose” per contrastare rifiuti esterni. Il carattere subdolo e perverso degli stereotipi è che costringono alla difesa e a rispondere con stereotipi di segno contrario, con retoriche identitarie. E spesso, per contrastare il pregiudizio, anche i locali hanno ceduto al luogo comune, alla retorica, o hanno elaborato immagini ostili nei confronti degli altri. E non di rado, per rigettare le immagini negative, si è scelta la via della chiusura, della difesa a oltranza, della rinuncia alla critica dei limiti, dei contrasti, degli aspetti meno edificanti della propria storia e della propria realtà. Permangono e vengono rinnovate puntualmente, ancora oggi, immagini generiche e pregiudiziali, che rinnovano antichi cliché, posizioni di tipo razzista. Le immagini esterne, spesso infondate, non di rado semplicistiche e offensive, hanno tra l’altro la responsabilità di portare spesso al rifiuto di qualsiasi giudizio critico proveniente dall’esterno. Il risultato perverso di questa gratuita costruzione di immagini negative all’esterno (o talora all’interno) è che quasi sempre, generano risposte risentite, difese d’ufficio edulcorate, retoriche. Spesso si finisce con l’indicare come frutto di ostilità e di generalizzazione tutto quello che sulla regione viene scritto. Siamo descritti, a volte con coraggio, come terra dove la ’ndrangheta esercita un forte controllo, ed ecco qualcuno risentito, pronto a dire che non è così, che non bisogna generalizzare, che bisogna parlare di un’altra Calabria. E allora, puntuale come i temporali, arrivano i richiami all’ospitalità, all’accoglienza, alle bellezze dei luoghi, magari devastati proprio da coloro che li esaltano. D’estate molti turisti che amano la Calabria o calabresi emigrati, o i loro figli, che ritornano nella regione, inviano lettere ai giornali per lamentare le devastazioni, il degrado e la sporcizia delle strade calabresi, le fogne che si tuffano nelle acque, le carcasse delle auto nei letti dei fiumi. Ecco le risposte indignate da persone che si sentono colpite di “lesa calabresità”: perché non vedete i lati positivi della regione? Perché venite in Calabria? Perché tornate? Perché non siete rimasti qui a cambiare le cose? Non soltanto è giusto, ma è anche doveroso, civilmente e culturalmente necessario, discutere e contrastare immagini che si ritiene non corrispondano alla realtà o la rappresentino in maniera parziale. Il problema è che poi la realtà viene enfatizzata e falsata evocando, in maniera ossessiva, glorie locali. Ulisse che sbarca dovunque, la nobiltà dei luoghi o dell’eredità magno-greca. Il mito o la storia sono tirati in ballo non tanto per difendere e riconoscere legittimamente il senso dell’appartenenza, ma anche per affermare un’identità edulcorata e inesistente. La risposta a una negazione esterna si traduce spesso in orgoglioso e tenace recupero della propria storia, talvolta in sentimento di superiorità. Il fuoco delle immagini esterne genera nell’osservato l’atteggiamento da assediato, proprio di chi diffida, di chi vede nemici dappertutto. E anche quando le immagini sono

positive, il riferimento ad esse viene fatto quasi per legittimare e dare maggiore consistenza alle proprie osservazioni. E anche le immagini positive della regione hanno un accoglienza “prevenuta” da una lunga storia di incomprensioni. La retorica sulla regione infastidisce gli antiretorici. Ma più in generale c’è una sorta di paura del giudizio degli altri. Si attende con apprensione e ansia un libro o un articolo (ma anche un film, un documentario, un’inchiesta televisiva), di qualche autore importante che si sta interessando alla regione. E nello sguardo esterno spesso si attendono elementi di riconoscimento, o di valorizzazione. Altre volte, quando magari sarebbe necessario, della Calabria non si parla. La regione torna ad essere, nei momenti più disperati, la grande dimenticata. E allora non sempre si chiede udienza con forza, non sempre ci si fa sentire in maniera legittima. Mormoriamo, sussurriamo, ci accontentiamo, deleghiamo gli altri a parlare e a rappresentarci. Ci lamentiamo e così alimentiamo la nostra immagine di persone lacrimevoli, ci irritiamo, e così alimentiamo l’immagine di gente che subito si esaspera, che passa dall’accettazione passiva alla ribellione. Una psicologia degli assediati e dei dimenticati, di chi si sente sempre sotto osservazione o sempre ignorato, di chi teme, attende, rifiuta, incoraggia, il giudizio degli altri. Questi meccanismi accentuano introspezioni esasperate, chiusure, risentimenti, che finiscono col confermare gli stereotipi che si vogliono negare. Finiscono col rendere i calabresi davvero patologicamente melanconici, insicuri, sfiduciati, e spesso complici del gioco degli sguardi. In tutti i casi si rivela sempre una sorta di “soggezione” di fronte a quello che di noi è stato detto o non detto. In tutto quello che fanno, è come se i calabresi dovessero mostrare e dimostrare qualcosa agli altri, dovessero superare un handicap dovuto a una negazione o a riconoscimenti esterni. È storia recente l’incarico affidato da un

qualche assessore della giunta regionale a un noto pubblicitario di promuovere l’immagine positiva della Calabria. L’assunto di fondo è che le immagini negative siano sempre quelle create dagli altri e non magari dagli stessi calabresi, con i loro comportamenti. E affidarsi a un nome alla moda, che visita superficialmente la regione, cerca di trovare quello che ha già in mente (come i peggiori rappresentanti del Grand Tour), per elaborare immagini positive della regione, da un lato suona come accettazione dell’incapacità dei calabresi di autorappresentarsi e dall’altro appare come una sorta di rinuncia a cambiare concretamente la realtà e a riprodurre così solo immagini positive e innovative. Il risultato, quasi paradossale, è che, nel tentativo di respingere gli stereotipi, questi ultimi vengano amplificati e dilatati, creando la sensazione che davvero è difficile cambiare la realtà. Ancora una volta la domanda diventa: cosa c’entra il peperoncino? Che ruolo gioca il piccolo frutto in questi controversi processi identitari? Da elemento di “persuasione” rischia di essere trasformato in elemento di “retorica”. Il peperoncino sovrano sembra avviarsi a perdere il proprio fascino proprio perché inserito in esasperate, riduttive, folkloristiche costruzioni identitarie, oltre che alimentari. Troppe volte, quando non si ha nulla da dire rispetto ai mali della regione, si tira fuori, nei discorsi, il peperoncino. E così un elemento cardine della cucina calabrese e di una grande civiltà della tavola viene spesso ridotto a tratto caricaturale dei calabresi. Non sono in discussione - sia chiaro – i mangiatori di peperoncino, coloro che lo promuovono con manifestazioni alimentari e culturali di qualità, quanti camminano con i peperoncini in tasca, coloro che vedono nel pepe rosso un tratto distintivo e irrinunciabile del gusto e del piacere alimentare. È in discussione la sua versione edulcorata. La fortuna del peperoncino ha origini profonde, plurali, affascinanti, che non meritano di essere ridotte a “tratto genetico”, ipotizzando quasi una sorta di razzismo alimentare. Il peperoncino non può diventare l’ennesima leggenda, l’ulteriore favola delle popolazioni del Sud. L’estrapolazione del peperoncino da una storia alimentare di lunga durata, dal contesto in cui si è affermato, dalle pratiche culinarie e dalle concezioni dietetiche che lo hanno elevato a sovrano comporta infatti un’immagine riduttiva, parziale, della cucina calabrese e dell’intera regione. I piatti piccanti, le mille ricette con peperoncini e peperoni, il morzeddhu e la ’nduja, la sardella e i peperoni ripieni hanno una dignità, una ricchezza, una peculiarità che non possono essere alterate in nome di un’equazione strumentale tra “calabresità” e consumo di peperoncino. Sono significative allora le reazioni di quanti non mangiano il peperoncino, di quanti si sentono calabresi anche se non lo consumano, di quanti ritengono che un suo uso esagerato sopra ogni pietanza possa essere un ostacolo alla valorizzazione della cucina calabrese. Se molti ristoratori puntano tutto su una proposta eccessiva di peperoncino dovunque e comunque, su qualsiasi piatto e su tutti i preparati, altri gastronomi e cuochi famosi, pur riconoscendone l’importanza, e anche non disdegnandone l’uso,

invitano alla moderazione, a non esagerare, ad adoperarlo senza che alteri e soffochi il sapore degli altri alimenti, a utilizzarlo su piatti in cui è indicato e ai quali si accompagna bene. Proprio ristoratori e gastronomi, che mantengono

un legame più problematico con una tradizione aperta e mobile, che si interrogano sulle mutate condizioni alimentari e culturali, sulle diverse esigenze e disponibilità, inventano piatti, dolci, crostate, creme, liquori in cui il peperoncino trova una nuova vitalità e viene esaltato all’interno di miscugli e di combinazioni di sapori prima impensabili. Se molti camminano con il peperoncino per nascondere e aggirare i pessimi sapori di una cucina globalizzata e standardizzata, altri immaginano che bisogna affermare il valore delle cucine locali nella loro interezza. Il locale (non solo il peperoncino), un tempo rimosso e negato, adesso viene promosso, rivalutato, considerato per i suoi presunti valori antagonisti o alternativi. In realtà, se decontestualizzato, rischia di venire mummificato, astoricizzato, imbalsamato, con il risultato di creare una sorta di identità perenne, immobile e immutabile, mai esistita. L’operazione non è sprovveduta: si toccano corde e sentimenti ed emotività non estranei a un sentire popolare, vengono riproposti, in maniera confusa sapori, colori, sonorità, ritmi, immagini, che appartengono a una tradizione meridionale e mediterranea, che andrebbe però conosciuta nella sua complessità e storicità. Altrimenti il risultato è una poltiglia postmoderna, dove non si distinguono né odori e né sapori, e si finisce con l’affermare quella standardizzazione che si vorrebbe contrastare. La Calabria dei nostri giorni presenta immagini di mobilità, appare una terra senza centro, abitata da persone che hanno un continuo bisogno di fare mente locale all’interno di paesaggi, luoghi, situazioni sfuggenti, non definibili. I paesi e le persone in Calabria sembrano essere sempre fuori posto, si sentono in un posto diverso da quello in cui sono. Il paesaggio geografico, culturale, umano, è attraversato da onde, convergenti e divergenti, di nostalgia. Il cibo, il peperoncino, la cucina spesso possono diventare vie di riconoscimento e di orientamento a condizione che non vengano ridotti a linguaggi muti e separati. Ciò che si critica è una sorta di “insensato esclusivismo” alimentare. Qualsiasi elemento della storia, del paesaggio, dell’antropologia della regione (il mare, il bue primigenio di Papasidero, i Bronzi di Riace, il peperoncino e così via), nel momento in cui si erige a emblema esclusivo di una terra ricca e plurale, quando viene enfatizzato come la “vera espressione” dell’autentica immagine della Calabria, magari a opera di gruppi politici dirigenti che non hanno, davvero, una bella immagine,

assume anche tratti folkloristici. Sappiamo come l’uso dell’antico e il riferimento al classico (per dirla con Salvatore Settis), abbiano costituito elementi di identificazione per le élites e come il riconoscimento di momenti e figure alte

della propria storia risponda al bisogno di criticare il presente; ma l’uso del classico ha significato sottovalutazione o cancellazione di periodi ed eventi storici ugualmente fondamentali per la costruzione di un’identità plurale e dinamica regione. La memoria, intesa come costruzione sociale, è fatta di ricordi e di oblii, di rimozioni o di esasperazioni. Scegliamo, non a caso, un passato di comodo (o ritenuto tale), spesso mitizzato, da “commemorare” e da celebrare.

Si può scegliere anche il peperoncino, ma non va separato da una storia alimentare più complessiva, da storie di fame e di abbondanze, di penurie e di mescolanze. Le cucine del Mediterraneo hanno una storia alimentare diversa da quella del Messico precolombiano, dove per millenni mais, fagioli e peperoncino sono stati alimenti base e quasi esclusivi. La Calabria si presenta con una ricchezza e varietà di prodotti tipici e tradizionali, antichi e moderni, che meritano di essere conosciuti e valorizzati. Il problema è che spesso il riferimento al tipico o al peperoncino occulta l’incapacità di promuovere e valorizzare in maniera convinta i prodotti alimentari e i beni culturali, materiali e immateriali. E non a caso il peperoncino in Calabria arriva, magari alterato, dall’esterno, e non a caso la regione stenta ad affacciarsi sui mercati nazionali e mondiali con i suoi mille prodotti. L’enfasi impedisce un reale legame con la tradizione e la retorica ostacola la possibilità di ridarle voce, di trasformarla in risorsa. Il peperoncino non va svenduto, come una merce qualsiasi, al migliore offerente di immagini e di stereotipi. Ha segnato la mente e il corpo, i sogni e le passioni di generazioni di calabresi, non si può ridurre a una sorta di grimaldello identitario, a volte esibito in maniera ostile e minacciosa, buono per tutte le occasioni. Ed ecco allora che anche le vicende del peperoncino ci portano a ripensare il senso di un’appartenenza che si configura come il risultato, mobile e mai definitivo, di un cammino, come una conquista faticosa e dolorosa, che richiede sempre nuove invenzioni. L’appartenenza a un luogo è fondamentale

per riconoscerci e per ritrovarci, per orientarci, ma oggi dobbiamo saper coltivare anche la capacità di sentirci “fuori luogo”, di metterci in gioco, di aprirci, di entrare in dialogo con altri luoghi, di saper accogliere gli altri nei nostri luoghi.

Quando oggi vi capita di osservare le piante di peperoncino sui balconi dei paesi calabresi, quando nelle case vecchie,  nuove, sventrate, sempre in costruzione e incompiute, vedete appese le lunghe reste di pepe rosso, quando nei luoghi in cui sono emigrati i calabresi scorgete una grande quantità di pepe verde, rosso, conservato nell’olio, essiccato; quando sentite un vostro commensale calabrese chiedere il pepe anche per pietanze del tutto estranee alla propria tradizione alimentare; quando scorgete qualcuno tirare fuori dalla propria tasca un peperoncino rosso con cui tenta di dare sapore all’immangiabile pasto, non pensate a una stranezza, a una stravaganza, a un’esibizione, a un atteggiamento conservatore o retorico, a una difficoltà d’adattamento. Quando un calabrese chiede il peperoncino e lo versa religiosamente e in maniera sacrale su tutte le pietanze, non compie soltanto

un atto alimentare: egli sta parlando della storia e della cultura della propria regione; narra di antiche privazioni e di recenti conquiste, di una fame antica e di tradizionali utopie alimentari, di desideri di abbondanza; riepiloga le immagini che nel tempo gli altri hanno costruito su di lui; rivela la sua identità, affermata, negata, mitizzata; sta confessando la sua nostalgia; si presenta e si svela con i suoi vizi e le sue virtù; narra, in maniera inconsapevole, le verità e le retoriche, lontane e vicine, della sua terra; riporta storie di luci e di ombre, di soggezione e di desiderio di libertà, di limitazioni e di fantasia. Osservatelo, ascoltatelo: egli, forse senza saperlo, senza volerlo, sta esprimendo il bisogno di parlare e di esserci, si sta presentando e raccontando.