Dal Quotidiano dell’8 febbraio 2007

 

nel testo dell'antropologo vito teti


Ode al vampiro
nobile e malinconico

di SONIA SERAZZI

Copertina

 

Una leggenda talmudica racconta che il pipistrello non fu ammesso a bordo della salvifica arca di Noè: al nero uccello notturno è precluso lo scampo, il rifugio, il riparo. Uguale sorte disperante tocca al vampiro, che talvolta in pipistrello si muta.
Mi pare questa salvezza impossibile il risvolto vibrante del saggio di Teti sulla malinconia del vampiro, un libro denso sull'evoluzione di una figura folklorica che assume spessore archetipico per la cultura moderna e postmoderna. Dall'Europa illuminista, il vampiro - lemure inquietante che brama la vita d'altri per vincere la propria morte - risale ammansito e trasfigurato fino alla contemporaneità, così un corpulento spettro avido di carne e sangue si fa emaciato dandy nella letteratura ottocentesca, e fascinosa autorappresentazione di molti intellettuali tormentati dei giorni nostri.
Confesso d'essere grandemente turbata da inestirpabile avversione per i cadaveri viventi: rispetto i soffi lievi e giocosi degli spiriti e il loro timido avvinghiarsi ai sogni, ma non concedo altro alle ombre. Più generoso di me, Teti fruga il mondo infero e addita il pozzo necrofilo da cui la cultura contemporanea pesca perturbanti figure di revenants che scoperchiano avelli per nostalgia dell'esistere: una sollevazione di anemici che sperano dalle vittime il sangue di cui sono sprovvisti. In tal senso, il malinconico vampiro di Teti raffigura degnamente una contemporaneità incentrata sulle modali
tà di fruizione succhia-e-sputa, che non arretrano neanche davanti all'orrore di corpi feriti morenti e squarciati raccolti dai televisori. L'oscura inquietudine del vampiro - di cui Teti scorge lucidamente le potenzialità di destrutturazione dell'agire seriale e irriflesso - degenera in compulsiva e famelica iperattività: la moltiplicazione del desiderabile compensa vacuità ostentate con compiacimento mondano, quasi che al vuoto spetti l'onore dell'abissale profondità, invece che il rapido turarsi il naso che di norma meritano le fogne a cielo aperto.
Già Guido Ceronetti - in un articolo ripreso da Teti - disocculta la natura commerciale dei contorcimenti vampirici dei nostri tempi. I vampiri di Ceronetti succhiano musica e pubblicità, mordono bambole di gomma e amano i loro scaltri allevatori. Il vampiro postmoderno è tacchino d'allevamento costretto in gabbie illuminate full time, perché la costante esposizione agli stimoli moltiplichi gli appetiti e le conseguenti escrezioni. Intestini ipercinetici e onnivori divorano e defecano orali e scritti, in una contaminazione del gusto che alza la soglia di tolleranza dell'orrore: tutto è digeribile, purché scuota appena anime stagnant
i ridotte a contemplarsi l'ombelico.
Ho letto in prestito "Zoo" di Isabella Santacroce: il padre della protagonista muore d'infarto, la protagonista precipita dalle scale e guadagna una sedia a rotelle sulla quale si svaga torturando la madre, infine - consumato un incestuoso rapporto saffico con la genitrice - la funesta paraplegica si libera di chi l'ha partorita soffocandola col cuscino. La tormentata scrittrice narra il letame sguazzandoci meglio che nei fanghi termali, e alle parate televisive di cui si pasce esibisce un eterno volto cupo e sofferente. Sul grazioso musetto imbronciato della tenebrosa fanciulla spicca sempre un rossetto infuocato: irrinunciabile cosmetica del soffrire.
Ben più seria, la scrittrice inglese Sarah Kane - in "Psicosi delle 4.40" - scrive: "Tutto passa/ tutto muore/tutto viene a noia." Quasi l'urlo delirante di una coscienza frammentata da eventi agiti, subiti e osservati. "Come faccio a fermarmi?" si domanda ossessivamente Sarah Kane. E si risponde suicidandosi a ventott'anni: coerentemente. Per contro, i colleghi quaquaraquà della Kane si pagano la pagnotta inscenando letterari squartamenti e carni varie maciullate amputate e insaccate. Intanto la sfangano, di libro in libro.
Quello indagato da Teti ne "La malinconia del vampiro" è vampiro raffinato e sensibile, melanconico che si strugge d'amore indolenzito e tragicamente negato. I banali vampiri delle cronache sterminano i vicini caciaroni, succhiano il sangue delle stragi da schermi al plasma o romanzano la ferocia celebrandola. Di questi vampiri che sfruculiano compiaciuti il sanguinolento, Teti scava le radici più nobili, e solo ad esse volge lo sguardo: una saggezza inattuale di cui i lettori di classici gli saranno grati.

 

ALCUNI BRANI

 

La figura del vampiro dal folklore dell’Europa centrosettentrionale alle dispute settecentesche, dalla letteratura romantica alla psicoanalisi, dal cinema all’industria culturale, dai fumetti a internet. Presente in innumerevoli paesi e tradizioni locali, legato alla credenza nel ritorno dei defunti e alla concezione del sangue come elemento di morte e di vita, dilagante nei periodi di più traumatica transizione storica, il morto non morto accompagna tutto il corso della modernità. Segno di contraddizioni inconciliabili, questo prigioniero della notte incarna la condizione di un soggetto ormai pienamente esposto allo sradicamento e alla precarietà. Tragica parodia dell’eterno ritorno in un mondo governato dal tempo lineare, né vivo né morto, costretto a distruggere ogni oggetto del suo desiderio, il vampiro assume, nell’immaginario colto e popolare, i tratti dell’afflizione e del sentimento melanconico che hanno segnato la tradizione dell’Occidente dall’antichità ai nostri giorni. Oggi il vampiro si presenta come l’ultimo abitante e la metafora delle rovine postmoderne, al tempo stesso annunciate e inimmaginabili – da Chernobyl a Beirut, dall’ex Jugoslavia a Baghdad e alle Twin Towers – e sembra raccontare paure e speranze legate ad un’inedita angoscia di fine del mondo e ad un nuovo sentimento degli altri e dei luoghi.

PRESENTAZIONE

RITORNANO, PRIMA O POI

I vampiri, assumendo connotati diversi, ritornano, prima o poi.
Anche i libri sui vampiri – così immaginano e sperano, probabilmente, i loro autori – hanno una qualche possibilità di ritornare, di non morire.
Il ritorno di questo libro è dovuto al fatto che la prima edizione è praticamente introvabile e continua ad essere richiesta da più parti. La figura del vampiro insiste a offrire elementi di riflessione per capire il senso o il non senso di aspetti culturali caratterizzanti quella che, con buona approssimazione, chiamiamo tradizione occidentale.
Ho faticato, alquanto, per addomesticare la tentazione di aggiungere, rivedere, precisare, tenendo conto, anche, della vasta letteratura apparsa negli ultimi anni sugli argomenti trattati, oltre che dei mille avvenimenti accaduti nell’arco di oltre un decennio. Mi sono reso conto che avrei finito con lo scrivere un altro libro e, dunque, mi sono limitato, oltre che a pochi indispensabili ritocchi e integrazioni, all’aggiunta di un nuovo paragrafo, che dà conto parziale della più recente fortuna del vampiro nell’immaginario dell’Occidente.
I ritorni, in fondo, non sono mai del tutto possibili. Non sono mai «ritorni» all’origine, acquistano sempre un altro senso da quello pensato e dichiarato. Ogni ritorno rappresenta sempre una novità.


IL REVENANT DALLA TRADIZIONE AL MODERNO E AL POSTMODERNO

Le definizioni del vampiro sono numerose e il termine spesso indica figure diverse. Non sarebbe inutile una contestualizzazione, geografica, territoriale, antropologica del revenant di cui si parla. Il vampiro, «morto-non morto» che ritorna per disturbare, contagiare, uccidere i vivi, spesso succhiando loro il sangue, non può essere separato dalla paura del ritorno, perturbante e pericoloso, dei defunti, presente in tutte le società arcaiche, tradizionali e primitive. I morti nelle diverse culture sono stati considerati, temuti, affrontati, in un certo senso, come «entità ostili», come possibili vampiri.
In quanto legato alla paura della morte e alla nostalgia della vita, al culto dei defunti e al timore che possano tornare, spesso a concezioni del sangue come elemento di vita e di morte, il vampiro si presenta come una sorta di archetipo, come una figura ricorrente, con caratteri e comportamenti diversi, in tutte le culture e le società tradizionali. Appare, pertanto, plausibile, ma abbastanza problematico, tentare di individuare le origini e i caratteri costitutivi del fenomeno che nel Settecento sconvolge intere comunità dell’Europa centrosettentrionale prima di contagiare i salotti, le gazzette, l’immaginario delle principali città europee (Londra, Parigi, Vienna, Napoli, Palermo), dove viene accolto e reinventato anche con immagini e motivi presenti nelle culture e nelle tradizioni locali.
Le ipotesi sulla provenienza geografica e sull’origine culturale del moderno vampiro sono diverse. Gli studiosi hanno rintracciato dovunque figure e motivi vampirici che poi sarebbero confluiti nella configurazione del moderno vampiro. Anche i legami tra vampiri, lupi mannari, sciamani, streghe – tutte figure che raccontano un legame tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, una continuità tra vita e morte – sono molteplici e sembrano rinviare ad un analogo sostrato culturale arcaico. E tuttavia fenomeni come il vampirismo, la possessione diabolica o degli spiriti, lo sciamanesimo, la caccia alle streghe, il licantropismo, il cannibalismo rituale e non – con evidenti somiglianze – si sono presentati, nella storia e nelle tradizioni di diverse aree geografiche, con una diversità che soltanto molte invenzioni postmoderne hanno saputo mescolare e confondere.
La questione decisiva, però, uscendo da congetture, ipotesi, ricostruzioni sempre in qualche modo fondate, che mi sono posto in questo lavoro è stata quella di ripensare come e quando il motivo della paura dei defunti che ritornano come vampiri, diffuso in contesti geografici, storici e culturali lontani, abbia dato origine, insieme ad altri elementi e ad altri fattori, «una e una sola volta nella storia» complesso, drammatico fenomeno storico di diffuso e spaventoso ritorno di vampiri. Mi sono posto, in altri termini, il problema di come e perché l’Occidente colto e illuminato, quello dei filosofi e quello degli uomini di Chiesa, che si interrogavano sulle superstizioni popolari, abbia «scoperto» il vampiro.
La grande epidemia vampirica (che si concludeva con dissotterramento di cadaveri e una nuova «uccisione» con il paletto nel cuore a cui seguiva di solito la cremazione) degli anni Trenta del Settecento in Ungheria, Moldavia, Slesia, Polonia aveva infatti accompagnato, in maniera drammatica, la fine di un antico universo, aveva segnato, in maniera talora cruenta e raccapricciante, l’erosione e la fine delle società tradizionali e l’affermarsi delle concezioni moderne.
Il contagio settecentesco è all’origine delle invenzioni, delle elaborazioni, delle mitizzazioni colte del secolo seguente. È possibile individuare in quella violenta e improvvisa esplosione gli ultimi rumorosi «strepiti» di un mondo in agonia, l’esito finale della drammatica lotta che l’illuminismo e la Chiesa cattolica (e anche quella ortodossa) conducevano, in diverse forme, contro le superstizioni popolari e le concezioni arcaiche. Un fenomeno unico e irripetibile, che ha accompagnato il crepuscolo di culture tradizionali millenarie e ha segnato il controverso affermarsi della modernità.
Il vampiro delle superstizioni popolari dell’ancien régime, a dispetto delle previsioni degli illuministi, tornava ben presto sotto nuove vesti, si guadagnava una nuova vita. Si trasferiva, con eccezionale capacità di trasformazione, nella cultura colta e nel nuovo folklore europeo, e contagiava la produzione letteraria, teatrale, artistica di molti paesi, si diffondeva nei centri di quella modernità che avrebbe dovuto allontanare paure, tenebre e ignoranza.
All’inizio dell’Ottocento il vampiro si incarna, in maniera inquietante, nell’eroe fatale e romantico di ascendenza byroniana. Soprattutto dopo The Vampyre (1819) di John William Polidori, il vampiro diventa una figura forte delle costruzioni letterarie dei romantici. Negli anni Venti dell’Ottocento non c’è a Parigi un teatro – così scrivono i giornali dell’epoca –, che non metta in scena un vampiro. A partire da quel periodo, moltissimi scrittori e poeti vengono attratti dalla figura del vampiro. Il termine vampiro diventa metafora di tante figure, positive e negative, del male assoluto, del diavolo, del cannibale, del capitalista, ma anche dell’artista, del flâneur, dell’errante, del seduttore, dello straniero, dell’esule, dell’emigrante. Vampirizzare diventa un verbo riferito alle situazioni più varie.
Questa grande dilatazione del termine è possibile perché la figura del vampiro si afferma in una tradizione culturale nella quale la melanconia e le rovine, a cui è strettamente connessa, avevano una storia di lunga durata e si apprestavano a raccontare il lento affermarsi del moderno. [...]