Dal Quotidiano del 4 aprile 2007

 

 

I riti della Settimana Santa

La sofferta narrazione e l’intensa rappresentazione del trionfo della vita sulla morte

di Vito Teti

 

 

I riti della Settimana Santa e del giorno di Pasqua  (in alcuni centri, come Arena e Dasà, l’ “Affruntata” si svolge il lunedì o il martedì dopo Pasqua) – e non separerei i riti, le scampagnate, le forme di aggregazione e di convivialità della Pasquetta  – segnano, in maniera abbastanza “omogenea” l’intero territorio calabrese e presentano una ricchezza e un’articolazione, che stupiscono anche per la grande capacità organizzativa e per il lungo impegno profuso da intere comunità, soprattutto dai giovani.

Più delle feste estive, più dei tanti pellegrinaggi, più delle feste natalizie, il racconto della morte e della rinascita coinvolge e accomuna le diverse comunità, a volte sparse e frammentate, erose e dilatate, vuote o sovraffollate, della regione.

Ho osservato a partire dalla metà degli anni settanta i riti famosi e meno noti della regione; molti li ho documentati e filmati: la sacra rappresentazione di Laino Borgo, e quelle che si svolgevano a Luzzi e a Borgia, i riti di Cassano e le affruntate del Vibonese (Vibo, S. Onofrio, Filogaso, Maierato, S. Gregorio, ma anche quelle di S. Vito sullo Jonio, Badolato, Gioiosa Jonica), il rito dei vattienti di Nocera Terinese  e, naturalmente, tutti i riti che si svolgono nel mio paese di origine (con canti liturgici in latino). L’attenzione degli studiosi e degli stessi giornalisti, autori di mappe festive, è quasi sempre rivolta, non senza buone ragioni, verso riti considerati più “spettacolari”, “particolari” “originali” per la presenza di elementi, come il sangue o gesti altamente drammatici, che li rendono notevolmente (a volte “morbosamente) “attraenti”.

 

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Vorrei spendere più di una parola per segnalare e ricordare quei tanti riti “sconosciuti”, poco “frequentati” e poco “segnalati”, che hanno una dimensione strettamente comunitaria, quasi intima, ma carichi di tensione, di passione, di spirito organizzativo, di partecipazione a volte più “forti” di quelli “pubblicizzati” e inseriti in una sorta di mappa di “turismo religioso” (che peraltro interessa poche persone e quasi sempre studiosi, fotografi, operatori).

Non certo per invitare a riti “incontaminati” ed “autentici”, che non esistono, o perché immagino aree da tutelare e magari da sottrarre (o viceversa da sottoporre) allo sguardo esterno, ma al contrario per sottolineare che l’importanza e la centralità di un rito spesso sono il frutto dello sguardo esterno e che noi stessi siamo, comunque, parte dei riti, interni ad essi. L’incontro, lo scambio culturale, gli sguardi esterni non sono irrilevanti per le costruzioni identitarie delle comunità che si pretende di rinchiudere in una sorta di immobilità. I tanti osservatori non si rendono conto che fanno parte di un nuovo rito, di un nuovo folklore, dello spettacolo che pensano di osservare e che invece concorrono a costruire. Gli stessi studiosi, i folkloristi, gli antropologi, i fotografi, i cineasti, i giornalisti sono responsabili dell’invenzione di tradizioni, delle modifiche delle feste,  della creazione di un neofolklore. In molti riti la presenza di fotografi, operatori, cineoperatori che si avventano sul congregato o sul “flagellante” hanno modificato la struttura e la morfologia del rito, si sono inseriti in una nuova ritualità, che meriterebbe di essere “osservata” e “indagata”.

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E’ per queste ragioni che a tali riti bisogna accostarsi con attenzione, in maniera non superficiale, con “partecipazione”, con la consapevolezza che spesso non siamo percepiti, e non siamo, esterni al rito. Nel “guardare” questi ed altri riti, bisognerebbe evitare atteggiamenti di esotismo postmoderno, di fragile e debole concessione a un turismo religioso, sia abbandonare la tentazione di “folklorizzare” i nostri luoghi, riducendone i riti a colore, considerandoli frammenti muti di un mondo scomparso, o elementi di curiosità e, a volte, di una qualche incoffessata morbosità. Dovremmo interrogarci sul significato che ai riti viene dato da coloro che li vivono e li praticano, individuandone  i tratti più remoti e lontani (a volte precristiani: si pensi ai “germogli” portati nelle chiese il giovedì santo; altre volte riconducibili ai riti medievali, al periodo della Controriforma, alle influenze spagnole), ma dovremmo essere attenti soprattutto all’attualità, alle forme di invenzione della tradizione e di neofolklore conosciute negli ultimi anni dai nostri paesi, in coincidenza con le   grandi trasformazioni sociali, culturali, economiche, antropologiche di una terra sempre incompiuta e alla ricerca di senso.

 

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Tutti i riti, che si svolgono nella regione, nei grandi e nei piccoli centri, quelli più famosi e quelli sconosciuti all’esterno, hanno al centro la “rappresentazione”, la “narrazione”, la “drammatizzazione” di una vicenda “esemplare”. Le processioni del Venerdì o del Sabato Santo, le sacre rappresentazioni della passione e morte di Cristo (che si svolgono in molte località), le processioni, i canti, i riti a lutto (che vedono come protagoniste le confraternite religiose), l’Affruntata del giorno di Pasqua ( o Confrunta o Confruntata o Svelata, che interessa numerosi centri grandi e piccoli delle province di Catanzaro, Vibo, Reggio Calabria, in particolare l’area della Piana e il versante jonico) costituiscono un grande ordito letterario, mitico, religioso che vede coinvolte ed impegnate intere comunità, anziani, giovani, donne e anche bambini. Le chiese, le strade, le piazze, i vicoli, i calvari, i cimiteri diventano luoghi densi di “sacralità”, spazi scenici “eccezionali” dove viene recitata, raccontata, rappresentata, teatralizzata – in forme drammatiche - una “vicenda”, antica e sempre attuale (come lo sono la morte e la vita) nella quale tutti continuano ad identificarsi.

I riti della Settimana Santa (lo hanno ricordato Luigi M. Lombardi Satriani e Mariano Meligrana ne Il ponte di S. Giacomo, uno studios sempre bello ed attuale) hanno il compito, il destino e la funzione (elaborati storicamente secondo particolari modalità religiose e culturali) di “rappresentare”, la “narrare”, “drammatizzare” un dolore e un lutto (e poi una gioia) immensi ed esemplari: quello di Maria, della Madre, che ha perso il Figlio, e quello di una Passione e Morte e di una Rinascita “modello” per tutti, come quelle vissute da Cristo, che, alla fine, trionfa sulla morte.

 

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Bisogna averla girata in lungo e in largo questa terra, bisogna averla osservata, per anni, nella quotidianità e nelle occasioni rituali, nelle sue immobilità e nelle sue trasformazioni, nelle sue luci e nelle sue ombre, tra sottoterra e cielo (come scrive padre Pino Stancari in un suo bel libro) per capire come le sacre rappresentazioni costituiscano un forte elemento di identificazione per donne e uomini che hanno conosciuto esperienze dolorose di distacco, di abbandono, di perdita, di morte.

Bisogna amarla, davvero, questa terra, senza che questo impedisca una forte presa di distanza dai suoi vizi e dai suoi difetti, e da coloro che in mille modi la mortificano e la devastano, per capire quanto questi riti pongano domande di presenza, di aggregazione, desiderio di continuare ad esserci delle comunità.

Lo studioso inglese, Robert Merton, che negli anni quaranta dell’Ottocento, quando adopera per primo il termine “folk-lore”, pure in un clima romantico e soffertamene “nostalgico” per un universo in via di scomparsa, ha chiara l’idea della storicità e della mobilità delle culture popolari, di quella che noi chiamiamo sommariamente “identità”. Le feste, le tradizioni, i riti non sono immobili e vanno sempre compresi per la loro carica di memoria e di sentimento dell’appartenenza, ma anche per le vicende che essi ricapitolano (si pensi al legame tra riti di Pasqua e storie di lutti, devastazione, terremoti, riorganizzazione del territorio, emigrazione), ma soprattutto per la loro capacità di parlare oggi, di dire qualcosa “qui ed ora”, in maniera nuova. Nessun rito sarebbe “eseguito” se non raccontasse, rispecchiasse, inventasse la vita nel presente.

Mi sembrano queste le domande fondamentali da porre e da porci nel tracciare queste mappe più o meno veritiere e più o meno attendibili che leggiamo sui giornali: come i riti della Settimana Santa (e non solo) raccontano oggi la vita della regione, che legame intrattengono con il passato, come esprimono la religiosità e il senso dell’appartenenza ( o dello sradicamento e della ricerca di “appaesamento”) degli uomini e delle donne di oggi?

 

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La domanda cruciale è: cosa affermano ancora oggi, in un contesto, profondamente mutato, le confraternite religiose che per secoli hanno segnato la vita delle comunità e che ancora oggi organizzano le feste? Cosa suggeriscono, propongono, ricordano sognano le migliaia di giovani che oggi riempiono le feste, vi partecipano da protagonisti, si vestono di congregati e poi, nello stesso tempo, la sera vanno a ballare o a bere la birra, si avventurano in quei “non più luoghi” e “non ancora luoghi” che sono le nostre comunità?

Negli ultimi anni ho osservato, in particolare, i riti della Settimana Santa che si svolgono in paesi quasi vuoti e in abbandono. Dalle marine, dai paesi doppi, dai centri costieri senza un’anima, le popolazioni, ubbidendo a un antico richiamo, insoddisfatti di luoghi che non sono riusciti a rendere domestici e abitabili, salgono nell’antico paese, nel luogo che hanno abbandonato. Sarà difficile non leggere delle analisi e riflessioni, descrizioni sui vattienti di Nocera Torinese (rinvio al bellissimo articolo di Franco Ferlaino apparso su questo giornale domenica scorsa e che è frutto di ricerche trentennali e non di sporadiche ed effimere “puntate” in un luogo metafora della Settimana Santa calabrese), ma è utile ricordare che questo ed altri riti dei paesi interni vedono in buona parte come protagonisti che ritornano persone che vivono lungo la marina o in posti lontani.

Dalla marina di Badolato gli appartenenti alle tre confraternite del vecchio paese salgono per mettere in atto le loro rappresentazioni, per eseguire canti e preghiere antiche e originali, si aggirano in strade vuote e con case disabitate, riempiono di nuovo il paese, dove ancora vi sono le chiese e il cimitero. L’incontro di domenica tra la Madonna, il Cristo risorto, S. Giovanni (che fa da ambasciatore, correndo da una parte all’altra del paese) avviene in un tripudio di voci e di abbracci, di pianti e di commozione. Un congregato poggia sul mento il lungo stendardo e lo “balla”, al ritmo di tamburi, con grande agilità e con tenacia quasi a voler raccontare il desiderio di tenere in piedi un paese a rischio svuotamento e a voler collegare mondi separati. Anche i complessi riti di Caulonia sono possibili perché la gente sale dalle marine e si impegna in manifestazioni antiche, laboriose, lunghe, che hanno come protagonisti le giovani generazioni che vivono in posti lontani e che hanno un legame occasionale e, talora, “fantastico” con il paese di origine.

 

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Dobbiamo interrogarci su tutte queste frammentazioni, su questo esserci e non esserci, su identità lacerate ed aperte, reinventate e sempre in bilico, sulle trasformazioni del territorio e delle culture, sullo stravolgimento e il riavvolgimento dei luoghi, se vogliamo cogliere il senso religioso e antropologico, antico e nuovo di questi riti. Tempo fa, a partire da una proposta di legge di Rutelli sui beni immateriali e il folklore, avevo proposto (pure molto critico con i venditori di folklore o con quanti immaginano di folklorizzare la regione e di ridurla a colore) un grande piano “identitario” e di valorizzazione (a partire di centri stabili e museali, anche di ricerca) di manifestazioni culturali, che potrebbero attrarre anche turisti, visitatori, emigrati. Sarebbe un progetto complicato, problematico, aperto, di lunga durata, ma immagino che fino a quando ci affideremo agli altri – senza fiducia nel nostro stesso operare - per farci dire quali sono le nostre immagini e le nostre risorse, la partita è persa.

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Gli uomini politici (di ogni colore e collocazione), salvo rare eccezioni, sono combattuti tra desiderio di mostrare una “Calabria normale” e desiderio (almeno a parole) di custodirne e valorizzarne diversità e peculiarità, specificità e originalità: insomma sono combattuti tra volti “acqua e sapone” di giovani uguali in tutto il mondo (che posano come modelli su richiesta) e invito a peperoncini, navi sotterranee, buoi primigeni, elefantini di non sappiamo dove, improbabili sagre, porti inesistenti di Ulisse. Dove è l’inghippo? Come si può rendere questa terra “normale” e nello stesso tempo custodirla e rinnovarla con le sue ricchezze (paesaggistiche, archeologiche, artistiche, immateriali) e le sue peculiarità? E’ possibile questa operazione? Penso di sì. Forse però la “normalità” non dovrebbe consistere nel desiderio di cancellare peculiarità e di standardizzare i comportamenti.

La “Calabria normale” non la si proclama con immagini, la si crea con comportamenti credibili. La Calabria normale, forse, non va “normalizzata”, va scoperta, davvero, nelle sue vocazioni. Potrebbe essere quella dei giovani, su cui si dice di investire, che debbono trovare un lavoro senza essere scavalcati da portaborse, amici degli amici, clienti. Soltanto questa “Calabria normale” – e non “Banalizzata”, non assimilata – potrebbe trovare dentro di sé le risorse originali, e sempre nuove, costruite nei secoli, per mostrarsi con fiducia e speranza a se stessi e agli altri. Abbiamo feste bellissime di passione e di Resurrezione - la Chiesa calabrese (almeno alcuni suoi autorevoli rappresentanti) si sta impegnando anche a sottrarle alla presenza inquietante degli ’ndranghetisti - consiglio ai nostri amministratori e uomini politici, a tanti operatori e imprenditori, a professionisti ed intellettuali, di rinunciare alla vacanza fuori porta, di parteciparvi, di andare nei luoghi in cui sono stati eletti, di osservare con attenzione e con spirito adeguato alla circostanza: non si flagellino, ma camminino (anche se sono laici e non credenti) silenziosi dietro la statura della Madonna e di Cristo morto, si interroghino sulla voglia di vita e di esserci delle nostre comunità, e magari si domandino se per caso questa terra che esprime, dal basso e con convinzione, ritualità intense, appassionate e vitali (a dispetto di mortificazioni che subisce) non sia capace di diventare normale proprio a causa delle quotidiane lotte di potere e dei piccoli e grandi interessi di una politica sempre più lontana dalla gente.

All’indomani dell’unificazione nazionale («Il Bruzio», Cosenza 2 luglio 1864), Vincenzo Padula, anticipando la “questione sociale” di quella che poi sarebbe divenuta la “questione meridionale” si soffermava sulle dolorose condizioni delle persone di Calabria e parlando dei braccianti, nati da un afflitto legno, scriveva:

«O Lettori, e Lettrici, cui fortuna sorrise, lasciate di contemplare la piaghe di un Cristo di legno: io vi predico la vera religione, e vi mostro un Cristo di carne, il bracciante».

Mi vengono in mente queste righe sempre forti e attuali di uno dei più grandi pensatori (che era anche un religioso, come Gioacchino e come Campanella) che abbia mai avuto la regione. Forse, osservando e riguardando questi sofferti, partecipati, bellissimi riti, che vedono impegnate la Chiesa, le comunità, le confraternite, i giovani, dovremmo pensare ai nuovi “Cristi di carne” che ci stanno a fianco e di cui non ci accorgiamo: immigrati spaesati, anziani soli nei paesi, vittime di ’ndrangheta e loro familiari, ammalati senza una decente assistenza, giovani in cerca di lavoro e di dignità, emigrati che tornano, nuove figure erranti e sempre fuga. abitanti di una regione, delocalizzata, antica e nuova, speranzosa e mortificata, frammentata e accogliente, sempre in cerca di un senso e di un centro. Senza questo sforzo, senza questa tensione, senza questo “spirito” i riti di Passione e di Resurrezione rischiano di essere ridotti, dagli osservatori distratti e interessati, a colore, a folklorismo deteriore, a volte a luoghi di esibizione e di “passerella” per i soliti noti. Le persone di tutti i ceti e di tutte le età, però, narrano, raccontano, rappresentano il bisogno di vita e affermano un diverso legame con la loro storia, i loro luoghi, un tempo presente che vorrebbero migliore.