Dal Quotidiano del 20 novembre 2007

La riflessione

L’ultima (grande) lezione del vescovo-operaio

di Tonino Ceravolo

L’ultima grande lezione di Mons. Giancarlo Bregantini da vescovo di Locri è condensata in due semplici parole: obbedienza faticosa. Racchiudono una storia millenaria e descrivono la situazione meglio di lunghi discorsi quelle due parole che il vescovo ha pronunciato per indicare il proprio stato d’animo – prevedibilmente turbato- nell’accettare il trasferimento presso la sede metropolita di Campobasso-Boiano.

Il concetto di obbedienza sembra evocare ambienti di rigida disciplina, fortemente gerarchizzati, irreggimentati dentro regole ferree che lasciano poco spazio alla libertà dell’agire. Obbedire sembrerebbe implicare sottomissione servile, dipendenza, negazione di qualsivoglia autonomia del pensiero. Nel concetto usato da Monsignor Bregantini è, tuttavia, diverso il clima culturale che si respira, perché vi aleggiano lo scandalo e la provocazione del messaggio evangelico. Dopo aver ricevuto l’angelo dell’annunciazione è Maria a dire: Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”. Mentre è Gesù, nel Getsèmani, che dice: “Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà”.

Il sacerdote, il monaco, l’uomo di Dio –come sottolinea nella sua “regola” san Benedetto, con specifico riferimento a che ha compiuto la scelta monastica- imitano il Signore di cui l’Apostolo dice: “Fattosi obbediente fino alla morte”.

L’obbedienza in questo contesto non è l’adesione esteriore e formale a una regola estranea, non può assimilarsi all’accettazione di un principio d’ordine di esclusiva matrice autoritaria. Obbedendo all’altro si obbedisce, a ben vedere, anche a se stessi: alla propria scelta originaria, alla propria chiamata, al proprio progetto di vita che prevede pure la possibilità dell’obbedire. All’interno di questa cornice, pretendere o attendersi la disubbidienza è come chiedere all’altro di rinunciare a essere se stesso, di aderire a un paradigma teorico che non gli appartiene.

Non per nulla, in taluni ordini monastici, il voto d’obbedienza è il solo esplicitamente pronunciato e assorbe in sé gli altri voti di povertà e castità. Nel momento dell’ingresso nella vita monastica il monaco sa già che dovrà anche obbedire, in quel preciso istante ha scelto di obbedire e l’obbedienza diventa, per libera decisione, istitutiva del proprio stato religioso, lo fonda. In una diversa situazione storica e culturale, si pensi alla vicenda di Socrate: è davvero e pienamente uomo chi si sottopone (chi obbedisce) alle leggi della città, colui che dovesse cercare di sottrarsi a esse probabilmente avrebbe salva la vita, ma perderebbe l’essenza della propria umanità. Del Socrate pungolo nei fianchi della città i suoi concittadini avrebbero avuto ancora bisogno, ma Socrate realizza veramente se stesso e dà concretezza storica alla sua parola tramite l’accettazione della morte mediante l’ingerimento della cicuta. Socrate è tale perché vive da Socrate e perché muore da Socrate.

Da questo punto di vista, la scelta dell’obbedienza che Monsignor Bregantini ha compiuto non dovrebbe evocare il lugubre “perinde ac cadaver” dell’osservanza gesuitica nel tempo della Controriforma, il corpo morto che si abbandona docilmente alla corrente e si lascia trascinare, inconsapevole, dove i flutti lo trasportano. Nemmeno troppo paradossalmente, tale scelta realizza, compie, invera, il senso del suo episcopato e del suo magistero in Calabria: essa proclama il rispetto della legge nel suo porsi al di sopra delle singole particolarità e contro le violazioni quotidiane da qualsiasi parte provengano, annuncia l’adesione a una regola che per essere tale richiede di essere interiormente condivisa.

Monsignor Bregantini incarna, con la sua scelta, anche laicamente quel rispetto delle regole, della legalità, delle norme di cui la Calabria e il Mezzogiorno hanno quotidiano (e disperato) bisogno. Ovviamente, l’obbedienza può essere, come in questo caso, difficile, faticosa.

Può comportare sofferenza e tormento, esprimersi, persino, nell’integrale umanità delle lacrime, del pianto. Ma il pianto, anche in questa occasione, ha il compito di contribuire all’elaborazione del “lutto”, al superamento della perdita, nella consapevolezza che è, sempre più, compito dei Calabresi (che non possono costruirsi alibi o invocare circostanze attenuanti) far germogliare vigoroso il seme delle opere e delle parole lasciato da Mons. Bregantini.