Il vescovo che svuotava la
mafia
Vito Teti
Dev'essere misterioso
davvero il disegno di Dio, se è ad esso che dobbiamo il trasferimento da Locri a
Campobasso di monsignor Bregantini. L'addio di questo uomo di Chiesa, che ha
riscattato anche la Chiesa calabrese da tanti silenzi e da molte omissioni, è
una ferita profonda per una terra già più che provata. Si troveranno ragioni e
spiegazioni più o meno verosimili: si dirà che mons. Bregantini è stato a lungo
in Calabria, magari che rischiava la vita, che era sovraesposto. Ma io che l'ho
incontrato il primo settembre a Polsi, dove aveva invitato a discutere con
quelli della sua cooperativa i sindaci della Locride e alcuni docenti
dell'Università della Calabria, non credo che tanta premura fosse nei suoi
desideri, né tantomeno che lo fosse una promozione. Mi era parso amareggiato,
preoccupato, anche solo; ma nient'affatto uno che volesse abbandonare,
andarsene, mollare. Progettava, programmava, organizzava iniziative di largo
respiro e di lunga durata. Del resto, lo dice lui stesso: il suo cuore oggi è
pieno di dolore, anche se, sono ancora le sue parole, «per obbedienza sono
venuto e per obbedienza parto». Non mi piacciono le dietrologie e il
complottismo, ma certo lascia sgomenti il fatto che questo trasferimento avvenga
dopo i fatti di Duisburg, mentre si sta consumando la vicenda De Magistris, e in
un periodo in cui, a fronte di una classe politica in buona parte indagata,
incapace di governare e di concepire un'idea credibile della regione, molti
segmenti della società calabrese mostrano una vitalità prima sconosciuta e non
si adattano più allo stato delle cose. Da domani, gli uomini del malaffare, i
politicanti e i clienti si sentiranno più tranquilli e più invincibili.
Resterà impressa nella mia mente l'immagine di monsignor Bregantini che,
all'indomani dell'eccidio di Duisburg, cammina con passo spedito e fermo lungo
la via principale di S. Luca ed entra in chiesa per pregare e chiedere perdono.
Al suo fianco don Pino Strangio, parroco della comunità, che stringe tra le mani
una grande croce, quasi a farsi carico delle colpe di tanti calabresi e di
espiarle al posto di altri. Mi resterà nelle orecchie quella voce forte e
convinta con cui Bregantini invitava le donne degli uomini coinvolti nella faida
al perdono e a spezzare la catena dell'odio e delle vendette. Un linguaggio
scarno e potente in una terra capace di grandi slanci ma segnata da lacerazioni
esasperate e da una sorta di guerra di tutti contro tutti.
Se un'immagine rappresenterà la Calabria nuova, fattiva, civile, propositiva,
non potrà che essere quella del vescovo venuto dal Trentino che in Aspromonte ha
saputo cercare, trovare e indicare percorsi di fiducia e di speranza. Bregantini
è stato un vescovo impegnato, radicato nel sociale, un riferimento saldo per
tanti, credenti e non credenti, nella frontiera della Calabria più estrema e
malata. Un costruttore di pace e di futuro. Un prete capace di amare la regione,
di misurarsi con le sue patologie, di denunciarne i mali e le devastazioni, di
offrire soluzioni ai problemi, di riconoscerne bellezze e risorse. Ha capito che
non basta predicare in una terra piena di predicatori inconcludenti. Per
incidere ed essere credibili bisogna predicare e praticare. Raccontare e fare.
Denunciare e proporre. Dire e testimoniare. Tenere insieme orizzonte di senso e
azione quotidiana. Speranza ed esempi concreti, palpabili, visibili.
«Se la Montagna è verde, il mare è blu»: con questa espressione semplice e
colorita, capace di parlare all'antropologia profonda dei calabresi, Bregantini
invitava al rispetto della natura e del creato, alla tutela dell'ambiente come
bene di Dio e come ricchezza degli uomini. Quando in un paesino veniva chiuso un
ufficio postale perché considerato improduttivo, prendeva posizione contro una
visione economicistica dei problemi. Cercava di riempire tutto quello che
appariva vuoto, e di svuotare quello che è o appare inutilmente e
drammaticamente pieno. Della mafia diceva che è «una società vuota,
apparentemente forte ma fragilissima, che si deve svuotare dall'interno,
facendola ridicola e stupida».
La lezione più importante di monsignor Bregantini è che la resistenza e il
cambiamento sono possibili, anche nei contesti più aridi e meno permeabili. Il
cambiamento si accende e si propaga con pazienza e tenacia, con passione e con
convinzione, con l'apertura e il dialogo, l'entusiasmo e il realismo. La sua
predicazione e la sua azione non prevedevano scorciatoie e nemmeno clamori. Il
recente invito (su Il Quotidiano) a costruire come l'acqua, goccia a goccia, ad
accendere fiammelle di speranze nella vita quotidiana a telecamere spente, si
rivela adesso un prezioso lascito testamentario.
A chi restituisce alla Calabria orgoglio e dignità, si risponde dall'alto del
potere, di Stato e di Chiesa, con l'isolamento, la solitudine, l'allontanamento,
il silenzio, la calunnia, qualche volta la morte. Per quanti hanno in mente
un'altra Calabria il modo migliore di salutare e ringraziare monsignor
Bregantini è fare tesoro di questa esperienza, rendersi più protagonisti della
propria vita,continuare, con nuova determinazione, lungo i percorsi da lui
indicati. I semi di speranza vanno coltivati, curati e, alla fine, raccolti.