Dal Quotidiano del 2 giugno 2008

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A quale Sud tornare

di Vito Teti

 

Sul “Corriere della Sera” di qualche giorno addietro Ernesto Galli della Loggia, partendo dalla vicenda di Napoli, scrive un articolo che titola “Perché il Sud è senza voce”, dove si domanda perché il Mezzogiorno non ascolta la voce dell’Italia progredita e civile. Non siamo lontani dal paradigma razzial-razzista (certo posto in maniera più raffinata) della scuola positivista e del prof. Miglio. Raffaele La Capria propone (sullo stesso giornale, in data 30 maggio) di cambiare quel titolo in “Perché l’Italia non sente la voce del Sud”. Lo scrittore napoletano ricorda come grazie a una “tradizione” che va da Giustino Fortunato a Carlo Levi, da Ortese a Sciascia e ora a Saviano, il Sud ha avuto la forza e la lucidità di alzare la propria voce di denuncia (si pensi al film di Rosi e dello stesso La Capria “Le mani sulla città”), di proposta e di analisi, ma «la classe politica non è mai stata a livello della classe intellettuale, l’ha semplicemente ignorata per inseguire le proprie trame non sempre lecite».

E’ difficile non cogliere le ragioni di La Capria, tuttavia ho come la sensazione che se questa posizione ha buon gioco a decostruire le argomentazioni di Galli della Loggia, alla fine rischia di alimentare, involontariamente (e anche in maniera paradossale viste le lucide denunce dello scrittore napoletano contro la borghesia della sua città) una qualche tendenza all’autoassoluzione, a dare la colpa sempre agli altri, senza scavare nelle ombre, nelle contraddizioni, nelle responsabilità dei meridionali. Temo che le appassionate e fondate posizioni tese a sostenere le “ragioni”, il pensiero, i sentimenti delle genti del Sud possano dare linfa alla tendenza “localistica” di quanti, in maniera angusta, mitizzano una sorta di identità meridionale (astorica e sdolcinata come la “calabresità”) costruita per difendersi dagli altri: un’identità di riflesso, fondata sul bisogno di rispondere a qualcuno e non per qualcosa. Il drammatico paradosso del paradigma razzista è che spesso genera in coloro che lo subiscono reazioni “razziste” di segno contrario, risentite, giustificazioniste, tendenti ad assolvere sempre e comunque un generico “noi” di incompresi, abbandonati e derelitti. La necessità di contrastare immagini e pratiche antimeridionali (vedi la vicenda dell’abolizione dell’Ici) non deve fare dimenticare le responsabilità e gli errori della borghesia e dei gruppi dirigenti meridionali, che sono stati indifferenti, inetti, quando non condiscendenti in presenza di scempi, devastazioni, incendi, distruzioni del paesaggio, immondizie prodotti dai locali.

Se non vogliamo che qualcuno (Angelo Panebianco, “Corriere della sera” del 31 maggio) ci indichi, in maniera tendenziosa e nordcentrica, anche le risposte che dobbiamo attuare, è necessario che siamo noi a riaffermare la tradizione della denuncia impietosa della borghesia e della classe dirigente meridionali. Mai come adesso c’è bisogno di meditare sui versi “veritieri”, dolenti ed attuali del grande Franco Costabile: «Ecco, / io e te, Meridione,/ dobbiamo parlarci una volta, / ragionare davvero con calma, / da soli, / senza raccontarci fantasie/ sulle nostre contrade:/ Noi dobbiamo deciderci/ con questo cuore troppo cantastorie».

La “voce” del Sud e dei tanti Sud (che non è possibile riguardarlo con lo sguardo antico della “questione meridionale”) continua a non essere “convinta”, appare indistinta, poco persuasa, spesso retorica, lacrimevole. In primo luogo perché noi stessi non sappiamo, davvero, cosa è diventato il Sud, come si è trasformato, nel bene e nel male, nella sua geografia e nella sua antropologia. In secondo luogo, come conseguenza della mancata conoscenza delle questioni, perché non si ha la capacità di fare scelte unilaterali e convinte, di assumersi la responsabilità del fare, e si rinvia sempre a domani, a tempi migliori.  Basti ricordare - per capire la vocazione a rendersi poco credibili - le diverse posizioni sul Ponte dello Stretto che si registrano anche all’interno di uno stesso schieramento politico.

Ben vengano le pluralità di posizioni, ma i repentini e immotivati mutamenti di rotta creano vertigini e perplessità. E se non si riesce ad elaborare delle proposte “minime” e condivise per il Sud e per la Calabria, se si hanno mille posizioni confuse, non argomentate alla luce del sole, sul Ponte e su altri nodi cruciali della regione, c’è poco da lamentarsi di punizioni e penalizzazioni inflitte alle regioni meridionali.

La Lega, il governo, i ceti dominanti del Nord fanno bene il loro mestiere, perseguono i loro obiettivi (discutibili o pericolosi) con tenacia e convinzione. I  politici di centrodestra, anche in questa occasione, confermano la loro totale subalternità rispetto all’asse Berlusconi-Tremonti-Bossi e in fondo la loro scarsa capacità di rappresentare interessi e punti di vista “meridionali”. Anch’essi sembrano fare bene il proprio interesse, adattandosi (ma sarebbero salutate con entusiasmo smentite non enunciate ma praticate) al vento che tira.

A non assolvere al proprio compito, esprimendo idee chiare e progetti condivisi, sono purtroppo anche le forze democratiche e di sinistra. La nuova parola magica, concreta, caricata di enfasi è diventata “territorio”. «Partiamo dal territorio» sembra una sorta di chiamata alle armi da parte delle forze politiche, quasi che finora avessero operato all’estero o sulla luna! Il problema non è un “radicamento” gridato negli slogan, ma il come e il perché, con chi, per fare cosa nel radicarsi e nel rapportarsi al territorio. «Partiamo dal territorio» non può voler significare (come qualcuno pensa e non dice) occupazione clientelare, devastazione paesaggistica, morale, antropologica dei luoghi. «Partiamo dal territorio» deve comportare assunzione di Ombra e di responsabilità, voglia di conoscere e di riconoscersi, radicamento per “liberare il territorio” (dalle clientele, dalle mafie, dai trasformismi) e per liberare le tante risorse soffocate e annichilite dalle risposte anguste di certa politica. Perché invece di dividersi su “personalismi”, di rinnovare devastanti liturgie, non pensiamo a ragionare sui problemi e sulle questioni che il territorio ci pone? Cosa pensiamo del Ponte? Lo vogliamo o lo respingiamo per sempre? Cosa pensiamo del nucleare e delle energie alternative? Che idea di Calabria abbiamo e vogliamo rappresentare, interpretare? Come intendiamo utilizzare i fondi Por? Per spartizioni, per intercettare fondi pubblici e collocare “clienti” o per ridisegnare (almeno tentare di farlo) l’assetto, la fisionomia, la dignità, l’immagine di questa regione? Le maggioranze e le minoranze si dovrebbero formare (se è proprio necessario) su questioni concrete, su concezioni, valori, idee, pratiche che affermino comunque la dignità della politica e per tale via il ruolo insostituibile dei partiti. Le lacerazioni create per fondare la fortuna personale di qualcuno alimentano l’antipolitica, non creano fiducia, non formano consenso, non appassionano, certo, quanti (e non sono pochi), pure in condizioni di difficoltà e con il vento contrario, hanno espresso un voto libero e di opinione. Una “nuova voce” del Sud (plurale, ariosa, non lamentevole, non difensivista, responsabile) ha bisogno di intellettuali liberi e coraggiosi, della presenza dei giovani, ma passa, in questo periodo, attraverso la costruzione di un partito politico organizzato (in ogni angolo di ogni regione) e la laboriosa fondazione di un’opposizione credibile, capace di elaborare proposte, progetti, etiche e pratiche di cambiamento, in grado di ridare speranza, indicare alternative e soluzioni diverse da quelle adesso “vincenti”, senza soggezione nei confronti dei vincitori e senza compromessi con quanti continuano non solo a pensare, ma anche a trattare, il Sud come palla al piede dell’Italia.