VITO TETI sul radicamento
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I^ parte -Dal Quotidiano del 6 maggio 2008
Senso e pratiche del “radicamento”
La parola più pronunciata, più evocata, più gettonata - quasi caricata di magia -, è diventata, dopo le ultime elezioni politiche, «radicamento». Anche, da noi, all’interno dei partiti e delle forze politiche l’invito è al “radicamento” e la “resa dei conti”, annunciata all’interno dello stesso PD, avverrebbe in nome di un praticato o mancato radicamento. Cosa poi si intenda, davvero, con radicamento, nessuno lo precisa. Al pari di “radici” (a cui è legato direttamente), ma anche di appartenenza, di tradizione, di identità – “radicamento” non ha, in sé, nulla di scontato o di salvifico. Quando adoperato in maniera angusta, localistica, strumentale appare carico di ambiguità e, talora, di negatività.
Nella nostra regione qualcuno tende ad alimentare il luogo comune che la politica non avrebbe avuto radicamento. In realtà fin dal periodo post-unitario, e poi durante il fascismo e con l’avvento della prima repubblica, il ceto politico meridionale è stato fortemente “radicato” ai luoghi di appartenenza, al collegio elettorale. Il radicamento a volte è stato adoperato per sostenere i bisogni e le ragioni delle popolazioni, per grandi battaglia di civiltà e di democrazia, per iniziative concrete tese al riscatto del Sud (penso, tra gli altri, a Gullo, a Mancini, a Guarasci).
Altre volte il radicamento è servito al mantenimento di privilegi e di potere. La borghesia meridionale (ma è esistita ed esiste in Calabria una borghesia?) ha espresso un ceto politico che non ha brillato per autonomia, generosità, spirito liberale e illuminato, capacità di pensare e proporre il Sud. In molti casi poi il “radicamento” è stato così “invasivo” da creare confusione tra politica, clientela, economia illegale. Tutti gli studiosi segnalano che mafia, ’ndrangheta, camorra siano organizzazioni criminali, diversamente strutturate, ma profondamente “radicate” nel territorio, a livello economico, sociale e anche “mentale”. E’ esattamente questo tipo di “radicamento” che va “sradicato”.
Negli ultimi tempi, con la “seconda repubblica”, le candidature al parlamento, non sempre “radicate” e calate dall’alto, hanno contribuito a “deteriorare” il legame con il territorio. D’altra parte, tanti gruppi dirigenti locali (attenzione, però, a non generalizzare e a non emettere facili giudizi) hanno finito con l’opprimere il territorio, grazie a un capillare, spesso illegale e “criminale”, controllo di economie, flussi di danaro e fondi pubblici. Il radicamento fin qui praticato ha “sradicato” il Sud, lo ha reso subalterno e incapace di elaborare progetti autonomi di riconoscimento, ricostruzione e affermazione. L’eccesso di “territorialità” non ha significato amore, cura e rispetto del territorio, ma spesso una sua svendita e una sua devastazione.
Un’idea angusta e devastante di radicamento e di rapporto col territorio
C’è chi declina e pratica il radicamento in maniera angusta e “interessata”, pensa che il rapporto con la gente debba essere basato su forme clientelari di vario genere, su promesse e “ricatti”, su condizionamenti e controllo capillare di Asl, Enti, pubbliche amministrazioni. E’ una concezione che si lega a un’idea retorica dell’identità, a quella “calabresità” fatta di ammiccamenti, bizantinismi, promesse sdolcinate.
E’ quel radicamento che non risolve i problemi delle persone, ma li alimenta, li esaspera, creando degrado morale e civile. E’ il radicamento di chi pensa che i voti si raccolgano a pacchetti, che gli elettori siano sempre condizionabili, e che i consensi possano essere utilizzati, piegati, trasferiti a seconda del proprio tornaconto. La “visibilità sociale” e il “prestigio personale” vengono affidati, esclusivamente, al “posto” di potere e di controllo che si può esercitare grazie a una qualche collocazione politica “utile”.
Questa idea inquietante e subalterna del radicamento oscura il fatto che la politica è anche pratica generosa e disinteressata tesa al raggiungimento del bene comune. I retori del radicamento nel territorio sono spesso gli stessi che lo hanno devastato, ignorato, sciupato, alimentando nelle popolazioni disincanto e sfiducia, apatia e pessimismo.
E così mentre la Lega ha saputo utilizzare le istanze locali per fare sentire il suo peso a livello, qui da noi i sedicenti “rappresentanti” del territorio, sempre subalterni al potere centrale, sono stati i protagonisti della svendita delle istanze e dei bisogni locali, non hanno quasi mai cercato l’interesse comune, ma una fortuna personale e di piccoli gruppi.
Una nuova e auspicabile concezione del radicamento
La nostra regione avrebbe bisogno di un radicamento fatto di legami autentici e liberi con la gente, veritieri, anche scomodi, ma non clientelari. Sarebbe necessario togliere il coperchio asfissiante della politica sulle risorse e sulle energie del territorio e restituire alla politica la capacità di elaborare, programmare, realizzare favorendo la crescita e la “libertà” della società e della “comunità”. Si deve affermare una politica fatta di proposte, progetti, valori, tensione etica e prospettiva di cambiamento.
Il radicamento ha senso se coniugato con identità plurali e dinamiche, apertura, dialogo, valorizzazione delle competenze e dei meriti delle popolazioni locali. Radicamento ha bisogno di linguaggi nuovi, di mezzi espressivi moderni, di scambi, di viaggi, di internet, di innovazione, di nuove tradizioni, di identità declinate al futuro. Su questi diversi modi di intendere il radicamento si gioca la partita politica nella società calabrese.
E’ la partita tra una visione che prospetta un leghismo sudista angusto, un autonomismo di maniera e subalterno, e la concezione di un “radicamento” nuovo, aperto, “regionale” e nazionale, che sappia parlare a tutti i ceti sociali, rappresentare istanze davvero autonome del Sud, dare voce ai mille gruppi locali, interpretare e rappresentare i bisogni e le aspettative della gente.
La politica o affronta e risolve i problemi, afferma idealità, crea aggregazione, socialità, convivialità oppure non è politica: è clientelismo, “mala politica”. Per affermare un reale, e non soltanto evocato, “radicamento” occorre conoscere meglio la realtà, i luoghi, i bisogni; avere un’idea generale della Calabria, dei suoi problemi, della maniera “unitaria” (e non frammentaria e occasionale) di affrontarli e di risolverli. La sensazione invece è che, purtroppo, spesso si continui a parlare e ad operare senza sapere cosa sono diventati i luoghi, i paesi, i centri urbani, quali necessità hanno le persone, come è cambiato e si è trasformato il mondo negli ultimi decenni.
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2^ parte -Dal Quotidiano del 7 maggio 2008
Il radicamento non è uno slogan
Una nuova “inchiesta parlamentare” sul Mezzogiorno e sulle regioni d’Italia
Il “radicamento”, come ho scritto nella prima parte di questo articolo, ha bisogno di “persuasione”, di capacità di analisi, di convinzione. Deve interrogare e interpretare la gente: essere aperto, problematico. Il “radicamento” sinonimo di “leghismo alla rovescia”, di localismo, di autonomismo clientelare, di perverso controllo del territorio, non serve alla Calabria e all’Italia. Non devasta solo l’antropologia dei paesi, non paga più nemmeno a livello elettorale.
Bisogna uscire subito dallo stato di sgomento e di depressione che sembra aver colto molti che hanno votato PD e altre forze che non sono riuscite (purtroppo) a trovare rappresentanza parlamentare. Occorre cominciare a guardare in profondità “dentro” e fuori di noi. Per cambiare. Per rifondare la politica. In una prospettiva rivolta al futuro andrebbe, a mio parere, ripresa e rafforzata la proposta di Marco Minniti di costituire una Commissione bicamerale sul Mezzogiorno. Sarebbe un modo di collocare al centro dell’attenzione la “questione Sud” che sembra ormai del tutto occultata (anche grazie al risultato della Lega) dalla questione settentrionale. Sarebbe anche un modo per aprire un dialogo serrato con tutte le forze di centrodestra e di centro (non dimenticherei la sinistra non presente in Parlamento) e per verificare concretamente quanto davvero si intenda assumere il Sud e la Calabria come una questione di tutti, centrale, nazionale, europea.
Vengono in mente le grandi inchieste parlamentari di fine Ottocento-inizio Novecento che, nel periodo in cui la “questione meridionale” costituiva un problema nazionale, ponevano esigenze conoscitive e cercavano risposte, avanzavano proposte a partire dalla situazione economica e sociale delle popolazioni. Da allora non sono mancati studi, indagini, ricerche, inchieste, ma lo Stato unitario ha sostanzialmente rimosso e cancellato il Sud. Il fascismo dichiara non a caso finita e risolta la “questione meridionale”, che esploderà in forme drammatiche all’indomani della seconda guerra mondiale, verrà posta all’attenzione dai contadini e braccianti che occupano le terre, da popolazioni che fuggono, ma anche da studiosi e intellettuali democratici, oltre che dai grandi partiti popolari.
Purtroppo tutte le forze politiche erano impegnate in contrasti ideologici, divisi in blocchi, prigioniere di una visione modernista, e il Sud di fatto trovava attenzione soltanto in pochi studiosi e ricercatori illuminati, in riviste di approfondimento e “militanti” (“Nord e Sud”; “Cronache Meridionali”), in molti uomini politici e meridionalisti che non potevano fare “blocco” in quando divisi su questioni nazionali e internazionali, sovrastati da un’imperante ideologia operaista, urbanocentricam che vedeva il mondo del Sud come residuale, arcaico, passatista. Sappiamo tutti con quanti danni e con quale devastanti conseguenze.
Conoscere e riconoscere il Sud
Il Sud oggi vive un momento “critico” (di segno diverso) come ai tempi delle grandi inchieste. Non siamo più alla miseria e alla fame, ma l’esodo, lo sfasciume, il trasformismo, il degrado ambientale, l’assenza di una borghesia “liberale”, la presenza della criminalità organizzata, pure in forme radicalmente diverse, sono ancora all’ordine del giorno. Non ci sfuggono le risorse e le potenzialità del Sud, le tante aree “sviluppate” e la ricchezza delle culture locali, ma il Mezzogiorno conosce un degrado paesaggistico, antropologico, sociale di vasta portata. Le ombre spesso oscurano le tanti luci. L’immagine del Sud risulta, per varie ragioni, molto opaca. Di nuovo gli abitanti del Meridione rischiano di essere chiamati “sudici” come avveniva cento anni addietro. La Calabria, come mostrano ancora gli ultimi inquietanti episodi di criminalità (uccisioni, macchine saltate in aria, pulman bruciati, cimice nello studio del magistrato Nicola Gratteri). La responsabilità non è solo degli “altri”, magari della stampa e di chi denuncia l’anomalia calabrese.
Studiosi di varia provenienza (penso ai “Quaderni calabresi”, a “Meridiana”, alle indagini di economisti, sociologi, antropologi) hanno indagato le trasformazioni intervenute nella realtà meridionale, presentata nella sua complessità e disomogeneità, ma quella che è mancata è stata un’assunzione critica e progettuale di queste trasformazioni da parte della politica, anche dai partiti e dalle forze della sinistra. La Lega (con un’abile e tendenziosa opera di rovesciamento della realtà storica) è riuscita a trasformare in “questione” il Settentrione e addirittura a dare la colpa di tale questione a quel Sud che ha fatto la fortuna del Nord, come la fanno adesso quegli immigrati contro cui la Lega si scaglia, raccogliendo consensi (il discorso sulla Lega però è più complesso e merita altra attenzione, come ricordano i tanti meridionali e gli operai che l’anno votata).
Dobbiamo avere consapevolezza che la Lega metterà sempre più nell’agenda politica la questione Nord, tendendo a penalizzare il Sud, non solo col federalismo fiscale, ma anche con un’egemonia economica e, non sembri strano, “culturale” che possono diventare asfissianti. Il Sud, il PD, i partiti meridionali, i movimenti e i gruppi locali non possono stare a guardare. La parola federalismo non deve spaventare: bisogna ricordare che è stata introdotta in Italia proprio dai meridionalisti e dalla tradizione socialista e democratica.
C’è bisogno di coraggio, nelle analisi e negli interventi, di nuovi strumenti conoscitivi, interpretativi, operativi. Non bisogna dare nulla per scontato, per noto, per dato. Immaginiamo di sapere tutto sulla nostra realtà e poi ci sono libri illuminanti (etnografie) come quelli di Saviano (ma non solo) che ci svelano una realtà impensata, poco nota nelle sue molteplici e inedite ramificazioni locali e globali. Da questo punto di vista ritengo che anche la Commissione Parlamentare antimafia, pure con i suoi meriti, mostra oggi tanti limiti e, così com’è, appare superata. La questione criminale del Sud non può essere indagata separatamente, come un fatto a sé stante, ma va vista nei suoi molteplici legami con l’economia, la società, la politica. Ridurre il Sud a questione criminale è razzistico e anche fuorviante. La ’ndrangheta va affrontata e con piani generali di intervento. Un’inchiesta parlamentare sul Sud potrebbe risultare più incisiva, più problematica, potrebbe chiamare alla loro vedere responsabilità le diverse forze politiche.
Cosa sappiamo delle periferie urbane meridionali? Cosa delle borgate romane? Del disagio che attraversa l’Italia? Le tante inchieste di denuncia e tanti buoni libri spesso vengono utilizzati per ragioni di parte. Manca un’inchiesta unitaria, uniforme, su tutto il territorio nazionale, che consenta comparazioni e di uscire dai luoghi comuni, con il fine di guardare all’Italia come a un’entità e non a una nazione a pezzi e frammentata. Conoscere e interpretare non basta: occorre intanto “fare”. Ma anche il “fare” deve essere prosciugato da liturgie e retoriche. Occorre “fare” con un progetto, con una visione d’insieme dei problemi e delle questioni, regionali e nazionali; occorre “fare” secondo valori, principi etici e guardando alla vita quotidiana delle persone. Il “radicamento” non è uno slogan, non è una scorciatoia propagandistica, non può essere ridotto a pratica clientelare, richiede elaborazione, pazienza, innovazione, “adesione” a idee di riscatto, di riguardo, di valorizzazione e non di devastazione (ambientale, culturale, morale) del territorio.