Dal Quotidiano del 7 marzo 2008

 

Non bisogna confondere il fenomeno con quello del terrorismo, ma essere più rigorosi e cauti

La ‘ndrangheta come terribile catastrofe

di Vito Teti

 

Tanti commentatori hanno mostrato l'errore teorico, culturale, politico di parlare per la 'ndrangheta come di un'entità liquida e di paragonarla ad Al Qaeda (sia Bauman che Bin Laden vengono citati male). La 'ndrangheta non viene contrastata con le frasi ad effetto, con i riferimenti e paragoni arbitrari, con gli slogan di maniera. Bisognerebbe essere più rigorosi, più cauti, da tutte le parti, nell'adoperare la parola “terrorista”. Il problema, però, è che a voler annacquare la criminalità di casa nostra nella globalità liquida, significa in qualche modo rimuoverne la sua “solidità” locale, la grande capacità di trasformarsi, inserirsi nella vita sociale e politica della nostra regione. C'è necessità di adoperare altre categorie per capire chi sono gli 'ndranghetisti, come operano e conservano il consenso. Certo che la ndrangheta è una holding criminale, che dialoga con le economie illegali e legali di mezzo mondo, ma non si può dimenticare che essa resta, ahinoi, un triste e amaro “prodotto tipico”, che non può essere “liquidato” con belle frasi e con elaborazioni suggestive e accomodanti. Proprio per aiutare la riflessione, per dare senso anche all'azione di magistrati, forze di polizia, rappresentanti dello Stato, giovani coraggiosi vorrei insistere sul carattere “locale” di un'associazione, che è nata e resta una mala pianta nostrana, anche se poi è stata capace di trapiantarsi, con successo, altrove. Lo faccio, avendo ben chiaro che per un fenomeno che appare un mix di arcaicità e di postmodernità, di forza cieca e di moderna capacità persuasiva, di “radicamento” locale e di apertura esterna, qualsiasi “termine” o “spiegazione” va visto nella sua parzialità, nella sua limitatezza, e nella sua problematicità. Intervenire non è facile, ma non è impossibile. Capire non è semplice, ma bisogna provarci. Senza raccontarci storie, favole, fantasie antiche o postmoderne.

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A dispetto di ogni sorta di mitizzazione della 'ndrangheta, di una sua visione edulcorata, o di una sua considerazione astorica, è necessario cercare di comprenderla nella sua genesi e nella sua evoluzione, nella sua forza e anche nei suoi punti deboli. Contro ogni tendenza

alla banalizzazione del fenomeno, ogni estensione e dilatazione del suo senso dobbiamo ribadire la necessità di conoscere, abbandonando vecchi schemi e non indulgendo a nuove mode. Nel dibattito seguito al mio articolo “Manifesto per una nuova Calabria”, apparso su “Il Quotidiano”, che ha ospitato anche un lungo e interessante dibattito, Domenico Sorace (in maniera per fortuna isolata) ha scritto che la 'ndrangheta è un fenomeno «che non ha bisogno di essere studiato, né capito, né interpretato, poiché presente, penetrante, parlante quanto altri mai», perché la «'ndrangheta non nutre nulla, non proietta nulla, non introduce nulla». Trovo questa posizione infondata, banale e pericolosa. Non si capisce perché venga creata confusione tra il momento della ricerca, della riflessione, dell'indagine e quello dell'intervento. Non penso che i due momenti siano separabili. La conoscenza può meglio guidare l'azione. L'elogio della non conoscenza appare irresponsabile quando arriva da persone che operano nelle istituzioni culturali e pubbliche. Magari nelle scuole e nelle università. D'altra parte sappiamo ancora poco della 'ndrangheta, delle sue articolazioni e ramificazioni, di come si leghi in maniera perversa alla storia e all'antropologia della regione.

Sappiamo poco dell'attuale capacità di espansione e di penetrazione della criminalità, della sua struttura e anche di come si sia inserita nei processi di degrado e di frammentazione della realtà, dei suoi legami, a doppio senso, con la politica. Per essere efficacemente contrastata la 'ndrangheta, al pari di altri fenomeni storici, va conosciuta, studiata, interpretata nei suoi molteplici aspetti e nei tanti risvolti. Va vista in rapporto alla fragilità o alla marginalità di una terra, che, come scrive monsignor Bregantini, è «da riconoscere, da studiare per bene nelle sue cause complesse, senza pudori, ma anche senza vergogna ». Ha osservato quello che resterà il vescovo di Locri:«Più studieremo e faremo studiare il nostro passato, non solo scopriremo tante cause che ci impediscono di crescere, ma seguiremo anche tanti nostri

itinerari passati, che hanno permesso di far bella e grande la nostra regione. Lo studio del passato è il solo grande mezzo per scrutare. Perché solo così sapremo poi interpretare e rispondere. Ma è soprattutto la chiarezza che i nostri occhi hanno avuto nei confronti della mafia e della 'ndrangheta che ci ha permesso di leggerla come una terribile struttura di peccato, che non va mai nascosta né tanto meno mitizzata, ma va bene conosciuta e soprattutto affrontata con intelligenza e saggezza».

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L'immagine della 'ndrangheta come una struttura, come un insieme complesso di elementi che si rinviano, come un «fatto sociale totale », che tutto contagia e contamina, mi porta a dire che essa si configuri come una sorta di «catastrofe» naturale e storica che ha devastato

e devasta la Calabria e i luoghi dove si è ramificata. Non sembri esagerato il termine catastrofe in una terra in la cui storia passata e recente, la vita e la mentalità delle persone sono state segnate da catastrofi come terremoti, alluvioni, frane, malaria,invasioni,emigrazione.

La catastrofe 'ndrangheta è spesso esito, a volte causa, altre volte compagna delle tante catastrofi che hanno afflitto la regione.

Vorrei ricordare che la ndrangheta nella città di Reggio nasce e si consolida a inizio Novecento a seguito del grande terremoto del 1908 e dei molti problemi legati alla ricostruzione. Un ceto borghese abbastanza passivo e una criminalità nascente scorge (come ricorda Lanucara) nelle ricostruzione un'occasione di affermazione sociale. D'altra parte l'emigrazione, intesa come grande catastrofe, determina in Calabria anche l'avvio di processi di modernizzazione che vede come protagonisti “americani” ritornati che spesso sono stati “iniziati” alla criminalità organizzata proprio nell'America. L'America ha restituito ai paesi anche pratiche malavitose apprese altrove. Non dimentichiamo poi l'affermarsi della ndrangheta nel secondo dopoguerra a seguito di spostamenti di paesi nelle Locride e nell'area lungo la costa jonica reggina. In quanto catastrofe la 'ndrangheta ha avuto ed ha la capacità di contagiare, rendere uguale a se stessa, compromettere il mondo circostante.

La 'ndrangheta catastrofe distrugge gli anticorpi della società, confonde anche quanti sono lontani da pratiche illegali. Come le catastrofi la ndrangheta genera assuefazione, melanconia, depressione, sfiducia, spinta ad arrangiarsi, senso di inattività, ma anche alibi per non fare. Spesso ci permettiamo comportamenti inadeguati, clientelari, con la motivazione che tanto così fan tutti, c'è la ndrangheta ed è inutile opporsi. Come tutte le catastrofi, la ndrangheta è anche imprevedibile ed ha la capacità di sorprendere, di sconvolgere, di fare prevalere in tutta la società i comportamenti più “primitivi”, violenti, che occultano gesti di solidarietà e di pietas che pure esistono.

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A dispetto di visioni estetizzanti, edulcorate, folklorizzate del fenomeno e di concezioni che tendono a confondere fenomeni tra loro legati ma sicuramente diversi (ndrangheta, clientelismo, mala politica, malaffare, familismo) sarebbe opportuno recuperare una visione storica e dinamica del fenomeno. Un'altra “mala erba” da eliminare è quella che postula una sorta di ineliminabilità del fenomeno, di una maledizione quasi metastorica. In occasione dei drammatici fatti di Duisburg, qualcuno ha parlato della faida come di una sorta di tratto razziale e antropologico fisico delle popolazione. Qualcun altro, sempre dai dintorni di Arcavacata, scambiato per l'universo mondo, sostiene che la legalità non è qualcosa che si apprende, ma è qualcosa di genetico, biologico. Vale a dire: l'illegalità, la 'ndrangheta, la criminalità sono fenomeni connaturati alle popolazioni, ai paesi, alla gente del Sud. Siamo di fronte a una sorta di versione aggiornata della teoria della “razza maledetta”, dove la parola razza sostituisce la parola cultura, ma la conclusione porta a una sorta di giudizio, di pregiudizio, inappellabile.

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Svuotare la 'ndrangheta dall'interno significa fare capire che il crimine crea ricchezza per pochi e lascia nella miseria; getta nel dolore e nel lutto quanti da essa si fanno attrarre. Svuotare la 'ndrangheta significa svuotarne i falsi valori, prosciugare il brodo di cultura, bonificare il contesto in cui si afferma. Svuotare, dribblare, rendere inutile e insensata la ndrangheta comporta una grande capacità di conoscere, comprendere, interpretare, indagare il fenomeno, nei suoi molteplici aspetti. Conoscere e rispondere. Interpretare e agire. L'azione, quando viene portata avanti con convinzione e credibilità, genera meccanismi virtuosi, contagia, fa riflettere. Quando si afferma la necessità che la 'ndrangheta vada studiata nelle scuole o sia oggetto di materie di insegnamento, non si pensa certo a generici spazi universitari: il progetto è più ambizioso e chiama in causa anche il ruolo delle Università, della scuola, della politica, della società, dei partiti, della Chiesa. Esistono insegnamenti e master che nascono come figli di giochi accademici e di potere: non si capisce, allora, perché la storia, le culture, le letterature della regione non debbano trovare un adeguato e incisivo riconoscimento nelle nostre Università. Nelle facoltà scientifiche viene dato molto spazio, a ragione, al rischio ambientale. Penso che il più grande rischio ambientale sia la presenza della 'ndrangheta. Per questo essa va monitorata, contrastata a livello culturale. In questo senso mi sembra una buona notizia il “Progetto di un Museo della

ndrangheta e della memoria”, che nasce dalla collaborazione tra la Provincia di Reggio Calabria, la Facoltà di Lettere e Filosofie dell'Unical, l'Associazione Antigone con sede a Reggio Calabria. E mi sembrano iniziative all'insegna della chiarezza storica, anche civilmente orientati, i lavori di autori come Antonio Nicaso e Gratteri, ma lavori come quelli di Enzo Ciconte (e vorrei ricordare l'importanza di ricerche come quelle di Lombardi Satriani e Meligrana, di Sharo Gambino e Pasquino Crupi, di Nello Zagnoli e Francesca Viscone, di Renate Siebert, di tanti coraggiosi cronisti e giornalisti e osservatori attenti). Comprendere, scrutare, valutare sono operazioni preliminari, ma indispensabili per affermare un'idea di cultura come coltura e produzione di una nuova mentalità. La partita si gioca a molteplici livelli ma, credo, che la cultura, l'arte, l'istruzione, la pedagogia - non ridotti a liturgia - abbiano un ruolo essenziale per uscire fuori dalla catastrofe opprimente che soffoca la società calabrese.