Vai e vinci
di Vito Teti
E’ vero che in fondo il tempo non passa, e certe volte hai come l’impressione di restare bambino. Torno bambino la mattina che dal mio “piccolo luogo” passa, per la prima volta, il Giro d’Italia.. Gli scrittori e i grandi giornalisti che hanno seguito e scritto del Giro conoscevano questa magia. L’allegria dei miei bambini è contagiosa, carico la macchina fotografica e la telecamera.
Esco in piazza, il paese è in effervescenza. Compro i giornali: le cose di sempre. Si ferma in piazza un furgone con i kit del Giro: maglia, pantaloncini, cappellino, sacca rigorosamente rosa, occhialini. Si forma subito una grande ressa. Li regalano? Dice qualcuno. Macchè: dieci euro a kit. Ne compro cinque: due per i miei bambini, tre per i nipotini. Si vestono subito da piccoli ciclisti e capisci che è come un Carnevale. Tutto verrà buttato in poco tempo. Come i cento panettoni e le cento uova di Pasqua. “L’assai è come il niente”, mi viene da pensare. Penso con nostalgia e con rimpianto che le mie tappe e le mie partite non necessitavano una maglietta sportiva. Ma come sottrarci allo spirito dei tempi? Niente nostalgia, allora. Kit per tutti, doni illusori a buon mercato. Rendiamo felici i bambini per un istante. Seguiamo il loro tempo. Se ci è possibile. Senza sempre assecondare, non fingendoci “eterni bambini”. Ma mentre penso al loro tempo, mi accorgo che sto rimpiangendo il mio, che sentirsi bambini è un lusso che dura poco, che capita rare volte e che è bene afferrarlo, quando capita anche per fatti “frivoli” o “epici” come il Giro d’Italia.
Ognuno sente e conosce il luogo. Il proprio. Mi dirigo all’inizio del paese, lungo la famosa “Viareggia”, la strada dei Borboni, che collegava l’Angitola a Ferdinandea, in una delle zone più “industrializzate” di Europa. Una strada che ha visto passaggi di re e papi, briganti e emigranti, viandanti e ambulanti. Era la strada che faceva da campo di calcio e da pista per i nostri carri con i “cuscinetti” dei camion. Mancavano i corridori del Giro. Mi sento un bambino e rivedo il Giro di Nencini e Baldini –tifavo per il primo della Carpano, con i colori bianconero, come quelli della mia grande Juve.
Dai balconi e dalle finestre della “Viareggia” ti affacci e vedi i corridori salire tra gli ulivi, imbucati in curve interminabili, scomparire e ricomparire e poi ti giri lungo la strada e li vedi davanti tra le case costruite dagli americani a inizio Novecento. Ci sono i ragazzi e le ragazze, e anche gli anziani. Le balconate da dove si affacciano donne antiche e giovani sembrano la quinta di un teatro, ricordano una foto d’epoca. Il sindaco da il benvenuto alle forze dell’ordine e alla gente. Il parroco, circondato da giovani, dispensa sorrisi, e offre, su un altarino improvvisato, vino e sottaceti locali. Domenico Galati, medico e Priore della Confraternita del Crocifisso, filma, aiutato da qualche giovane amministratore, con una telecamera le cui immagini (grazie a un ponte) vengono inviate a Toronto e in tutto il mondo. Da Toronto, dove in molti si sono svegliati alle cinque del mattino, arrivano saluti e messaggi di nostalgia e di rimpianto: “che tristezza non esserci mentre passa il Giro”.
Questo evento “antico” e postmoderno crea aggregazione e socialità, come una festa d’altri tempi. Ma non è una festa antica: è una festa virtuale e reale, televisiva e concreta, collega i tanti paesi frammentati, dislocati.
Le strade da dove passa il Giro sono piene, i balconcini curati, adornati con fiori, coperte e bandierine tricolori, ma sporgendoci dentro si scorgono le case e i vicoli vuoti, le palazzine incompiute, i portoni chiusi. Le strade sono state “aggiustate”, “arranciate”, asfaltate, rese “guardabili”. Di solito la “Viareggia” sembra in alcuni tratti un tracciato della Parigi-Roubaix.
Sul tappetino appena passato, che durerà pochi giorni, qualcuno ha scritto “Il Pirata c’è ancora”; “Grazie Pantani. S.Nicola non dimentica”. Come se si parlasse di un eroe di casa, di un amico a cui essere grato. Passano le macchine della polizia, le ammiraglie ricche di biciclette, qualcuno annuncia: “Un uomo solo al comando. Grazie amici di S.Nicola”. Mi giro come se dovessi vedere sbucare Fausto Coppi, l’uomo solo al comando quando aprivano le vecchie leggendarie radiocronache. E’ un giovane belga, completo rosso, corre spedito verso le Serre e lo Jonio. Dopo sette minuti, passa il gruppo, ma poi il ciclista verrà raggiunto, dopo una lunga e solitaria fuga, che resta ugualmente bella.
Come è diventato diverso lo stato d’animo da quello del fanciullo ingenuo e curioso dell’avvenire. E come passa il tempo inesorabile e, dopo un momento. Sfrecciate, bravi corridori, forza Bennati, Zabel, Savoldelli, Cavendish, nuovi evocatori di sogni e di nostalgie: nella corsa intuirete l’ospitalità delle persone che vi applaudono, vedrete il passaggio dalle marine alle colline e alle montagne, per poi scendere, dall’altro versante, lungo il mare, vi farete, forse, idea dell’unicità e della bellezza dei luoghi: vi accorgerete meno delle rovine provocate dagli uomini.
Vi “invidio”, bravi ciclisti, che passate veloci: noi qui ce la “spassiamo” con la retorica della lentezza e , lentamente, questi paese muoiono.
Fatemi tornare al tempo che non passa, alla storia leggendaria di Bartali che dà la borraccia a Coppi e gli dice “Vai e vinci”. Un caro amico raccontava questo “aneddoto” e tutte le volte che partivo mi augurava con affetto: “vai e vinci”. Dovremmo augurare così a tutti gli erranti, a quelli che partono e a quelli che arrivano. Con la fantasia, finalmente, possiamo andare lontano da questi luoghi devastati e rappresentati e rimpianti proprio dai loro devastatori. Sfrecciate in questa terra immobile o dove tutto è accaduto, guardate i beni e le bellezze che ci sono stati donati e gli abbandoni che abbiamo compiuto. Inseguite le nuvole basse del cielo delle Serre, quelle che ci hanno accompagnato per sempre in viaggi lontani, quelle che ci hanno portato fuori e ci hanno fatto tornare, o quelle che non ti tradiscono mai e che forse sono responsabili delle favole e delle leggende che, per poter restare, continuiamo a raccontarci.