Dal Quotidiano del 27 gennaio 2008                                                                             I^ parte

 

In questo scritto, Vito Teti ripercorre alcuni aspetti della tradizione carnevalesca

che si è mantenuta in vita fino agli anni Cinquanta. «A volte i miei ricordi probabilmente

si sovrappongono, anche “tradendoli”, “traducendoli”, ai ricordi e ai racconti

di chi ho ascoltato per ore e ore, per giorni e giorni», dice l’autore. «L’antropologia e

l’etnografia non possono che essere racconto, narrazione di incontri, legami, condivisione,

storie vissute. Nel prossimo “Domenicale” un altro saggio -racconto di Teti,

a partire dagli anni Sessanta, sulla festa del “re” delle maschere, dell’allegria, della

farsa, del trionfo e della morte

 

 

 

Il racconto del Carnevale

Antropologia della festa

E’ IL GIORNO

DEI PARENTI

 

Quattro domeniche per le maschere, il cibo, l’allegria.

Dedicate alla festa, ma anche

agli amici, ai compari e poi a nonni, zii e cugini. Trionfo e morte del Re secondo una tradizione che coinvolgeva intere comunità. E a San Nicola da Crissa mezzo secolo fa accadeva...

di Vito Teti

 

Nel paese in cui sono nato e cresciuto, e in cui trascorro buona parte del mio tempo, sono ancora in tanti, anche tra i più giovani, a ricordare che oggi è la terza domenica di Carnevale, quella dei parenti, che precede l’ultima domenica di Carnevale. Resistono ancora memorie e pratiche di un’antica tradizione che nel 1951 aveva segnalato Raffaele Lombardi Satriani. «‘A Dominica d’i parenti-Amara chija casa chi non àvi nenti. La Domenica dei  parenti-Infelice quella casa che non ha niente..».

I protagonisti dell’antico Carnevale ad avere custodito memoria di relazioni e pratiche che coinvolgevano l’intera comunità. Salvatore D’Eraclea, Turi de Magurillu, personaggio mitico e storico dell’antico Carnevale sannicolese così scrive in una memoria, pubblicata nel 1994 su mia sollecitazione: 

«…ricordo quando ancora ragazzino, lacero ed eternamente affamato, con l’approssimarsi del Carnevale, sentivo dentro di me una gioia indescrivibile e non solamente per le maschere che mi piacevano tanto, ma anche e soprattutto perché nell’arco delle quattro domeniche dedicate ai festeggiamenti del carnevale si poteva finalmente, grazie al buon cuore degli amici, mangiare della carne, delle polpette e tenti maccheroni, ben conditi col ragù del maiale e bene “informaggiati”. Tutto questo ben di Dio, durava per tutto il mese di febbraio, mese in cui venivano uccisi i maiali e che coincideva con i festeggiamenti carnevaleschi. Le farse avevano inizio la prima domenica (di solito a febbraio), dedicata agli amici, la seconda era dedicata ai compari, la terza ai parenti e la quarta a lui, al Sommo Carnevale.

Già, sin dalla prima domenica, il popolo cominciava a respirare aria di festa, infatti, ancor prima che facesse giorno apparivano le prime maschere che attraversando le vie del paese, al suono della fanfara davano ai cittadini la lieta novella. Vi era un rapporto strettissimo tra festa e alimentazione. I ricchi e signori del paese che per dire il vero non avevano mai trascurato le famiglie meno abbienti specie i vecchi e i bambini, in questa circostanza elargivano con maggiore prodigalità. Che diamine, andavano dicendo costoro: è Carnevale e deve essere festa per tutti! Ma i poveri, a causa dell’eterna disoccupazione che da sempre ha afflitto la martoriata gente del Sud, erano tanti e tutte le mattine si doveva purtroppo assistere all’umiliante spettacolo che davano i vecchi e i bambini i quali si aggiravano attorno alle case dei signori per ricevere il soldino e un tozzo pane…Carnevale esplode come una bomba di entusiasmo e di folle allegria. Per le strade ci sono le maschere e  in molte case ci sono i maiali macellati e sia le donne come gli uomini che vengono chiamati per la lavorazione del salame, la sera si riportano a casa ogni ben di Dio e a parte una bella porzione di carne cruda, ricevono delle cotiche, dei “polponi” e delle sanguinaccia ancora caldi e fumanti… ».

 

Maschere , allegria, buon mangiare

Non saprei dire meglio di Turi. Egli è stato un grande affabulatore: incantava con le parole, con i gesti e con lo sguardo, ma aveva letto molto: di letteratura, storia, teatro. Durante la prigionia in Africa e poi al ritorno in paese, a contatto con gli studenti dell’epoca, era diventato organizzatore e recitatore di commedie, drammi, farse. Non escludo che egli a posteriori “spieghi” mutuando da scritti di letteratura e di antropologia scoperti grazie alla nostra frequentazione. La tradizione orale della comunità segnalava la tristezza e la solitudine di coloro che a Carnevale non potevano festeggiare. Un canto da me raccolto e pubblicato nel lontano 1976 recita:

Carnilivari fa pe’ li cuntente,

Pe’ cu’ àve carne, casu e maccaruni.

Ed eo l’amaru chi non aju nente

Mi curcu a paru paru de lu suli;

E poe la notte mi rivigghiu e sentu

E cuntu li ciaramidi unu pe’ unu.

 

Anche il giovedì precedente Carnevale, il Giovedì Grasso o “de lardaloro” (del lardo, del grasso), bisognava fare di tutto (scherzosamente si diceva anche dare in pegno il figliolo più piccolo) per avere accesso alla carne di maiale:

De Lardaloro

 cu’ non ave carne                                                                                                           

Si ‘mpigna lu figghiolo.

Carnevale veniva salutato con gioia, allegria e contentezza perché ognuno poteva invitarsi alle caldaie. I “farsari” e i mascherati del paese, quando entravano in scena nelle piazze e nelle strade, si presentavano come portatori di allegria e di contentezza.

Largu, largu de ‘sta chiazza

Ni volimu accomodà

L’allegria, la cuntentizza

la portamu a Carnevà.

“Conviti”, scambi di doni a base di carne del maiale ratificavano legami familiari, amicali, sociali su cui si reggeva la complessa struttura dell’universo tradizionale. Non bisogna mitizzare ed enfatizzare pratiche di socialità, scambio, reciprocità, solidarietà che trovavano una loro ragione di essere i fattori concreti, in storie di necessità e di precarietà. I legami del passato ritornano anche come segni di una dignità e di una poesia di cui qualcuno ha ancora fondata nostalgia.

Con il nonno alla corte dei parenti

Michele Galati, nato nel 1936, mio amico e cugino di terzo grado, ricorda che da bambino, la sera dell’Azata, il martedì grasso, a conclusione dei festeggiamenti di Carnevale, suo nonno Nicola lo prendeva per mano e lo portava in giro per il paese a trovare, a salutare, i due fratelli e le quattro sorelle, una delle quali era mia nonna materna. Il nonno di Michele chiamava i fratelli, che lo invitavano ad entrare, a bere un bicchiere di vino, a mangiare qualche braciola. Era anche l’occasione per informarsi sullo stato della salute, per parlare dei problemi di lavoro, ricordare i familiari scomparsi.

Michele ricorda con nostalgia l’iniziazione, in un clima conviviale e affettuoso, al culto dei familiari. Egli conserva una mappa mentale dei luoghi e dei parenti di almeno tre generazioni.

Mia madre e mio zio Antonio, scomparso di recente, parlavano di almeno un duecento persone, aprivano un interminabile album di famiglia: di ogni persona ricordavano storie, carattere, disgrazie, successi.

Questa dimensione orizzontale e verticale non appartiene più alle nuove generazioni che vivono in paese. Le grandi trasformazioni economiche, sociali e strutturali hanno mutato mentalità, pratiche, percezione degli altri, senso del tempo e del luogo. Non c’è da piangere un “buon tempo antico” mai esistito. Bisogna conoscere e capire.

In questo scritto ripercorro alcuni aspetti della tradizione carnevalesca che si è mantenuta in vita fino agli anni Cinquanta. A volte i miei ricordi probabilmente si sovrappongono, anche “tradendoli”, “traducendoli”, ai ricordi e ai racconti di chi ho ascoltato per ore e ore, per giorni e giorni. L’antropologia e l’etnografia non possono che essere racconto, narrazione di incontri, legami, condivisione, storie vissute. Nel prossimo “Domenicale” racconterò il “ritorno di Carnevale” a partire dagli anni sessanta, riconsidererò l’opera di reinvenzione e l’invenzione di una nuova tradizione.

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Farsari e ‘mprosaturi di S. Nicola

Il mio paese, S. Nicola da Crissa (in passato di Iunca e di Vallelonga), era conosciuto ancora nel periodo della mia giovinezza come il paese dei “crucifissanti e dei rosarianti” o dei “farsari”. La prima “fotografia” faceva riferimento ai contrasti e ai conflitti tra confraternite che hanno segnato la storia religiosa, economica, sociale della comunità,  condizionare la mentalità, la cultura, il senso di appartenenza delle popolazioni.

La seconda immagine riconosceva una consolidata tradizione di autori e recitatori di farse e di “ ‘mprosatori”, autori di versi, che manifestavano la loro sapienza, la loro arte, la loro inventiva nel corso di feste, matrimoni, e soprattutto nel periodo di Carnevale. «Farsari di S. Nicola», nella vulgata locale, stava ad indicare gente allegra, gioiosa, scherzosa e abile nel verseggiare; altre volte, per i forestieri, diventava una sorta di ingiuria per indicare persone poco serie, scanzonate, inaffidabili.

La presenza di ‘mprosaturi nel paese è attestata già nella seconda metà del Settecento, anche se molti indizi autorizzano a spostare la tradizione all’indietro. Nel 1635, l’abate Gian Giacomo Martini pubblica, nel paese, “Consiliorum sive responsorum iuris…”, il primo libro a stampa (che ho ripubblicato di recente in anastatica per l’editore Donzelli) della provincia Vibonese e di quella di Catanzaro. Il manoscritto degli “Statuti” della Confraternita del Crocefisso (1669-1680) costituisce un eccezionale documento di storia e antropologia religiosa. Il serrato dialogo tra cultura delle élites e culture popolari è un tratto caratteristico della mia comunità. A una storia di contaminazione e di apertura si deve la ricca produzione di testi scritti ed orali.

 

‘Mprosaturi e poeti di fine Settecento-inizio Ottocento

A Mico Tallarico, con cui sono legato da rapporti di amicizia fin dalla gioventù, debbo la conoscenza  dei versi “composti” da un tal Nicola Russo per la costruzione in un nuovo sito della chiesa di S. Nicola in zona Cutura a seguito di un terremoto di fine Settecento. Il testo orale, su cui mi sono soffermato in altra sede restituisce il clima popolare di fervore religioso, ansia ed entusiasmo che prende la gente nel ricostruire la chiesa.

 Un mio antenato, Nicola Martino, conosciuto, in famiglia, come nonno Colacchiu, è autore, tra l’altro, di versi dove viene raccontata in maniera pungente e preoccupata l’invasione delle truppe francesi a inizio Ottocento. Colacchiu accoglie con modi ospitali i francesi, ma li invita, con fermezza, a comportarsi con rispetto.

Sugnu de Santu Nicola,

lu sapiti,

Soprannome Colacchiu mi chiamati

Vorria mu sacciu de chi paesi siti

 Vorria ‘nu  pocu mu mi rispettati!...

Questo testo sarebbe diventato nel tempo una sorta di orgoglioso e rivendicato senso di appartenenza. La forza e la dignità del nonno Colacchiu diventano nel tempo una sorta di “modello ideale” al punto che negli anni settanta del Novecento, nel periodo di revival folklorico, di riscoperta delle tradizioni, quei versi vennero ripresi e adottati da giovani nella lotta amministrativa paesana.

Si raccontano “tenzoni” epiche tra ‘mprosaturi, che si sfidavano con versi liberi e improvvisati, “cacciati” al momento”, che potevano essere anche irridenti, scurrili ed offensivi.

Mico Tallarico ricorda il proverbio: «Poeti, ‘mprosaturi e pittasanti – Sempe moriru poveri pezzenti». I poeti, gli autori di storie e di versi, coloro che dipingevano o costruivano statue di santi per le chiese restavano pezzenti. Nemmeno allora, la poesia rendeva ricchi, ma il poeta popolare era apprezzato e stimato per la sua bravura, godeva di grande prestigio, era anche temuto perché poteva dire liberamente, anche se ricorrendo a metafore, la “verità” o svelare fatti nascosti, censurare comportamenti “immorali” della gente, emettere giudizi scomodi. Farsaro e ’mprosaturi erano, in fondo, custodi dei valori, delle regole e dell’ordine tradizionale.

Una ricca e nobile tradizione antropologica e letetraria (evito lunghi elenchi in questa sede) di studi sul Carnevale ha privilegiato gli elementi antagonisti, contestativi, trasgressivi, addirittura “rivoluzionari”. E’ innegabile il “rovesciamento” che veniva, a più livelli, realizzato nel corso del periodo carnevalesco, ma in realtà Carnevale finiva col rappresentare i rapporti sociali esistenti nelle comunità: era un rito che raccontava il mito del ritorno. Il modello di riferimento era collocato “in illo tempore”, in un tempo mitico, che stava all’indietro. 

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Memorie di inizio Novecento e del periodo tra le due guerre

A inizio Novecento contadini, artigiani e studenti organizzarono un corteo mascherato per ironizzare sulla guerra di Etiopia. Nel periodo tra le due guerre, il Carnevale ha avuto la sua età dell’oro. I farsari acquistano notorietà lontano dai confini paesani. Nel periodo carnevalesco la topografia carnevalesca ha come centro la ruga chiamata “Citatela”, italianizzato da Turi in Citatela, che ricorda come da quel luogo uscissero «le maschere più belle, le satire più pungenti velate da sottili ironie e ben congeniate». Le farse erano elaborazioni di persone non sempre analfabete, talora “colte” anche se non appartenenti ai ceti dominanti. Oltre a contadini e a lavoratori della terra, partecipavano alle diverse fasi del Carnevale piccoli proprietari, artigiani, dipendenti comunali, sarti, calzolai, falegnami, barbieri. Anche notabili, professionisti, emigrati che avevano fatto fortuna in America, collaboravano, offrendo vestiti, indumenti, quanto serviva per il mascheramento. Spesso bastava un camice bianco delle confraternite, una vecchia giacca con le maniche rivoltate, un pezzo di carbone con cui tingersi il volto.

Protagonista indiscusso di carnevali tra le due guerre Domenico Pileggi, il capo delle guardie municipali del paese. Per un Carnevale degli anni venti, costruisce un’enorme chioccia meccanica dotata di due larghissime ali che egli riusciva ad azionare dall’interno, seguita da ben ventuno pulcini, ciascuno con dentro il suo bambino.

Un anno, proprio nei giorni di Carnevale, Pileggi era gravemente ammalato di polmonite. Il medico del paese si era recato a casa sua, a tarda sera, per visitarlo, viste le condizioni gravi in cui versava. Narra Turi: «Vi trova l’ammalato steso sul letto, ma fuori dalle coltri con addosso il paramento che avrebbe dovuto indossare il giorno di Carnevale, e con il viso impasticciato di colori. L’imbarazzo fu generale, ma il Pileggi sornione non si scompose e rivolgendosi al medico che lo guardava sbalordito, con voce flebile disse: […] è Carnevale capite… l’ho fatto solamente … per devozione».

Questa storia, quasi un racconto mitico, una leggenda, dell’ammalato o della persona colpita del lutto, così legata al Carnevale al punto di non poter fare a meno di mascherarsi, sia pure in una dimensione privata, intima, racconta il carattere quasi religioso, sacro, del rito. C’era un obbligo nei confronti della tradizione, che bisognava onorare e rispettare anche in circostanze dolorose. Storie analoghe sono presenti in molte comunità calabresi, da me studiate e osservate, e che hanno avuto una forte tradizione carnevalesca.

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La comunità partecipa, osserva, si racconta

La letteratura antropologica privilegia il carattere spontaneo ed “esclusivamente” popolare, “autonomo” del Carnevale. In realtà il reperimento dei costumi e delle “maschere”, la “scrittura” dei testi delle farse, i cortei, le rappresentazioni nelle vie richiedevano un’organizzazione meticolosa, lo studio attento delle “parti” e dei gesti, oltre a tanta capacità di inventare e improvvisare.

Il corteo che portava in trionfo il grasso Carnevale, usciva dalla Citatella, aperto dalla banda del paese. Seguivano cavalieri, asini, Carnevale, “fratelli”, mascherati che impersonavano “signorotti”, parroci, canonici, vescovi obesi e con le pance sporgenti, suore opulente. Di seguito poveri, straccioni, che invocavano, con lamentele, pianti, imprecazioni, il padre Carnevale. Nelle vie e negli slarghi del paese, la domenica di Carnevale, venivano recitate le farse in cui si prendevano in giro signori, parroci, benestanti, ma anche emigranti e donne che restavano sole, commercianti imbroglioni, forestieri inaffidabili. Mascherati vestiti elegantemente e altri vestiti da donna eseguivano danze al ritmo di musiche e balli dell’epoca.

Lunedì, Carnevale, che aveva troppo bevuto e mangiato, si ammalava e moriva e martedì alla fine di un lungo corteo il vescovo teneva l’elogio funebre, tra i pianti e le irrisioni dei mascherati, dei poveracci, della moglie di Carnevale, che si graffiavano e si stracciavano le vesti. Chi ha parlato del Carnevale come grande esorcismo della morte, come parodia di chi esercitava il potere e anche dei riti penitenziali, luttuosi, delle confraternite troverebbe qualche conferma nell’antico Carnevale di S. Nicola, a condizione di non sottovalutarne peculiarità e tratti locali. Dopo l’elogio del Carnevale, la banda suonava la marcia funebre di Chopin. La tradizione dei paesi aveva una sua dinamicità e una sua apertura.

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Dal trionfo alla morte nei primi anni Cinquanta

Nel clima postbellico, di fame e miseria, «in molti maturavano l’idea di espatriare». Il primo grande esodo aveva espulso contadini, artigiani, poeti dialettali, artisti, suonatori, contribuendo ad immalinconire ancora di più paesi tristi per la fame e le malattie. Apollo Lumini a fine Ottocento, in un suo famoso libro sulle farse di Carnevale in Calabria notava come l’«allegria» del periodo carnevalesco fosse ormai forzata in quei mastri e villani calabresi: «…quel pulcinella che fa ridere i passanti coi suoi frizzi, si prepara domani a partire per l’America in cerca di pane, e di nuovi dolori».

Il Carnevale del 1952 vede come protagonista Salvatore D’Eraclea. Nelle sue testimonianze Turi sottolinea la sospensione temporanea della censura e dell’inibizione il linguaggio. Vestito, in maniera scherzosa, da Generale, Turi accoglie in piazza l’Imperatore Carnevale, lo cinge con una corona imperiale intrecciata di fiori e salsicce. La banda suona l’inno di Radetzky; 21 colpi salutano l’incoronazione. Poi augura Gloria Superna all’Imperatore: infine dà sfogo verbale alle sue fantasie erotiche ed alimentari:

Oje li donne su cchiù generose

Cui guarda, cui sorride e fa l’occhiata

Ni vonno fino  a jiorno  de l’azata

Ca doppo cu’ si sturde cchiù de nui.…

‘Nde vogghio na quatrina bbone bbone,

mmu sugnu bedje, forte e cu’ coraggiu.

Una de jorno mu gratta formaggiu,

l’atra de notte mu mi sbatte l’ova…

Carnevale non consentiva, in realtà, trasgressioni erotiche, ma diventava un’occasione d’incontro e permetteva anche alle donne una certa libertà di movimento, come accadeva nelle altre feste.

La morte dell’Imperatore Carnevale era, quella volta, senza “ritorno”; assurge a metafora dell’erosione di un universo secolare. Nel giro di un decennio dal paese partono circa mille persone. Fuggono i giovani, i suonatori, i mascherati. Emigra, subito dopo, anche Turi per il Nord Italia. A Toronto nasce un doppio che oggi ha il triplo degli abitanti del paese di origine. La morte di Carnevale. Machail Bachtin pensava che Carnevale non muore mai, si ritorna sempre con volti nuovi. Forse. Anche a S. Nicola, Carnevale “ritorna” tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta. Ha un altro volto, altri protagonisti, altre motivazioni. Di questo, di altri farsari, vecchi e nuovi, scriverò domenica prossima.