La “macchina lignea” del SS. Crocefisso

 

L’architettura dell’Altare maggiore nella Chiesa Madre di San Nicola da Crissa.

 

Lettura critica, ipotesi attributive.

 

Le notizie frammentarie che attualmente documentano la storia dell’Altare ligneo del SS. Crocefisso (Altare maggiore) della Chiesa Madre di San Nicola da Crissa, non ci aiutano a chiarirne con esattezza la vicenda esecutiva: non sono stati ancora reperiti, infatti, documenti esaustivi che comprovino l’attribuzione dell’opera e, di conseguenza, la sua esatta collocazione cronologica. In attesa che la spigolatura delle fonti ci restituisca - qualora vi fossero - suffragi documentali in proposito, ci sembra però importante affrontare una lettura stilistica dell’opera, oggi resa quanto mai necessaria dai risultati raggiunti nell’ultimo restauro al quale l’architettura è stata sottoposta. La scoperta delle policromie originali, riportate alla luce nel febbraio u.s. dall’équipe  di restauratori diretti da Daniela Del Francia, ha restituito alla comunità sannicolese ma anche a quanti - tra studiosi e appassionati d’arte si interessano a tali manufatti - un capolavoro nella sua reale dimensione estetica e stilistica, finalmente liberato da deturpazioni posticce e falsificanti.  L’Altare del SS. Crocefisso, infatti, pur mantenendo la sua spiccata nobiltà esecutiva, era ancora “velato” da un’interpretazione pittorica apposta in seconda istanza che impediva la visione dell’opera così come concepita e realizzata dal suo stesso interprete.

Ecco che studiare un’opera nella sua “novità” ritrovata, cioè nella dimensione filologicamente  più corretta perché corrispondente a quella della sua primordiale idea compositiva, rende il processo di indagine più appassionante e corretto. Un privilegio divenuto assai raro - ahinoi! - soprattutto nella nostra Regione. Confortati da questa importante scoperta, l’approccio critico al manufatto ci ha rivelato in maniera inoppugnabile una sua filiazione diretta con l’ambito artistico di Serra San Bruno, scuola alla quale si rapporta per una complessa serie di considerazioni tecnico-esecutive, nonché puramente estetiche. In realtà le caratteristiche salienti dell’opera, già precedentemente individuate da altri studiosi e messe in relazione con la fiorente scuola d’arte calabrese, non la “omologano” alla produzione serrese ma piuttosto la pongono in un rapporto di stretta correlazione. Il fondamento di tale correlazione trae spunto da una concezione strutturale omogenea all’interno della quale la simmetrica poesia dei dettagli, al pari di una firma ben dissimulata, ne suffraga la medesima origine.

Ci sembra altresì verosimile che l’opera sia stata commissionata a ridosso del “grande flagello”, il drammatico sisma del 1783 che funestò impietosamente la Calabria colpendo con singolare virulenza l’entroterra serrese. L’erezione del nuovo altare dedicato al Crocefisso potrebbe, infatti, collocarsi nella delicata fase di ricostruzione e abbellimento artistico in cui fu coinvolta la stessa cittadina di San Nicola. L’architettura lignea segue con libertà e convincente sicurezza scelte di prima intuizione che vorrebbero accostarla non alla fase di “consumo” del linguaggio artistico ma piuttosto al naturale avanzamento di un programma pertinente ad un caposcuola.

Tralasciando la sottostante arca marmorea dell’Altare, del tutto estranea alla macchina lignea, l’architettura si innalza in forma piramidale su un alto stilobate, o meglio, su una predella bombata a guisa di un balaustro all’interno della quale si aprono specchiature policrome. La lettura in pianta evidenzia una forma illusoriamente concava, con l’accenno, cioè, ad una esedra che è appena descritta dall’aggetto di due colonne interne ruotate verso l’esterno a mò di un’edicola. L’illusorietà della forma trova risposta nel coronamento del fastigio ove i setti dell’architrave, sormontanti le colonne, ruotano specularmente per potenziare quell’effetto di apertura, quasi di estroflessione architettonica. Il movimento viene però chiuso dalla misurata contrapposizione delle colonne esterne, anche queste non alveolate ma a tutto tondo, la cui funzione strutturale sottolinea con grande maestria un piacevole effetto di plasticità e di morbida contrapposizione chiaroscurale tra l’aggetto interno e il volume esterno. La pala dell’Altare, profilata da rimarcate cornici e dal ritmico contrapporsi di cartocci ancora suggestionati da reminiscenze rococò, si chiude in uno spiccato timpano triangolare, la cui ampiezza deborda, s’infrange e quindi replica in più cornici sull’architrave stesso fino a culminare nella cimasa. La piramide visiva si conclude con l’involgersi di due grandi volute a coda di delfino che, abbracciato il movimento dell’esedra, lo raccordano in uno sviluppo plastico di cartocci e di decorazioni acantinee, al centro delle quali troneggia la colomba raggiata dello Spirito Santo. Un grande festone riccamente intagliato, quasi al pari della valva di una conchiglia, dischiude a mò di perla il globo terraqueo sul quale, estrema ratio, trionfa la croce raggiata.

Il rilievo dei tratti peculiari di questa scultura, sottacendo per un attimo i tanti e non meno importanti requisiti esecutivi, richiama subito alla memoria l’imponente macchina realizzata su progetto di Biagio Scaramuzzino per la Chiesa dell’Assunta di Terravechia a Serra, uno dei più autorevoli archetipi di architettura lignea serrese della fine del ‘700, benché l’opera sannicolese non si avvalga della stessa ridondante fastosità decorativa, né tanto meno della replicata citazione di porzioni architettoniche in essa impiegate. Piuttosto è proprio questa linearità a porla in contatto con l’altro fastigio serrese, quello che Vincenzo Scrivo disegna e fa eseguire a Raffaele De Francesco nel 1799 per la Chiesa di Spinetto. Il paragone con i succitati esempi, pur spostando il nostro interesse su due aspetti quasi opposti nell’interpretazione di un’architettura d’altare, ci introducono però nel vivo di una considerazione, cioè, che l’opera di San Nicola non sia da meno all’interno di un’evoluzione stilistica della scuola serrese. Del resto ripensando a scelte successive, come le architetture lignee di Soriano (Altare maggiore dell’Arcipretura di San Martino), di Pizzoni (Altare maggiore nella Madonna delle Grazie) o di Brognaturo (Altare della Madonna della Consolazione nell’omonimo Santuario), ci fanno già gustare una diversa concezione che nasce dal vero e proprio consumo del linguaggio serrese, quasi necessarie evoluzioni di una storia artistica che, nella fattispecie, con lo scultore Annunziato Tripodi è perdurata in Serra fino alla prima metà del ‘900!

Ripensando, dunque, ad un’ipotizzabile presenza di angeli torcieri posti ai lati del fastigio (è possibile che si tratti dei due angeli in deposito presso la Confraternita del Crocefisso?), nonché alla riuscita realizzazione di alcuni particolari come l’intaglio dei capitelli, la plastica quasi “trasparente” dello scudo centrale ove troneggia lo Spirito Santo; non in ultimo, all’assennata ripartizione delle membrature architettoniche, ci sembra piuttosto evidente che si tratti di un artista di primo piano nella scuola serrese, in qualche modo legato o ispirantesi a Vincente Scrivo, maestro di statuaria lignea, ma ben orientato a scelte correnti che soprattutto in questa architettura hanno ancora il sapore di una novità piuttosto che di una rimeditazione.

Il ritorno, poi, alle policromie originali va a suffragare un’altra convinzione sull’arte serrese. L’accostamento originale dei colori, che purtroppo oggi non dà alle altre opere un’effettiva credibilità storica, dovrebbe richiamare a San Nicola gli studiosi della scuola serrese perché ci si possa accostare ad un esempio finalmente valido di coloritura riscoperta nella sua ben conservata qualità. Si guardi, ad esempio, alle colonne, interamente argentate e quindi meccate con una patinatura piuttosto evanescente di gommalacca; ai capitelli, sui quali persiste più evidente la doratura, voluta quasi per contrastare tecnicamente lo slancio delle colonne rispetto al nitore dell’architrave. Semplicemente deliziosi, poi, i tenui accenni pastello nelle parti specchianti dell’architettura, in special modo l’azzurro cenere che non ha pari nella tavolozza impiegata dall’artista per siglare questo capolavoro.

Mentre resta aperta la diatriba sull’effettiva attribuzione dell’opera e sulla sua collocazione cronologica, ci sembra, però, doveroso sottolineare - e con buona pace di tutti - l’effettiva importanza del manufatto sannicolese, nonché il valore documentale che esso riveste nell’impegnativo percorso di riscoperta della temperie artistica serrese. Non di meno, ci sembra altrettanto doveroso dare atto alla Comunità di San Nicola da Crissa per la sensibilità dimostrata in questa delicata vicenda: attraverso il suo Parroco ed il Priore della Congrega del SS. Crocefisso, i Sannicolesi hanno voluto coraggiosamente  dimostrare, in controtendenza con le balzane “mode” dei nostri giorni, che il valore devozionale e storico-artistico delle opere d’arte non è sminuito dagli esiti del restauro scientifico, ma piuttosto esaltato nella sua più intima ed indiscutibile dignità, quella, cioè che rende mirabilmente inscindibile un capolavoro artistico dalla sua destinazione ad oggetto di culto.

 

 

                        Gianfrancesco Solferino -      Storico dell’Arte