Dal Quoidiano del 16 novembre 2009

 

Stefano e il bisogno di giustizia,

di Vito Teti

 

Esistono immagini, foto, espressioni e volti del nostro tempo e dei nostri giorni che hanno la forza di raccontare la realtà. Quasi si assumano il compito di mostrarti una realtà dura, che ti fa rimpiangere, qualche volta di non essere in presenza di una situazione irreale, virtuale. Esistono immagini che ti colpiscono, ti entrano nel cuore, ti sfondano l’anima perché senti che stanno parlando di te, del dolore dell’uomo e del mondo, del senso di impotenza che ci avvolge. Nelle mie notti inquiete, in cui combatto con il demone della scrittura e con i rimpianti, con la fatica del vivere e con le angosce private e collettive, non riesco a togliermi dalla vista e dalla mente le immagini di Stefano Cucchi. So poco di lui, soltanto quello che ho letto sui giornali e so abbastanza per sapere che non è morto, ma che è stato ucciso.

“Vedo” Stefano (forse anche perché si chiama come mio padre e come mio figlio) e mi viene da piangere, mi sento sconfortato e perdente, fuori luogo e fuori tempo. Ho criticato un certo “lombrosianismo” di  maniera, ma credo che i volti e gli sguardi parlino, rivelino l’anima, il carattere, forse anche il destino delle persone. Quel volto delicato e pulito, triste e sorridente, indifeso e docile è l’emblema del povero destinato a soccombere, del buono (o del “povero peccatore”) che ha bisogno di aiuto e ha la sfortuna di incontrare il male e uomini malvagi.

Non sembri irriverente: mi sembra un nuovo Crocefisso (magari il buon ladrone sulla Croce) vivente e morto destinato al martirio e al sacrificio. Lasciamo aperto il dibattito sul Crocefisso a scuola, interroghiamoci (mi spiacerebbe non vedere nella scuola di mio figlio in Crocefisso che parla della mia religiosità, della mia laicità, del mio vissuto, della mia confraternita), ma credo che saremmo tutti più credibili se cominciassimo, davvero, ad occuparci dei “nuovi Cristi” viventi, degli indifesi, degli immigrati, dei poveri che vivono in luoghi della disperazione, dei portatori di solitudine, dei richiedenti affetto e comprensione. Perché domandava a metà Ottocento il nostro Vincenzo Padula, prete di Acri, si indugia ad adorare un nudo legno e restiamo indiferenti al Cristo vivente, al “Cristo di carne”, al bracciante oppresso e sfruttato?

Perché non si ascolta il cattolicesimo di questi sofferti uomini di Chiesa e ci si affida ai Giovannardi, sempre proni al potere, sempre forti e prepotenti con i deboli, e arrendevoli e servili con i potenti. Sempre pronti ad assolvere grandi spacciatori nelle ville del Principe, sempre in prima fila a parlare di difesa della vita, e poi insensibili, indifferenti, insultanti nei confronti di coloro che la vita la perdono davvero. Sarebbero questi i custodi e difensori delle radici cristiane della nostra civiltà?

Ho seguito l’altra sera Roberto Saviano nel programma di Fazio parlare di forza della parola e della scrittura, delle ingiustizie del mondo e di chi vi si oppone rischiando e perdendo la vita. La sua narrazione della recenti repressioni in Iran mi ha turbato per la lucidità e l’efficacia, la partecipazione profonda e sincera, con cui ha saputo raccontare un regime oppressivo, chiuso, violento. Inquieta la storia della giovane ragazza, bella e con il capo coperto, che manifestava per una vita normale e meno cupa, sequestrata dalla guardie rivoluzionarie, torturata violentata a sangue, stuprata selvaggiamente, bruciata dai fianchi in giù, mortificata nel corpo e nell’anima. Il potere vuole annullare, cancellare, bruciare i corpi, ma perché l’umanità, la pietas, la vergogna sono sempre sentimenti più rari, ammesso che siano stati sufficientemente presenti in passato? Perché anche uomini semplici, militari, soldati, guardie magari loro stessi poveri insoddisfatti, padri di famiglia e mariti premurosi, hanno la forza di partecipare a stupri selvaggi, hanno la capacità di compiere scempi inauditi? Perché l’altro, il fratello, la sorella vengono ammazzati, trucidati, dai loro “simili” e perché il Potere ha la forza di opprimere, convincere, addomesticare? Conosco le risposte dei sociologi e degli antropologi, degli storici e dei politologi, ma non attenuano il mio turbamento, il bisogno di pormi domande sull’uomo. Certo, nel caso dell’Iran e degli altri paesi ricordati da Saviano (Cuba e l’Unione Sovietica, ma anche la Russia) ci rassicuriamo pensando a luoghi oppressivi, ma lontani da noi, dalla nostra Civiltà, a luoghi dove vige il “fanatismo” e l’integralismo, dove non è arrivato l’illuminismo, e dove lo Stato è potere, religione, etica, costume, diritto e non esiste alcuna distinzione dei poteri.

Ma quando qualcosa di simile avviene da noi, quando la vita di un indifeso e all’arbitrio di immeritevoli rappresentanti dello Stato che dovrebbero proteggerla, quando la barbarie si manifesta nella nostra magnifica civiltà occidentale, nella patria dove è stata abolita la pena di morte e dove Vico ci insegnato il senso della storia, cosa dobbiamo pensare? Certo i due eventi non sono commensurabili e continuo a credere, per mille ragioni, che l’Italia non sia l’Iran e non aspiri nemmeno a diventarlo, e che resti uno dei migliori luoghi al mondo. Spero che giustizia venga fatta, ma perché la vita, anche da noi, ha perso la sua sacralità, è tolta nelle case e nelle strade, nelle caserme e nelle piazze, con tanta facilità, quasi si debba portare a termine una sporca pratica ordinaria e quotidiana? Cosa ci ha reso distaccati, freddi, insensibili, indifferenti? Perché pietà e vergogna sono morte? Da dove arriva questo senso di impunità, il piacere di fare male e di farsi del male, l’indifferenza a quello che gli altri pensano di noi? Tante domande. Tante possibili risposte. Tanta difficoltà a rispondere. Nessuno può assolversi o autossolversi, può sentirsi estraneo a queste domande. Siamo tutti colpevoli, come ricorda ieri su “Repubblica” Adriano Sofri. Ma una società, una politica, un potere che celebrano e osannano gli imbroglioni, che elogiano le forme di machismo e di omofobia più inquietanti, cosa possono comunicare e insegnare al cittadino, agli umili, a chi vive di fatica e di stenti? Là dove a governare sono le mafie (e i loro complici politici), là dove la speculazione edilizia, la devastazione del paesaggio (che provoca frane, lutti, dolori), l’evasione fiscale diventano un titolo di merito, in una società che fa della vendita e svendita del corpo uno stile di vita, con quale credibilità e autorevolezza si può pensare di accogliere e integrare (aiutare, sostenere) gli indifesi, gli ultimi, gli “scarti”, i poveri Cristi?

Presidente del Consiglio, io non la ritengo responsabile di tutti i mali del mondo e nemmeno d’Italia, conosco le trappole e i paradossi della storia, della democrazia e della complessità, non rappresento nessuno e non parlo a nome di nessuno. Per questo faccio mio l’appello fatto ieri su “Repubblica” da Saviano. Non alimenti il senso di impunità che domina nella nostra società, non faccia, definitivamente, scempio delle regole, non stravolga la storia di diritto liberale che ha avuto (pure tra mille contrasti) anche strenui difensori durante il fascismo, non annulli le distinzioni tra poteri, una preziosa eredità di quell’Illuminismo a cui la nostra nazione ha dato un contributo decisivo.  Non ci faccia venire l’incubo di un ritorno a prima del Rinascimento, al periodo dei signori feudali con diritto di vita e di morte, con il “jus primae noctis” e con poteri taumaturghi, in guerra contro tutti e capaci di tutto.

Mostri, signor Presidente, che tutto il suo darsi da fare, il suo aggirarsi nei luoghi dei disastri, il suo bisogno di essere simpatico e di cercare simpatia non hanno nulla a che fare con la legge sul processo. Continui a governare, ma ritiri la legge arbitrio, questo nuovo arcaico “jus” personale, che sfarinerà la società italiana, creerà tensioni e lacerazioni imprevedibili. Non confondo i problemi e gli eventi, ma questa sua decisione potrebbe fare sperare che anche per gli Stefano Cucchi ci possa essere ancora una giustizia vera. Forse renderebbe credibile l’Italia che si mobilita per libertà e la dignità delle popolazioni dell’ Iran e della Cina. Lo so, sto sognando, sto colorando i miei incubi, siamo sul baratro, e penso che il volto dolente e implorante di Stefano accompagnerà il mio melanconico e disincantato sguardo sulle cose del mondo e dell’Italia. So bene che dovremo cercare altre strade e intanto cercare e accogliere quei Crocefissi che a tanti piacciono quando sono appesi alle fredde pareti e che vengono presi a calci, picchiati a sangue, allontanati, gettati a mare quando bussano alle nostre porte, quando camminano al nostro fianco e ci chiedono di essere soltanto riconosciuti.