Dal Quotidiano del 17 novembre 2009

Come il regista intende l’essere straniero

Wim Wenders ritorno in Calabria

Il concetto di identità dei luoghi: di nuovo a Riace «per passare attraverso le cose»

di Vito Teti

«L’essere straniero per me non è altro che una via diretta al concetto di identità. In altre parole, l’identità non è qualcosa che già possiedi, devi invece passare attraverso le cose per ottenerla. Le cose devono farsi dubbie prima di potersi  consolidare in maniera diversa. Ecco cosa intendo con l’essere straniero; un sistema, per perdere l’antiquato concetto dell’evidente di per sé… ». Chi ha letto queste riflessioni di Wim Wenders (“L’idea di partenza”, 1983) sull’idea di straniero e sul concetto di identità, capisce subito che la scelta del regista tedesco di tornare in Calabria, per fare nuove riprese a Riace, è coerente con il suo modo di intendere e fare cinema, con la sua poetica e con la sua concezione dei luoghi. I personaggi di Wenders vivono in una mobilità infinita, sono aperti a tutte le avventure e insieme restano fondamentalmente uguali a se stessi.

Anche per questa filosofia quando ho scritto dei nostri luoghi aperti, incompiuti e di passaggio, di frontiera, popolati da persone in fuga, inquiete, mobili, li ho immaginati anche come luoghi wendersiani. Non può sorprendermi il suo bisogno di tornare, di filmare ancora e meglio «passare attraverso le cose»: anzi, vedendolo al lavoro avevo in un certo senso “previsto” e “auspicato” questo suo ritorno.

Wenders è venuto in Calabria (in agosto e settembre scorsi) per girare in 3D una storia di accoglienza, che vede come protagonista l’ultimo bambino di un paese quasi vuoto. Ha filmato a Scilla e a Badolato, come prevedeva la sceneggiatura iniziale (scritta da Melloni), e intanto scopre una Calabria che solo in parte aveva immaginato.  Ha incontrato i bambini arrivati a Riace, ha parlato a lungo con Mimmo Lucano, il sindaco di questa comunità, ha misurato e conosciuto l’accoglienza delle popolazioni, ha guardato, interrogato, dialogato.

Ho visto il regista all’opera sui luoghi delle riprese (soprattutto a Badolato), l’ho seguito nella pause, ho chiacchierato con lui di luoghi, spopolamento e di immigrazione, insieme ad altri amici fotografi, giornalisti, scrittori che con discrezione hanno “osservato” Wenders (Francesco Mollo, Isabella Montwright, Patrizia Tallarico, Valentina Loiero, Francesca Viscone). Siamo stati colpiti dalla sua grande capacità di ascolto, dalla sua voglia di “capire” e mettersi in gioco, dalla tensione ad andare oltre le apparenze, di “attraversare le cose” in profondità. Wenders ha costruito il suo racconto, “al di là” della sceneggiatura, quotidianamente, di notte, tenendo conto della “realtà”, delle persone incontrate, delle suggestioni e delle emozioni che gli arrivavano dai luoghi. Ha maturato subito la decisione di tenere aperto il discorso, di non chiudere. Dopo aver incontrato a Scilla lo sguardo del coprotagonista Ramadullah, un piccolo rifugiato politico afgani di 8 anni, che gli ha detto: «Adesso devi venire a Riace». E’ bastato. A Riace Wenders ha trovato un suo “senso dei luoghi” (coincidenza che ci ha fatto sorridere: anche lui ha scritto un libro dal titolo “Il senso dei luoghi”), l’anima della sua narrazione, ed ha immaginato, come scrive il produttore Baldanza, l’ epilogo della sua favola, l’apice del suo metafilm.

Immagino che la Calabria, «grande incompiuta», debba avere toccato il regista che ha raccontato sempre storie incompiute e vicende aperte. La terra dei viaggi e delle fughe gli si è rivelata congeniale, ha incontrato la sua filosofia e il suo immaginario. Aveva scritto ancora ne “L’idea di partenza”: «… passare una frontiera o trovarmi in un posto dove non ero mai stato prima, mi dà (come a chiunque altro) una più intensa sensazione di ciò che sto facendo. Perché lo sto facendo per la prima volta. In altri termini, la percezione dipende da quanto uno si concede di percepire: dipende dal proprio stato d’animo, dalla propria ricettività. E credo che i sensi di chiunque siano più all’erta durante un viaggio o in una nuova situazione. Attraversare le frontiere ti dà come la sensazione di perdere i preconcetti».

In un luogo di “frontiera” e di passaggi, di partenze e di ritorni, di soste e di arrivi, di continui attraversamenti e spiazziamenti, Wenders sembra quasi destinato ad aprire un nuovo dialogo con se stesso, a interrogare e a interrogarsi. La terra dell’utopia (si pensi a Gioacchino da Fiore, a Tommaso Campanella, a Corrado Alvaro, ma anche ai sogni di pellegrini, viandanti, emigranti, immigrati) è riuscita a catturare un grande conoscitore e costruttore di utopie: «La vera utopia non è la caduta del muro, ma quello che è stato realizzato in Calabria. Riace in testa» (intervento al Municipio di Berlino, l’11 novembre 2009, dove si svolge il X summit dei premi nobel per la pace).

Wenders ha parlato, a Berlino, della nostra regione come di una terra dove si stanno sperimentando vere e sofferte forme di accoglienza e si verificano (pure tra tante difficoltà) crolli di muro. «Ho visto un paese capace di risolvere, attraverso l’accoglienza, non tanto il problema dei rifugiati, ma il proprio problema: quello di continuare a esistere, di non morire a causa dello spopolamento e dell’immigrazione. E ho voluto raccontare questa storia in un film che ha come attori i veri protagonisti». Per chi si occupa (non solo come studioso, ma come cittadino e come abitante di questi luoghi) di spopolamento e abbandono e si interroga di nuove possibili forme di ripopolamento le parole di Wenders ( in presenza di un attento e commosso Agazio Loiero, Presidente della Giunta Regionale che firma la coproduzione del film e segue la promozione già in fase di premontaggio) giungono come una musica, un segno, un invito, un auspicio.

Ancora grazie a Wenders, non solo per le immagini che ci consegnerà della Calabria (sono molto belle, indicative, delicate quelle che ho già visto e di cui parlerò a film “compiuto”), ma perché fa capire che le immagini che sappiamo costruire di noi sono decisive per orientare, influenzare, arricchire lo sguardo e le immagini di chi viene da fuori. Quella di Wenders è una scelta, onesta e incoraggiante, linguistica, intellettuale e di adesione alla realtà calabrese. Una lezione di cinema, di stile, di “ri-guardo”, di amicizia. Aveva scritto sempre nel 1983: «La vita stessa è ricerca di un punto fermo. E quando si crede di averlo raggiunto non si è e non si sa ancora nulla. E bisogna ricominciare a muoversi». Al momento del suo arrivo in Calabria in un  mio articolo (su questo giornale) gli avevo dato il “benvenuto” nella Paris Texas - Badolato, adesso, intendo esprimere la mia felicità per la sua scelta di tornare a Riace: un bel dono che fa alle bellezze della regione, al cinema, agli immigrati, ai bambini, ai paesi in abbandono e che non si rassegnano a chiudere. Un dono anche a se stesso. A tutti noi che dobbiamo capire che «bisogna ricominciare a muoversi».