Tratto da "LA VOCE DELL'EINAUDI"

CULTURA POPOLARE

Lu zzappaturi

di Antonio Galloro

L’antico canto popolare, che qui proponiamo in lingua vernacolare sannicolese, ci è stato gentilmente trasmesso a voce da Elisabetta Bellissimo, nata a San Nicola da Crissa il 28-09-1921 ed ancora vivente -«nubile per sua libera scelta», secondo una felice espressione coniata per lei dal dr. Ciccio Merincola-, meglio conosciuta in paese con il matronimico "Lisa de Cecilia".

E’, costei, con l’avanzare del tempo, che seppellisce nell’oblío ogni umano ricordo, e con la scomparsa delle generazioni più attempate, che degli eventi narrati sono state protagoniste o testimoni dirette, una delle ultime preziose memorie storiche e custodi di quelle antiche tradizioni popolari locali, che hanno caratterizzato la vita dei Sannicolesi, la cui attività economica è stata sempre prevalentemente agricola.

Questo breve canto di tradizione orale è di contenuto particolarmente agreste, patrimonio culturale, questo, che "Lisa de Cecilia" ha acquisito nel corso della sua lunga vita, trascorsa nel faticoso lavoro dei campi.

Esso mette in particolare evidenza, all’interno delle tristi condizioni di vita che riguardavano il mondo contadino, la dura e dolorosa esistenza, che era costretto a condurre lo zappatore.

Costui, infatti, nonostante si ammazzasse di fatica (e che razza di fatica era costretto a svolgere!) tutti i santi giorni, senza sosta, dall’alba al tramonto, era pur sempre condannato a vivere nella più nera miseria, per l’assai magro guadagno che riusciva a trarre dal suo lavoro, sia che lo eseguisse per conto proprio che altrui.

Ed, alla fine di una giornata interamente trascorsa a lavorare la terra, aveva le ossa così rotte dalla stanchezza da non avere, al tramonto, quando finiva di lavorare per la mancanza della luce solare, nemmeno la forza fisica per ritirasi a casa, se non camminando lentamente, piano piano («trappa-trappa», v. 3: per il significato espresso da questo antico avverbio modale calabrese, si veda G. Rohlfs, Nuovo dizionario dialettale della Calabria, Ravenna, 1996 [I ediz. 1975], p. 725, sub voce).

Quanto contrasta il penoso rientro a casa del nostro lavoratore della terra con quello, tutto allegro e spensierato dello zappatore, di cui ci parla Leopardi nel suo idillio Il sabato del villaggio, che, sia pure in circostanze diverse e per motivi legati all’imminente festività del sabato, «riede alla sua parca mensa,/ fischiando» (w. 28-29)!

L’esatta misura di quanto realmente il contadino fosse fisicamente spossato, alla fine dello sfiancante lavoro di zappatura giornaliero, ci viene fornita dal suo singolare comportamento domestico.

Egli, infatti, una volta rincasato, si sentiva così sfinito da desiderare soltanto andare subito a dormire per riposarsi e, dopo che si era messo a letto, gli capitava spesso di non essere neppure in grado di ricambiare le effusioni d’amore rivoltegli, con calorosa manifestazione d’affetto, dalla moglie, certamente meno stanca di lui.

La stoppa, indicata come termine di confronto, per significare la condizione di estrema stanchezza dello zappatore («su’ fattu stuppa», v. 6), fa certamente riferimento ad antiche espressioni figurate della lingua italiana, del tipo "sentirsi -o "avere"- le gambe di stoppa", nel senso di sentirsele così deboli e fiacche da non avere nemmeno la forza di reggersi in piedi o di stare in posizione eretta.

Ci preme sottolineare come in nessuno dei dizionari dialettali della nostra regione e neppure in alcuna delle molte opere riguardanti gli scavi linguistici o gli studi e le ricerche compiuti sui vari dialetti calabresi, dall’antichità ai nostri giorni, da G. Rohlfs, G. B. Marzano, L. Accattatis, F. Mosino ed altri studiosi locali, da noi pazientemente setacciati, sia stato possibile rinvenire la locuzione vernacolare «sentirsi stuppa» o l’altra, «essere fattu stuppa», riportata nel canto esaminato, per spiegare la quale, dunque, abbiamo dovuto, necessariamente, fare ricorso al lessico letterario.

 

Lu zzappaturi

Poveru zzappaturi, zappa zappa,

dinari alla sua pezza mai nde ngruppa

la sira si ricogghie trappa trappa

si caccia li cciappette e va e si curca.

E la mugghiere nci dice:-«Abbrazza, abbrazza!»

«Cammu mabbrazzu, ca su’ fattu stuppa!»