Dal Corriere della Sera del 29 maggio 2010
L' IDENTIFICAZIONE DEL POPOLO CON IL NUOVO STATO DURÒ POCO: PRESTO SI TORNÒ AI VECCHI RAPPORTI FEUDALI
Il Risorgimento meridionale
e tutti quelli che lo tradirono
di Vito Teti
Piemontesi, «briganti» e gruppi dirigenti corrotti La «razza
maledetta» L' antropologia criminale di fine ' 800 individuò
nel comportamento di martiri ed emigranti le cause dell'
arretratezza nelle regioni del Sud
I l contributo della Calabria al Risorgimento italiano, nei libri di storia, è quasi esclusivamente legato alla spedizione di Attilio ed Emilio Bandiera. Dietro questo tentativo d' insurrezione, sconsigliato da Mazzini, agiva probabilmente anche la mitologia di una popolazione sempre pronta alla ribellione. I drammatici fatti del 1799, l' aspra guerra «civile» tra giacobini e sanfedisti, il decennio francese, che aboliva la feudalità, il succedersi di «rivoluzione» e «restaurazione», danno origine a ripetuti cambiamenti di fronte, vendette, violenze, annessione delle proprietà dei perdenti. Si alimenta un clima antico di tensione che sarebbe durato per tutto il secolo XIX. La Calabria, che a inizio Ottocento appariva allo sguardo europeo «Africa», «terra selvaggia e primitiva» - ma era lo sguardo degli invasori - in realtà aveva avviato da tempo profondi processi di trasformazione. Giovani ufficiali, medici, avvocati, uomini di Chiesa, appartenenti a quella borghesia in ascesa sconfitta dai Borboni, entrano in contatto con le idee mazziniane e con quanti parlano di un' Italia unita, e diventano protagonisti di moti (1829, 1837, 1844) che anticipano quelli che si sarebbero verificati nel resto d' Italia soltanto più tardi. Nella seconda metà dell' Ottocento, l' epicentro dei moti calabresi si sviluppa tra Roccella e Reggio, con particolare intensità nel distretto di Gerace (39 comuni). Nel 1847 molti paesi dell' attuale Locride vivono in un clima di tensione, di attesa. Edward Lear è un eccezionale testimone dell' atmosfera che si respira nel Reggino e presso tante famiglie di notabili di cui è ospite. Col suo compagno di viaggio Proby, il 5 settembre, a Reggio, sale su un vapore mentre in città si sentono gli spari. Michele Bello, nato ad Ardore nel 1822, ha ricevuto l' incarico di organizzare a Gerace l'insurrezione in sostegno di quella in preparazione a Reggio. Era famoso per avere aiutato i poveri durante la carestia del 1846. Il 2 settembre, con la richiesta di una Costituzione liberale, viene nominata una giunta provvisoria, presieduta dal canonico Paolo Pellicano e formata da ecclesiastici, baroni, borghesi. Il 3 settembre a Bianco, S. Agata, Caraffa, Siderno, Roccella, Gioiosa, Brancaleone, i rivoltosi annunciano che la Costituzione era stata proclamata a Napoli, Roma e Reggio, armati e pieni di entusiasmo (come scrive Umberto Sorace Maresca) lanciano in aria i cappelli al grido di «Viva la Costituzione», «Viva Pio IX», «Viva l' Italia». Bandiere, coccarde, nastri tricolori vengono esibiti ovunque. Nonostante gli inviti a unirsi a loro, la partecipazione è esigua tra contadini, braccianti, piccoli proprietari terrieri. Un certo seguito trova Rocco Verduci di Caraffa del Bianco (nato nel 1824). Il nonno, di cui portava il nome, era stato uno dei fondatori della Repubblica Partenopea, il padre, Antonio, nel 1820 risulta affiliato alla Carboneria. La fine improvvisa della sommossa è legata a un vapore, approdato per fare rifornimento e scambiato per una nave da guerra dei governativi. Giungono rapide le milizie centrali, comandate da Ferdinando Nunziante, e spengono i fuochi insurrezionali. A Reggio, tra il 7 e il 14, la Commissione militare aveva condannato a morte quattro rivoltosi. A Gerace, il 1° 0ttobre, destino analogo per i giovani capi della sommossa del distretto, Michele Bello, Rocco Verduci, Gaetano Ruffo (nato ad Ardore nel 1822), Domenico Salvadori (nato a Bianco nel 1822), Pietro Mazzoni (nato a Roccella nel 1819). Tutti formatisi a Napoli, dove studiavano giurisprudenza, saranno fucilati il giorno successivo e i loro corpi, in segno di disprezzo, gettati nella «lupa», la fossa comune. Se i Borboni e i ceti «conservatori» avrebbero considerato dei criminali questi giovani e se la storiografia li avrebbe cancellati, per i democratici e i sognatori dell' Italia unita sarebbero invece diventati i «Cinque martiri» di Gerace. Il «sacrificio» di questi e altri martiri sarebbe diventato il mito fondante di un' identità regionale, che si sentiva parte di una nazione. La fierezza d' animo, la temerarietà con cui essi affrontano la morte aggiornavano il mito del calabrese indomito pronto a morire per la libertà, e diventano modello di riferimento ideale delle élite locali. Fonti scritte e orali riportano la risposta di Rocco Verduci, durante il processo sommario, al generale Nunziante che gli prometteva la salvezza in cambio dei nomi dei rivoltosi: «Che domande incivili! E chi mai potrebbe riscattare la vita con il prezzo di tanta vergogna! Io credo che voi, Generale, da soldato d' onore non avreste la forza di consigliarmelo». Lapidi, monumenti, vie che portano il loro nome, «leggende» che li riguardano, attestano l' identificazione, spesso tardiva, delle popolazioni con questi nuovi santi laici. I tanti calabresi che parteciperanno alla spedizione dei Mille sposeranno la causa dell' Italia unita, avranno sempre presente il sacrificio di questi eroi fondatori. Il giovane Stato non avrebbe mai riconosciuto questi martiri, che, di fatto, non trovano posto nell' album risorgimentale dei Pietro Micca, Ciro Menotti, Enrico Toti. L' oblio è la conseguenza del «tradimento» del Risorgimento meridionale. Ben presto quanti avrebbero posto il problema della terra e di nuovi rapporti sociali, sarebbero stati trattati, combattuti, uccisi come briganti. Con la repressione del «brigantaggio» (una vera e propria guerra) vengono distrutti paesaggi, economie, culture, mestieri, ma anche quel breve senso di fiducia che quei borghesi illuminati avevano tentato di alimentare nei ceti popolari. Il disboscamento insensato, avviato nella Locride, prepara le frane e lo svuotamento dei paesi a seguito delle ricorrenti e disastrose piogge. Malaria e terremoti avrebbero dato il colpo di grazia a paesi che stavano cercando un loro ingresso nella «modernità». La discesa lungo le coste, la fine delle antiche economie, la fuga generalizzata, contribuiranno alla nascita di economie assistite e criminali, alla creazione di dipendenze e soggezioni. In questo quadro anche la ' ndrangheta, vera e propria «catastrofe» che prospera assieme alle altre - naturali e storiche - appare un esito perverso di un processo unitario che aveva distrutto la soggettività, la fantasia, il senso della fatica delle popolazioni e che non aveva saputo accogliere le voci di quanti avevano visto nella nascita del nuovo Stato l' abbandono di rapporti feudali. La sfiducia nel governo verrà col tempo capitalizzata da gruppi sociali in cerca di espansione, che scelgono vie criminali, con la complicità di ceti politici sempre subalterni ai gruppi dirigenti «nazionali». Cresce nei decenni la lontananza dello Stato, visto come oppressore, dispensatore di tasse, responsabile della leva e dell' emigrazione. Le lotte contadine per la terra e le occupazioni dei latifondi del primo e del secondo dopoguerra verranno represse con la forza, nonostante la presenza dei partiti della sinistra. Richieste, pratiche pacifiche che affermavano soggettività, desiderio di restare, voglia di coltivare e trasformare le campagne, sono liquidate come episodi di ribellismo e atti criminali. L'emigrazione di massa è una scelta obbligata. L' antropologia criminale, a fine Ottocento, avrebbe individuato anche nei comportamenti di martiri, briganti, emigranti ragioni per spiegare l' arretratezza delle regioni meridionali e per teorizzarne l' inferiorità delle popolazioni. Una povertà e una perifericità, che erano esito di recenti processi di colonizzazione, diventavano l' alibi dei gruppi dirigenti nazionali. La teoria della «razza maledetta» anticipava e costruiva quel sentimento antimeridionale che sarebbe esploso nel tempo fino a trovare una versione aggiornata in alcune frange del fenomeno leghista. Per uno dei paradossi storici, oggi, sono gli eredi di quei martiri, dei contadini, degli emigrati, cacciati, uccisi, espropriati, a sostenere e a difendere le ragioni di un' Italia unita, mentre gli eredi di quanti hanno costruito le loro fortune sul sangue dei meridionali sognano la divisione. Forse è da qui che dobbiamo ripartire, anche per non autoassolverci e per non dimenticare i tanti limiti e responsabilità dei gruppi dirigenti meridionali.