Dal Quotidiano dell’11 aprile 2010
“AFFRUNTATA”
di VITO TETI
LA “sospensione” e il rinvio alla domenica in Albis dell'Affruntata di S.
Onofrio (decisi dalle autorità religiose e dai responsabili della Confraternita
del Rosario) per impedire che uno dei più antichi e toccanti riti della regione
fosse palesemente gestito e controllato da appartenenti alla criminalità
organizzata, costituiscono (soprattutto a seguito delle avvertenze al priore
della confraternita) fatti inquietanti che debbono spingere a riflessioni non
banali e non scontate. Fatti che non hanno bisogno di luoghi comuni, di commenti
retorici e di ipocriti stupori. Non si capiscono, infatti, la sorpresa e
l'indignazione, che colgono sulla via di Damasco tanti nostri rappresentanti
delle istituzioni e della politica, dal momento che da almeno un decennio
coraggiosi magistrati (ricordo in particolare Nicola Gratteri) vanno denunciando
che le feste in molti paesi diventano anche lo spazio della rappresentazione
della prepotenza e del predominio della ndrangheta e dal momento che da anni
preti e vescovi sono impegnati, in solitudine e con amarezza, a cercare di
“allontanare” dai riti religiosi quanti se ne servono per “ratificare” e
“proclamare”il controllo del territorio. I riti e le feste sono stati anche in
passato spazio di conflitti, di contrasti, ma ormai sono spesso diventati
“luoghi”di ricerca del “consenso”e di affermazione del “predominio” da parte dei
“poteri malavitosi”. L'espressione è di Pino Mandarano, presidente
dell'associazione Santonofresi e Calabresi nel Mondo, che in un intervento
pubblico manifesta tutto il dolore della “gente di buona volontà”. Eventi come
questi mettono di nuovo, e in negativo, la nostra regione al centro
dell'attenzione, nazionale ed internazionale, “creano una pessima immagine che
nasconde quella parte più vera e più genuina nella quale ci riconosciamo” (è
ancora Mandarano a scrivere). Bisognerebbe prevedere per la 'ndrangheta anche il
reato di “devastazione dell'immagine”; oltre che di quella del territorio, delle
risorse e delle coscienze e, pertanto, non saranno mai sufficienti gli attestati
di solidarietà che arrivano da tante parti, da giornalisti, amministratori,
donne e uomini politici. Di fronte a questi fatti bisogna cercare convergenze e
unità, lontano da ogni divisione sterile e da piccoli interessi particolari. Ma
perché la solidarietà sia efficace, ottenga risultati concreti, crei
condivisione e anche “ribellione”e“reazione”alla catastrofe ndrangheta, occorre
che sia autentica e affermata con coerenza, nel rispetto dei ruoli, delle
competenze, delle regole, delle diverse istituzioni. Abbiamo visto di recente
che non basta urlare o esibire striscioni con slogan altisonanti per fare
davvero “antimafia” e per affermare la “cultura della legalità”. Alla fine
contano i fatti (quelli moralmente orientati) e i comportamenti, non le
retoriche che spesso nascondono interessi a volte dubbi. Senza alcun intento
polemico, ma come invito alla riflessione, sento il dovere di dire che certi
inviti del mondo politico a partecipare all'Affruntata mi sono apparsi sopra le
righe, fuori luogo, anche segno di una grande debolezza della politica. Non
metto in discussione la solidarietà (ben venga specie perché pubblica) espressa
sui giornali da alcuni parlamentari e da molti amministratori dei diversi
schieramenti (colgo anzi l'occasione per manifestare la mia solidarietà ad
Angela Napoli, per le intimidazioni seguite alle sue denunce mirate e
coraggiose), certi toni, certi inviti rischiano di creare “disagio” e
confusione. Non sono in discussione le buone intenzioni e le sempre apprezzabili
manifestazioni di solidarietà e, ovviamente, non mi riferisco ai parlamentari
coinvolti in questa vicenda, ma ne approfitto per una riflessione di carattere
generale. Quando qualche uomo politico invita “i calabresi perbene” e
“onesti”(dove i “perbene”e gli “onesti”siamo sempre noi e i “permale”e
i“disonesti”sono sempre gli altri) a partecipare all'Affruntata di S. Onofrio,
si ha come la sensazione che assuma un ruolo che non gli compete. È opportuno
riflettere se certa politica mediatizzata non sia ormai onnipresente,
“invadendo” di sé anche le sfere private e del simbolico. Al credente che, pur
all'interno di un rito collettivo, manifesta la propria spiritualità personale
va garantita ogni forma di rispetto e di protezione. All'Affruntata, ai riti,
alla messa, alle cerimonie, alla fede chiamano (dovrebbero chiamare) il Papa, i
vescovi e i parroci e non chi si occupa di gestione della cosa pubblica. Chi ha
responsabilità pubbliche deve dirci cosa fa per il bene pubblico, come
amministra, come applica le regole e persegue la legalità nell'ente da lui
amministrato, non può prendere (è il caso di dirlo) il pulpito degli altri. Non
vorrei che l'Affruntata, rito di grande intensità e bellezza, narrazione del
trionfo della vita sulla morte, mito della Passione e della Resurrezione,
venisse confusa e scambiata per una sorta di manifestazione antindrangheta, come
una comoda passeggiata per autoassolverci e per dirci quanto siamo bravi. Come
ci hanno insegnato col loro esempio Madre Teresa di Calcutta, ma anche Gandhi, i
riti e le processioni si fanno “per” e non “contro” e, detto per inciso, penso
che, tolta la gestione dei riti alla criminalità (ma in realtà bisogna togliere
la gestione economica e sociale, non solo quella simbolica), un cattolico non
possa non porsi
il problema di come accogliere, perdonare, fare redimere anche i peccatori, i
malfattori. La legalità e la moralità da affermare in pubblico e in privato, non
possono cancellare la pratica del perdono e della non violenza che hanno fatto
la forza del Cristianesimo. Osservo,vivo, descrivo da decenni questi riti - da
laico, da studioso, da scrittore -; l'ho fatto sempre con discrezione, con
partecipazione, con il desiderio di capire. Con le istituzioni universitarie a
cui sono legato abbiamo realizzato pubblicazioni, ma anche seminari e convegni,
non ultimo, nel settembre 2008, quello tenutosi tra Vallelonga, Torre di
Ruggiero e Vibo Valentia, in cui proponevamo
comparatici) è davvero poi così lontana da quella “cultura”che la ndrangheta usa
in maniera violenta e devastante? L'invasione di campo altrui, il voler
“predicare” dove altri dovrebbero dire parole di verità, non è forse la rinuncia
della politica a fare politica, non è forse una dichiarazione di impotenza e
magari un sorta di senso di colpa per non riuscire ad essere incisivi, efficaci,
là dove bisognerebbe esserlo, nei luoghi in cui si opera e dove si è stati
“mandati”e dove si è scelto di andare, la dove siamo responsabili e dove
dobbiamo rendere conto? La migliore solidarietà al Vescovo e alla Chiesa che si
“ribella” passa non attraverso parole, ma con esempi di buona politica e anche
di “buona cittadinanza”. Attraverso il rispetto delle regole e dei ruoli,che poi
è il migliore modo per aiutare quella comunità che, comunque, passata la festa,
resterà sola e dovrà scegliere autonomamente la via da percorrere. Sarebbe ora,
certo, che i cittadini si rifiutassero di prendere parte ai riti controllati
dalla 'ndrangheta, ma sarebbe anche ora che la politica sostenesse i magistrati
in prima linea, approvasse quelle leggi che vengono invocate da quanti
combattono con pochi mezzi e in solitudine, il crimine. Pino Mandarano conclude
il già citato intervento con un efficace richiamo alla speranza: «la speranza
che nella comunità santonofrese rappresenta la voglia e la forza di reagire
contro la prepotenza, l'arroganza e la violenza dei pochi che non si rendono
conto del danno, irreparabile, che stanno arrecando al nostro piccolo paese e
alla nostra comunità». Non facciamo cadere nel vuoto questo invito, non lasciamo
sola la comunità di S. Onofrio, accorriamo numerosi, ma facciamolo in silenzio,
con discrezione,con garbo,con rispetto, con riguardo. L'unico annuncio che
dobbiamo “auspicare”e “praticare”(credenti e laici) è quello della Rinascita.
Seguiamo con “devozione” le donne, i giovani, gli uomini, i congregati che al
momento dell'incontro,come tutti gli anni,si commuoveranno, piangeranno,
pregheranno, trarranno (soprattutto quest'anno) benevoli auspici per una
“mortificazione” imposta all'intera comunità.