Da Il Quotidiano della Domenica del 17 gennaio 2010
Un uomo, la follia e il suo genio
In occasione del centenario della nascita di Lorenzo Calogero
un numero monotematico per far conoscere il poeta di Melicuccà
NUVOLE CHE SPESSEGGIANO
L’indisponibilità dei suoi quaderni ha alimentato l’alibi a non conoscerlo
di VITO TETI
Novembre 1954. Lorenzo Calogero raggiunge Milano per chiedere notizie all’Einaudi su due manoscritti, inviati l’11 ottobre 1954. Qui, in Piazza Duomo, gli viene fatta la famosa fotografia che consegna definitivamente il suo “corpo”, la sua “immagine corporea”, ai contemporanei e ai posteri. Un’immagine, che come tutte le immagini emblematiche, corre il rischio di venire tipizzata e trasformata in stereotipo. Cappello in testa, con il capo piegato da un lato, cappotto, cartella in mano come uno scolaretto che attende o ha superato un esame, piccioni ai piedi, quasi volessero indicargli il volo. Giuseppe Tedeschi così lo ricorda: «…piccolo, magro, storto, tra Leopardi e Tristan Corbière. Faccia semiglabra e lucida, occhiali tondi e antichi, occhi vividi e spenti allo stesso tempo. L’ho osservato attentamente, seduto sulla punta di una poltrona, bloccato, le gambe intrecciate nervosamente e contorte, la vocenasale, allungata da un leggero accento calabrese. Parlava di tante pene, della sua solitudine disperata, del fallimento della sua vita, come medico e come poeta, della sua insonnia perenne e inguaribile». Tedeschi ha scritto delle pagine molto belle e sentite su Calogero, ma questa descrizione è, forse, quella che ha colpito tanti critici e lettori di Calogero perché riflette bene la “riduzione” del poeta a una sorta di “poeta maledetto”, di “genio folle”, di Rimbaud calabrese. Anche queste istantanee, unitamente alla celebre ultima frase scritta da Calogero («Vi prego di non essere sotterrato vivo. L.C.»), ripetuta e ricordata quasi ritualmente da quanti si sono occupati di lui, hanno contribuito ad alimentare una mitologia ambivalente del poeta, ed una sorta di nobilitazione («il poeta più grande del Novecento italiano») o anche di «maledizioni» leggendarie, che di fatto (assieme ad altre ragioni ricordate in questo inserto e di cui ci si occuperà nel Convegno) hanno impedito o tardato la conoscenza del poeta, o peggio lo hanno spesso elevato in un empireo irraggiungibile o, viceversa, rinchiuso in una sorta di marginalità e di perifericità, quando non di “localismo” angusto. Calogero ha attraversato la poesia e la cultura del Novecento quasi come un’ombra, come un spettro, come se il suo “corpo” bloccato, nervoso, “trasparente” (bisognerebbe scrivere molto sulle metafore calogeriane del corpo) fosse una metafora della sua vicenda, della sua fortuna e “sfortuna”poetica. La critica letteraria, ma anche l’intellettualità nazionale e regionale, salvo importanti e significative eccezioni, ha sempre tardato, rinviato, l’incontro con il “vero” Calogero, con i tanti Calogero, con la complessità e la ricchezza, l’originalità e la novità della sua poesia. L’indisponibilità dei suoi quaderni, delle sue carte, dei suoi taccuini, delle sue lettere - dalla sua morte ad oggi -, ha alimentato sia una mitologia positiva del poeta incompreso, grande e sconosciuto, sia l’alibi a non conoscerlo. La presenza di Calogero, paradossalmente, è stata rafforzata dalla sua assenza. I quaderni di Calogero, i suoi inediti, sono stati l’ossessione, l’apprensione, il sogno di critici, studiosi, intellettuali, giovani.
Ricordo l’emozione provata, meno di un anno fa, il giorno in cui,dopo un’attesa durata tanto tempo, mi ritrovai a Palmi davanti ai quaderni di Calogero. In compagnia del personale della Biblioteca di Palmi, di Giacinto Gaetano per l’assessorato alla Pubblica Istruzione, di Nunzio Lacquaniti, assessore alla cultura di Palmi, di Sandro Biasi, dirigente del Dipartimento di Filologia, di Santino Salerno, studioso e critico letterario, guardavo con commozione, ma anche con un senso di appagamento e di successo, i quaderni neri o colorati del trentennio e degli anni cinquanta, quasi ottocento quattro, in cui Calogero aveva riversato la sua esistenza. Man mano che contavamo i quaderni, e costatavamo che si erano ben conservati (anche se alcuni li abbiamo salvati appena in tempo), aprivo qua e là quelle pagine a volte dense, con la grafia pulita e nitida, leggibile e comprensibile, altre volte più sofferte, nervose e da decifrare, e avevo la sensazione che un “tesoro” fosse stato dissepolto. Mi accorsi subito dell’ordine nel “disordine” e della precisione quasi maniacale del poeta, del suo essere vissuto per la poesia. Un quotidiano poetico “diario”, tenuto per oltre un trentennio, non era stato lasciato a caso. Calogero aveva un suo “progetto poetico” (anche editoriale), aveva in mente il poema di una vita, ricopiava e trascriveva, interveniva e “correggeva”. Nei giorni successivi ebbi la sensazione visiva di come quei versi, quelle parole, quelle pagine dense e vuote, quegli appunti, e persino quelle “prose”, fossero la vita stessa del poeta: un’estensione, una dilatazione, una modificazione del suo corpo, dei suoi sogni, della sua “malattia”. Non una vita per la poesia, ma una vita diventata poesia e una poesia che diventava l’unica vita “possibile”. Il corpo e la “malattia” trovavano una continuità nella poesia. O la poesia diventava “malattia” e “corpo - reità”? Adesso quei quaderni sono custoditi presso l’Unical, ora è possibile avviare un lavoro complesso, lungo, paziente filologico, critico, che restituisca la complessità e la ricchezza della poesia e del pensiero calogeriani. Bisognerà pensare alla riedizione delle sue opere, ma anche all’edizione critica di tanti inediti. C’è da augurarsi che la Regione, coerentemente con il grande impegno, non solo economico, e con l’attenzione profusi nell’ultimo anno, dopo un ventennale silenzio, sostenga questa opera di consegna di Calogero alla poesia del Novecento europeo e alla grande tradizione culturale della regione. In questa circostanza, istituzioni culturali e istituzioni pubbliche hanno aperto una bella pagina per la cultura calabrese e nazionale. Bisogna continuare in questa direzione.
Il “dio incarnato” nel paesaggio e nella natura
Ho approfondito l’opera di Calogero soltanto negli ultimi anni, a mano a mano che avvertivo come una missione, un impegno, un dovere l’importanza di restituire agli studiosi, alla comunità scientifica, ai calabresi, i quaderni con le opere edite e inedite di Calogero. Avevo letto molte sue poesie, ma, per ragioni che non racconterò in queste sede, la mia formazione intellettuale aveva seguito altre direzioni. A volte, penso che il tardivo incontro di Calogero possa essere stato un limite e una perdita, poi penso che nulla avviene a caso e che, forse, era adesso, che questo incontro doveva avvenire. Ora, forse, sono in grado di capire meglio che la poesia di Calogero presentata come “intima”,“privata”, frutto di ossessione interna e quasi del tutto separata dalla vita reale, non solo è agganciata alla realtà, ma arricchisce, conferisce un altro senso, assegna forse qualche conferma, alle mie intuizioni e ai miei studi sul paesaggio, sui paesi, sui luoghi. Corrado Alvaro, Strati, La Cava, Gambino, Seminara, Repaci, Costabile hanno contribuito in maniera diversa a fare conoscere, in forma letteraria, l’anima, la mentalità, le contraddizioni, le aspirazioni, l’antropologia delle popolazioni. Le loro opere, hanno un contesto ambientale e paesaggistico che concorre anche a delineare una sorta di antropologia dei luoghi. Il rapporto con i luoghi, quello che io chiamo “senso dei luoghi”, è “mediato” dai personaggi, dai protagonisti, dalle loro storie. Nella poesia di Calogero la “mediazione” è saltata, sfumata, attutita. Le “storie”non esistono se non come “storie interiori”, e sono i “luoghi”, i personaggi e i protagonisti a cui tende l’animo del poeta. L’io o il “tu” (reale o inventato) stabilisce un rapporto immediato, diretto, “naturale” con i luoghi. Ne viene fuori (queste affermazioni andranno spiegate e approfondite) una sorta di geoantropologia, di geografia, di fisica e di metafisica dei luoghi, del paesaggio, della natura. Una poesia quasi “geologica”,“naturale”capace di cogliere profondità, sfumature, colori, onde sonore del paesaggio.
Il “senso del luogo” può diventare materia di poesia soltanto per coloro che ad esso appartengono (o sentono di appartenere) e che ad esso sono legati da un rapporto quasi biologico, fisico, “istintivo”. La parola calogeriana, come quella di Pavese, scorge il senso del luogo nel «dio incarnato», nella natura dei suoi spazi. Le rocce, i boschi, le nuvole, i fiumi, l’aria, l’acqua sono i “luoghi naturali” e “sacri” in cui si è incarnato Dio. Non a caso critici come Caterina Verbaro e Sonia Rovito fanno riferimento al “panteismo calogeriano”, a una natura impregnata di divinità, una natura divina. I lessemi sopra ricordati, assieme a tanti altri (i fili, la filagrana, il lampo, lo spiraglio, la traccia, la trama, il volo, l’edera, la spiga) sono, come ricorda ancora una volta Caterina Verbaro, «segni che alludono alla linearità, alla sottigliezza, all’inconsistenza, al paesaggio». Un paesaggio poetico e mentale che si compone di fili e di evanescenze. Questi lessemi, queste “figure”, questi materiali, questi elementi - ricorrenti ed evanescenti - sono i segni e la “traduzione” di quella «immaginazione arabescante» del poeta, di cui ha parlato Leonardo Sinisgalli. È la «poetica dell’arabesco», una sorta di algebra, un’ottica, una fisiologia che sottrae il poeta, come scrive lo “scopritore” di Calogero, al rischio «di sembrare insensato, assurdo», al rischio di non dire nulla. Non è questa la sede, e nemmeno questo il compito che mi sono assegnato, per discutere del mondo fantastico di Calogero, dei suoi paesaggi onirici, del suo geometrismo evanescente, dell’iperrealtà della sua poesia, delle sue trame infinite, delle simbologie e delle metafore che costituiscono i suoi universi incantati. Sono interessato piuttosto ad aprire una labile pista per individuare un “radicamento” della sua parola poetica, ed indagare su come l’immaginazione arabescante sia fortemente legata a un paesaggio aperto, “inconcluso”, indefinito, come la natura e la geografia della sua terra. La geografia e la geometria fantastiche di Calogero, non possono essere separate dalla topografia, dal paesaggio e dai luoghi da lui abitati e conosciuti. Partendo da un’approfondita analisi della sua biografia e dei testi in prosa, bisognerebbe ripensare a come la geo-antropologia, la biografia dei luoghi, la loro biologia si siano innestate nell’infinita trama poetica calogeriana. La geografia fantastica e quella naturale si rinviano, si abbracciano, si confondono. Il paesaggio naturale è paesaggio dell’anima: Paesaggi dell’anima nudi ed assolati, con un nuovo vertice di pietra nella fitta boscaglia è la nostra umanità. (Q. 336, 1)
I materiali sono simboli e metafore che alludono a una nuova costruzione “abitativa”, a una nuova presenza, a una “città scavata” ideale ed utopica. Ipotesi che andranno verificate, approfondite, dimostrate e che necessitano di una paziente rilettura degli editi e degli inediti di Calogero. Per segnalare queste possibili corrispondenze tra geografia interiore e geografia dei luoghi, presento in queste pagine poesie e versi in cui tornano i seguenti lemmi: casa, paesaggio, nuvole, paese (ma potrei aggiungere anche altri elementi del paesaggio e termini come nostalgia, rovine, macerie, screzio, lontananza). Mi rendo conto di piegare così la poesia di Calogero alle mie riflessioni, alle mie corde di individuo e di studioso. Il vantaggio della scoperta tardiva di Calogero, in fondo, consiste nell’avere trovato un nuovo grande, alto, poeta e compagno di viaggio proprio nell’età in cui le scoperte e le sorprese, gli stupori e gli innamoramenti sono più difficili, più radi, più problematici.
Le nuvole vanno…
Sarei felice di essere ricordato come osservatore e inseguitore di nuvole. La mia è una malattia antica, un vizio inguaribile, un’arte lontana. Una pratica che ha a che fare con il luogo in cui sono nato, con la casa in cui sono vissuto, cresciuto, e in cui ancora abito. Dalle finestre e dal balcone dalla mia casa ho fissato, inseguito, fotografato, scomposto, mescolato le nuvole, i ricci, le nubi che viaggiano dall’Angitola al Mesima, dal golfo di Lamezia allo Stretto di Messina. Le ho viste dolci, delicate, arrabbiate, bionde, azzurre, nere, piene, dense, rotte, calme, inquiete, fugaci, fisse. Negli anni, almeno nell’ultimo trentennio, con Salvatore Piermarini, ho fotografato le nuvole dei luoghi e dei paesi di Calabria e le abbiamo raccontate nel libro Le navi che volano. Reportage di viaggio in Calabria 1973-2002 (con uno scritto di M. Fortunato, Monteleone 2002), poi quelle dell’Ontario e di New York, fotografate e presentate in molti volumi. Quando ho cominciato a fotografare, mi sono reso definitivamente conto di quanto le nuvole segnino i paesaggi, i luoghi, i paesi, il cielo, il mare della Calabria. Guardavo i provini ed i negativi, e così apparivano le nuvole che non avevo immaginato, che non avevo previsto e che erano nuvole di paesi sconosciuti. Sono passato, negli anni, dal paese che “mi pare” al paese che “dispare”. E le nuvole hanno accompagnato queste mie visioni, queste mie sensazioni. Le mie fughe e i miei ritorni. Amo molto l’America di Baudrillard che mi ha fatto capire meglio il senso delle nuvole americane e quelle delle nuvole europee, calabresi, mediterranee. Ne ho scritto in qualche mio racconto (uno si chiama proprio Nuvole) e in alcuni miei saggi e libri (un paragrafo “Nuvole” si trova nel mio Il senso dei luoghi, Donzelli 2004). Mi sono accorto ben presto che le nuvole hanno intrigato poeti, scrittori, artisti calabresi. Basti pensare alle opere di Alvaro, a quelle di Seminara o a quelle di Perri. La presenza delle nuvole non è sfuggita neanche a viaggiatori stranieri come Edward Lear e Norman Douglas, poiché i viaggi s’intrecciano spesso con l’apparire di nuvole, nubi, nebbie che lo scrittore descrive con varietà di toni e di colori, con la precisione e le sfumature di cui è capace soltanto chi è attento alla natura e ai mutamenti atmosferici dei luoghi che si abbandonano, si ritrovano o semplicemente si visitano. Le nuvole, come l’acqua, diventano così elementi della memoria e della nostalgia dei viaggiatori, degli emigrati e dei rimasti. Nubi, nuvoloni, nebbie precedono i grandi flagelli, annunciano e accompagnano distruzioni. Pensiamo alle descrizioni relative al terremoto del 1783 o a quelle dei tanti contadini che leggono in cielo le nuvole basse pronte, come un flagello, a minacciare e distruggere il loro raccolto. Si potrebbe scrivere una sorta di dizionario delle nuvole per capire meglio come esse si siano sposate con i luoghi, con le paure, le aspettative, le apprensioni, i desideri, i sogni, le visioni delle genti. È uscito di recente un bellissimo libro di Tonino Ceravolo, Storia delle nuvole (Rubbettino 2009), nel quale lo storico, attraverso un’attenta analisi, ricostruisce la percezione delle nuvole nel pensiero, nella filosofia e nella tradizione occidentale. Provo ad immaginare quale fascino esercitino le nuvole sugli autori calabresi poiché credo che il senso locale delle nuvole abbia a che fare con la posizione della regione, la geografia dei luoghi, la collocazione dei paesi, la loro morfologia, la struttura abitativa, il clima e le stagioni, le catastrofi naturali (alluvioni e terremoti). Dai “paesi presepi” verso le marine, dai mille balconi della regione, dalle marine verso l’orizzonte e verso l’interno, le nuvole si impongono all’attenzione, allo sguardo delle popolazioni, alimentano credenze e leggende, forniscono termini e colori. Sono una parte materiale e immateriale del paesaggio. Sbirciando nei quaderni di Calogero ho notato come, anche per lui, fossero figure ineludibili, elementi di un paesaggio naturale che recupera nella sua geografia fantastica, nei suoi sogni e nelle sue visioni, nelle sue trame e nei suoi arabeschi. Dai manoscritti sono andato alle opere edite e mi sono accorto che le nuvole appaiono nei versi e nei titoli delle poesie scritte nei diversi periodi. Le citazioni potrebbero essere infinite. Calogero appare come una sorta di entomologo, di selezionatore, di fotografo, di osservatore assiduo delle nuvole. Nulla gli sfugge: forma, colore, posizione. E le nuvole, inserite nel paesaggio, diventano metafore e simboli delle sue città fantastiche, dei suoi sogni, delle sue utopie. Nei suoi versi c’è un continuo andare e venire dal mondo esterno (non necessariamente reale) a quello interiore che ha la densità dell’ignoto e viceversa. Anche quando il reale diventa irriconoscibile, Calogero parte da un dato reale. Le poesie e i versi che riporto (senza troppe preoccupazioni filologiche e cronologiche impossibili in questa sede) in queste pagine, hanno lo scopo di presentare, individuando ed estrapolando un motivo, un lemma, un elemento, gli arabeschi creati da Calogero.