I mondiali visti da Vito Teti

 

La bellezza del calcio e la banalità del tifo

dal Quotidiano del 14 luglio 2010

Non vedevo l’ora che iniziassero i mondiali. Non ho visto l’ora che terminassero. Amo profondamente il calcio e capisco le sue valenze spettacolari e mediatiche, e tuttavia cominciavo ad avere una crisi di rigetto, a subire una pericolosa assuefazione,  constatando quanto sia labile la “linea d’ombra” che separa la bellezza del calcio dalla banalità del tifo, la magia del pallone dalla magia mediatica. Ho seguito, quasi tutte le partite, con attenzione e coinvolgimento: 64 partite e 32 giorni (escludendo preparativi ed attese) costituiscono un evento esaltante, unico, irripetibile, ma anche un periodo di “narcosi”, di “anestesia”. Mi venivano in mente narratori come Osvaldo Soriano e Sandro Onofri, maestri nel raccontare la dimensione sociale, popolare, ludica, “evasiva”, ma anche identitaria, epica ed eroica del pallone: la magia di farci tornare bambini e di farci sognare. Altre storie. Le interminabili chiacchiere televisive, le aperture dei telegiornali con le domande al polpo Paul e ai polpi Costanzo e Galeazzi (una prova generale per il modello Minzolini?), hanno attutito il piacere di guardare le partite, peraltro poco esaltanti. La metafisica delle vuvuzelas o le teorie meccaniche su Jubulani, il folklorismo magico-religioso alla Maradona: la globalizzazione del magismo arcaico e postmoderno e la rinuncia alla “razionalità”.

Si può “prevedere” il futuro? E il “tempo” potrà essere osservato con la contemporaneità di passato, presente e futuro? Forse, ma queste prospettive hanno a che fare con la scienza e non con la superstizione. Mi sono simpatici gli scaramantici spargitori di sale, quelli che toccano ferro e parti delicate, chi fa le corna o si affida ai propri piccoli rituali, ma ritengo questo “folklore” come elemento del gioco, del divertimento, dello stare assieme. E’ improbabile che la “mano di Dio” possa occuparsi di Maradona o di Suarez.

E poi sarebbe bello, davvero, conoscere il futuro? Vi immaginate se avessimo saputo, in anticipo, che Rubben si sarebbe fumato clamorosamente il gol della probabile vittoria e che Iniesta avrebbe segnato a pochissimi minuti dalla fine, quando ormai tutti attendavamo i rigori? Se il gioco è metafora dell’imprevedibilità della vita, se è legato al caso, alla fortuna, agli incidenti, agli accidenti, perché pretendiamo di prevederne gli esiti?

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Le vie e le indecisioni del tifo, quando non è gioco la propria nazionale o la propria squadra di Club, sono infinite. Mi sono seduto, pertanto, abbastanza disincantato, incerto se vedere la finale. Ho ammirato lo spettacolo, i balli e i canti, ho guardato con commozione Mandela e, poi, prima della partita Fabio Cannavaro che, con passo elegante e incerto, consegnava la coppa. Passa la gloria del mondo. Osannato Cannavaro nel 2006, adesso è considerato quasi volontario autore della sconfitta. Forse dovremmo adottare uno sguardo più pacato e giudicare a distanza. Forse più che alla disfatta di quest’anno, dovremmo pensare al miracolo dei mondiali precedenti. Credo che ricorderemo e valorizzeremo la vittoria del 2006 e tenderemo a dimenticare e a giustificare l’eliminazione di quest’anno. Attendevo il responso del campo, onore al merito, ma col passare dei minuti mi infastidiva il gioco duro e falloso dei tulipani. Non erano i tulipani della mia giovinezza. Loro non facevano toccare la palla, questi debbono spezzare il gioco, magari le gambe. L’arbitro non controlla la partita e compie errori clamorosi. Non è una bella finale. Le finali sono bruttissime. Sbaglia Robben e, forse, c’è l’intervento di Eupalla che non avrebbe tollerato la vittoria di una squadra così brutta.

La nazionale spagnola ha avuto capacità di coniugare programmazione, valorizzazione dei talenti giovani, scelta di un blocco e apertura al calcio internazionale. Sette giocatori in campo militano nel Barcellona, la squadra più vincente in questi anni,  che ha inventato Messi e investito sui bambini e i giovanissimi. L’Italia è lontana da questa impostazione. L’Inter non ha fornito un calciatore alla nazionale e il blocco di Lippi è stato quello di una squadra di infortunati e campioni al tramonto. Sneijder, dopo la partita contro l’Uraguay, ha detto che la sua gioia è immensa, indescrivibile, nemmeno paragonabile a quella provata in occasione di vittorie con i Club. Julio Cesar e Maicon hanno parlato di un dolore immenso, di una sorta di disgrazia personale, familiare e collettiva, di un qualcosa che non hanno mai vissuto con le loro squadre. I nostri miliardari e spendaccioni presidenti non sono stimolati dalle struggenti sensazioni ed emozioni dei “loro” campioni?  Non sentono il bisogno di imboccare vie diverse e non hanno l’ambizione di vedere vincere la nazionale italiana con calciatori formati nei loro Club?

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Partecipo alla “Fiesta” del bravo e pacato Del Bosque, di Iniesta e Casillas, dei miei amici spagnoli, citando Javier Màrias, il grande scrittore spagnolo, che domenica su “La Repubblica” scrive:

«Chi snobba il calcio e lo vede come una cosa di “orde” sembra non essersi soffermato molto a riflettere sull’allegria o sulla tristezza disinteressate che il calcio suscita in milioni di persone contemporaneamente. Che una squadra vinca o perda non ci cambierà la vita: chi sta male e chi è felice non vedrà la propria felicità essenziale intaccata da una sconfitta. Nessuno diventerà più ricco o più povero, nessuno diventerà disoccupato o smetterà di esserlo, ma non sono molte le occasioni nelle quali le persone saltano di gioia o chinano la testa come malinconia e dignità tutte allo stesso tempo. L’effetto della vittoria o della sconfitta non è duraturo, diciamo che svanisce dopo quarantotto ore, più o meno come l’effetto della visione di un grande film, o la lettura di uno stupefacente romanzo o l’ascolto di una musica sorprendente o la contemplazione di un quadro che turba. Nemmeno l’arte cambia qualcosa della nostra vita personale. …».

Il calcio appare come una “seconda vita” della gente, una vita quasi “parallela” a quella ordinaria. Il calcio, da questo punto di vista, assume una sorta di dimensione carnevalesca, “trasgressiva”, “oppositiva”, gioiosa. Michail Bachtin vedeva sempre trasferirsi “altrove”, rinnovandosi, lo “spirito carnevalesco”. Il Carnevale tradizionale (che non ha nulla a che fare con le “carnevalate” della nostra società e della nostra politica) ci ricorda che le “due vite” non erano separate, spesso si confondevano. Le metafore o i simboli sono efficaci, ma non vanno confusi con la realtà che rappresentano, anche se sono dotati di una loro “realtà”. Il calcio racconta la vita, ma non è la vita. Bisogna fare attenzione a chi lo scambia con la vita. La violenza negli stadi non avviene anche perché il gioco erode la metafora e il calcio diventa un sostitutivo, un surrogato, una fuga dalla vita?

La Spagna, attanagliata dalla crisi, con tensioni autonomiste, si ritrova unita grazie ai suoi campioni. Da Madrid a Barcellona, da Bilbao, a Siviglia, si urla un prima impensabile “Evviva Spagna”. Ma in Sud Africa vengono registrate le prime aggressioni ed espulsioni xenofobe e, dopo il pianto di rabbia o di commozione dei campioni ritorna quello più vero, amaro, dei bambini senza pallone, senza cibo, senza acqua.

La vittoria, anche quando concorre alla costruzione di un nuovo gioioso senso di sé (i cui risvolti possono essere anche negativi come quando si affermano i “noi”), non risolve i problemi. Li fa vedere con un altro occhio. Un’affermazione della nazionale italiana avrebbe facilitato il compito di Berlusconi nell’opera di devastazione della Costituzione o avrebbe contrastato la politica separatista della Lega? Ci attendono altre difficoltose partite e, purtroppo, non abbiamo le “nazionali” adatte per giocarle con Pd e sinistre appaiono più fuse e confuse della nazionale di Lippi. Torneremo a vincere quando non avremo più le “cricche” al potere e quando nel calcio, come nella società, nei partiti, nelle istituzioni, saranno aperte le strade ai giovani e ai figli degli immigrati? Ahimè, il campionato mondiale suscita anche strani sogni! Un’altra politica, un’altra Italia, un’altra nazionale? Avremmo, davvero, bisogno della “mano di Dio”. Che bello! Sono finiti i mondiali. Non ne potevo più. A proposito, quando cominciano le qualificazioni per gli europei, le partite estive e il campionato? Che noia, che tristezza, la vita senza calcio!

 

IL MONDIALE E LA SUPERSTIZIONE DEL POLPO

dal Quotidiano del 10 luglio 2010

QUESTO in Sud Africa passerà alla storia come il mondiale del polpo. E' solo un gioco mediatico, una furbata interessata di chi inventa affari grazie al gioco più bello del mondo, o non bisogna pensare a qualcosa di più “serio” e di più inquietante? Gesti e atti magico-religiosi, scaramantici, “superstiziosi”, non fanno parte soltanto di un “neofolklore pallonaro” ma vanno considerati anche nella loro capacità di condizionare l'atteggiamento psicologico dei calciatori, di spiegare i risultati. Perché la Germania, l'orchestra potente, dove ognuno sta al suo posto e conosce a memoria quello che deve fare, la squadra che ha vinto quasi tutte le partite e mortificato, con un risultato sonoro, l'Inghilterra di Rooney e Capello e l'Argentina di Messi e Maradona, facendo piangere i due “pibe de oro”, contro la Spagna ha giocato la sua peggiore partita, rendendosi “irriconoscibile” e sorprendendo i tanti commentatori che immaginavano un suo trionfo finale? E perché la Spagna, che ha iniziato il mondiale perdendo meritatamente con la Svizzera, e giungendo in semifinale sempre grazie a un gol di scarto del solito Villa e alle parate di Casillas, ha disputato la sua migliore partita, la più divertente e fantasiosa, contro la Germania, scompaginandone gli schemi? Dire che la Spagna è stata superiore alla Germania è tautologico. L'attenzione globale al polpo la dice lunga sul “magismo”, la “dissacrazione”, il gioco mediatico di noi occidentali che avevamo immaginato filtri, macumbe, riti “tribali”, “animistici”, “arcaici”. Siamo noi a proiettare sugli altri le nostre “irrazionalità”. Il polpo che brancola affamato nella vaschetta fa anche giustizia del luogo comune dei latini e degli extraoccidentali emotivi, irrazionali, religiosi al contrario dei tedeschi freddi, razionali, non superstiziosi. Il polpo Paul che appassiona ormai tutto il mondo, che ha guadagnato le aperture del telegiornale, che riempie il web, è nato nel 2008 in Inghilterra ed è stato utilizzato per questa mediatica missione già mondiali del 2008. Azzeccò circa l'80 per cento dei risultati delle partite tranne quello della finale che aveva “previsto” per la Germania e che invece fu vinta dalla Spagna. Il metodo divinatorio, inventato da Oliver Walenciak, si basa sulla messa a digiuno dell'animale a renderlo affamato. A questo punto vengono inserite nell'acquario due vaschette rivestite dalle bandiere delle Germania e della nazionale sfidante, contenenti il cibo prediletto dal polpo: ostriche e molluschi. La vaschetta da lui prescelta è quella della nazionale destinata a vincere. Un biologo peruviano, Alfredo Salazar, sospetta una possibile influenza del polpo attraverso il cibo a opera degli stessi allevatori. C'è da dire che il polpo più che prevedere il risultato, l'ha sicuramente condizionato, segnato. Il polpo racconta la profezia che autoavverantesi, di cui parla la letteratura psicanalitica. E' l'annuncio che spaventa o carica, che deprime o esalta. I giocatori tedeschi giocavano con l'ossessione e l'incubo del polpo, con la paura di perdere, con l'insicurezza dei neofiti. Il pallone era un grande polpo che li avvolgeva, li faceva sbagliare, li impediva nei movimenti. Per gli spagnoli, che avevano il favore della “divinazione” del polpo, tutto diventava facile, magico, come se a spingerli fossero i tentacoli amichevoli del mollusco. Il loro gioco era fluido e imprevedibile come i movimenti avvolgenti e tentacolari del grande mollusco. Il polpo appare nella sua doppiezza, nella sua ambiguità. Animale simbolo di virilità e di prolificità e anche elemento oscuro, di connessione con il mondo sotterraneo, tentacolare, avvolgente. Rinascita e distruzione, trionfo e rovina. Avevo scritto come nonostante la novità, la bellezza del calcio tedesco, non mi piacesse l'esaltazione nostrana e retorica della squadra perfetta, organizzata, ordinata, dove ognuno sta al proprio posto e “ubbidisce” (memoria deformata di altre ben più terribili obbedienze?) e come, di fronte a questo tipo di calcio, preferissi certo quello ben organizzato ma che non smarrisse però la fantasia e la creatività. L'imprevedibilità e la gioiosità della Spagna hanno avuto ragione sulla prevedibilità e gli schemi ordinati della Germania. La “sfrontatezza” e la “presunzione”, basate su fiducia e sicurezza, hanno avuto ragione dei calcoli eccessivi e dell'esagerata paura di perdere. Intanto il polpo continua a fare parlare di sé e ad avvinghiare questo mondiale. I tedeschi, prima innamorati del polpo, adesso stanno mettendo in rete per cucinarlo e dicono che porta sfortuna. Gli argentini rilanciano proponendo ricette sudamericane per cucinarlo. Zapatero, assieme agli animalisti spagnoli, si premura di salvare il polpo. Gli spagnoli si offrono di, anche con parole scherzose, portarlo in Spagna e ironizzano anche sulle proposte culinarie dei tedeschi. Il ministro spagnolo della pesca, Elena Espinosa, dice, scherzosamente, ma interpretando umori e sentimenti nazionali, che lunedì prossimo in Consiglio europeo si farà promotrice di una proposta di divieto di pesca che impedisca ai tedeschi di mangiare il povero Paul? Ci saranno contrasti per conferire la nazionalità onoraria al polpo? E le nazionali sconfitte lo faranno trattare come un clandestino? Il polpo svela anche la tentazione di utilizzare per fini interni e politici, “nazionali” e magari “nazionalistici”, non abbandona i paesi della vecchia Europa. Alle 11.45 di ieri (venerdì 8 luglio) le televisioni del mondo hanno ripreso, in diretta, il polpo Paul che sceglie la vaschetta con la bandiera spagnola e assegna alla Germania la vittoria del terzo posto. La “scelta”di Paul è più importante della scelta dell'arbitro, delle formazioni, delle condizioni dei calciatori. Seccato, stanco, per tutti questi impegni e coinvolgimenti, non potrebbe giocare un ultimo scherzo? Non potrebbe riportare alla “ragione” un mondo nel pallone? Il tranquillo profilo tenuto dall'Olanda non potrebbe disinnescare la potenza mediatica messa a gioco a spese del polpo? Chi di polpo ferisce, potrebbe perire di polpo? Il polpo divoratore che viene divorato (dai media e dai nuovi maghi che prosperano attorno al calcio) non potrebbe, magari, ridiventare, a sua volta divoratore, di quanti, strumentalmente, lo usano e lo esaltano? Il polpo, a ogni modo, ha risolto le indecisioni “mangiar ecce” e conviviali dei miei paesani. Finora abbiamo gustato (in occasione delle partite) spezzatino di carne, trippa, melanzane ripiene, baccalà fritto, formaggi, salumi. Con poche scuse agli “animalisti” (che in questo caso torturano gli animali) mangeremo polpo in insalata (riscoprendo una qualche ricetta spagnola, napoletana, meridionale) e, in omaggio ai tulipani, stoccafisso olandese e patate cucinati alla calabrese. Globale e locale. Mescolanze. Meticciati. Vinca, davvero, il migliore. Cioè il polpo.

 

 

ARRIVEDERCI ITALIA

 BENTORNATO MARADONA

dal Quotidiano del 27 giugno 2010

TURI, Salvatore D'Eraclea, grande “farsaro” e poeta del mio paesaggio infantile, in occasione del Carnevale, si affacciava dal balcone della piazza, vestito da Generale dell'Imperatore Carnevale: frac nero, bombetta elegante, sul petto come ciondolo una grande graticola e sulle spalle come gradi due grandi “grattalore”, due grattugie per pane e formaggio. Era circondato da “mascherati” (volto tinto di nero, con indosso camice bianco, come quello degli appartenenti alle confraternite) che ridevano, piangevano, si tiravano i capelli, si battevano il petto.Una grande folla riempiva la piazza, circondava la bara di Carnevale morto - un buon uomo che si prestava al gioco e che non sorrideva nemmeno se lo solleticavi a morte e non protestava nemmeno con i cazzotti più forti – e rideva, urlava, applaudiva, attendendo il sermone, la farsa. Turi, aria seria, imponente, sembrava davvero un generale, guardava dall'alto in basso, si asciugava una lacrima ed esclamava: «Così passa la Gloria del Mondo» e seguivano versi salaci, mordaci, irriverenti, che facevano sganasciare dalle risate. Il paese chiuso (anche se viveva ormai di emigrazione), della miseria, alla vigilia del boom economico, era capace di ridere, di trovare vie di sfogo alla fame e alla solitudine, non confondeva la realtà con il rito, la vita di ogni giorno con la finzione, i problemi seri con quello che era un gioco. Mi sono tornate in mente le immagini di Turi, dei mascherati, del Carnevale della mia infanzia in questa Italia esagerata sia nel riso che nel pianto, che confonde spettacolo con tifo, incapace di organizzare davvero Carnevali di rinascita. Poiché ho tifato, vivacemente e anche allegramente Italia, ma senza facili illusioni (chi ci credeva davvero dopo la Coppa d'Africa, l'Europeo, il nostro campionato stravinto da giocatori stranieri, una squadra senza fuoriclasse, con tanti “anziani” e infortunati?), posso dire che sono infastidito da questa drammatizzazione generalizzata. La vignetta di Forattini è davvero di pessimo gusto, fuori luogo, non certo perché non amo il linguaggio libero e dissacrante della satira, ma perché quelle undici bare azzurre, oltre che essere lugubri, risultano poco rispettose di coloro che la guerra la combattono davvero in altri campi e che la vita la perdono in luoghi cosiddetti di pace. I grandi giornali e le testate sportive che, quattro anni fa ci riempivano di sciocchezze, adesso sembrano commentare una nuova aggressione alle Torri Gemelle, una catastrofe ecologica. Nemmeno per il terremoto di Haiti, per la crisi in atto, per Pomigliano, abbiamo visto tanta attenzione e preoccupazione. Il calcio, da gioco più bello del mondo, sembra diventato, davvero, una nuova forma di “guerra”, sostituisce, non racconta, la “realtà”. I calciatori accolti come eroi all'indomani della vittoria, osannati, toccati come santi patroni e divinità miracolose, adesso sono diventati inetti, incapaci, falliti. Noi italiani, pure così diversi, ci assomigliamo nella tendenza a passare dall'autoesaltazione all'autedenigrazione, dal lecchinaggio più indecente al cambio di casacca più gratuito. Sempre eccessivi. Sempre pronti a trovare capri espiatori unici e solitari, ad attribuire colpe agli altri quando la “fortuna” prende un altro corso. Così passa la gloria del mondo, senza gioia e senza disincanto, in questa Italia che non riesce ad essere seria nel trionfo o nella sconfitta. In un Paese che passa, senza soluzione di continuità, dalla farsa al dramma e ha perso il senso dell'umorismo che rigenera. Un Paese incattivito, che predilige sorrisi macabri, risate forzate, mascelle sguaiate, ghigni lugubri. Lippi ha commesso errori, per convinzione e testardaggine, ma la sua colpa maggiore è quella di non aver capito la psicologia degli italiani che adesso ricorda per spiegare l'imprevedibile, anche per lui, sconfitta. Una sconfitta dovuta a un atteggiamento inspiegabile che terrorizza il corpo, la mente, il cuore, come dice lui. Non ha capito che non si torna o che quando si torna è per fare cose completamente diverse della prima volta. Lippi è vittima del vizio di non mollare mai, di non fare un passo indietro, di non consentire il ricambio. Non è un paese per giovani, questo. Non si cede mai il passo. Ma non è questo un atteggiamento italico? Lippi viene processato per il suo conservatorismo. Un pò di coerenza. Non siamo governati da quasi un ventennio da un signore che predica novità, innovazione, mutamento ed è il più grande conservatore dei propri affari e dei propri interessi? Perché gli italiani che chiedono il conto a Lippi e a Cannavaro non lo chiedono a Berlusconi, a Bossi e a Tremonti della disfatta economica, morale, culturale dell'Italia? La sconfitta odierna non può cancellare, davvero, la vittoria di quattro anni fa. I due eventi non sono separabili. L'Italia vera non è quella del 2006 e nemmeno quella del 2010. L'Italia vera è l'una e l'altra. Lippi che vince è lo stesso che perde. Il trionfo del 2006 e la sconfitta in Sud Africa sono due facce della stessa medaglia: quella che non vogliamo guardare e che ci presenta un calcio in crisi, un tifo violento, un paese dove si fa poco per i giovani e per rendere praticabile il calcio a tutti i bambini. Il calcio riflette, davvero, le nostre contraddizioni, i nostri umori altalenanti, i nostri vizi e le nostre virtù. La pessima immagine calcistica riflette e racconta la pessima immagine politica che quest'Italia fornisce quotidianamente al mondo intero. I commentatori considerano questa eliminazione peggiore della sconfitta subita quarantaquattro anni fa con la Corea, la più grave della storia calcistica italiana. Su cosa si fonda la sublimazione della memoria italica? Davvero gli italiani hanno questo culto della storia? Non siamo, forse, la nazione dove tante persone sono convinte che l'Italia sia stata governata per cinquant'anni dai comunisti? I calciatori e Lippi tornano a casa, senza poter recriminare, senza attenuanti. Noi che a casa eravamo già, tifosi o commissari tecnici o dilettanti, pure delusi e affranti, dovremmo, da sportivi, essere contenti che una squadra senza anima, senza gioco, senza voglia di divertirsi, lasci il posto alle squadre che hanno fatto di meglio. Torniamo a goderci, senza patemi, il bel gioco e lo spettacolo. Oggi scenderanno in campo Germania-Inghilterra e Argentina-Messico, incontri con un alto valore sportivo e simbolico. Le partite di calcio, come quelle della vita, continuano. Cerchiamo di godercele anche quando non gioca la nostra squadra. Guardiamo all'Europa e al mondo. Per fortuna, non siamo soli.

 

 

LA PARTITA IMMAGINARIA

Dal Quotidiano del 25 giugno 2010

MANNAGGIA a me,a questo strabenedetto e stramaledetto paese, il mio, che porta bene e qualche volta porta male. Tutta colpa della scomunica di un Papa nel medioevo: qui va sempre tutto male. Mannaggia alla mia scelta di vedere le partite dell'Italia con gli amici che organizzano aperitivi, pranzi, digestivi, bevute, prima o dopo la partita. Mannaggia, davvero, rischiavo di investire, tornando veloce da Cosenza dove i miei colleghi italianisti, invece di vedere la partita, facevano una riunione importantissima e irrinviabile, e non possibile in nessun'altra ora dell'anno, sulla potenza e sul destino del racconto nella letteratura italiana. Faranno una pausa caffè partita, ma poi di corsa al lavoro, alla cultura, alle cose serie. Ho rischiato, e non poco, sulla strada che porta da S. Onofrio a S. Nicola - quella che ha più buche dei buchi nella rete del portiere, nonostante venga quotidianamente attraversata da sindaci, consiglieri provinciali, regionali - di andare contro una macchina come nel 1978, quando correvo per non perdermi Italia-Francia, finita 2 a 1 per noi. Perché poi? Per arrivare a casa e scoprire, mi avesse avvisato mia moglie, avessero chiamato gli amici, che la corrente mancava. C'erano lavori in corso, oggi, naturalmente. Che faccio? Dove vado? Mi rassegno. Chiamo per telefono un amico a Roma, non patito di calcio, che però guarda i mondiali, e quindi mi saprà dare con asciuttezza i risultati, senza fronzoli e senza commenti. Comincia la partita, l'ottantesima della nostra Nazionale ai mondiali. L'inno, mi dice il mio amico Fabio, viene cantato con rabbia dai calciatori, con mestizia da Lippi. I calciatori italiani cominciano in maniera decisa, brillante. De Rossi, Cannavaro e Gattuso sono rinati, sono tornati giovanotti. Sfortuna. Segna la Slovacchia. Tranquillo. Mica accadrà come col Paraguay e come con la Nuova Zelanda, questa volta pareggeremo e poi vinceremo. Rassicuro il mio amico, che mi cita tutti gli scrittori che hanno scritto di calcio. Li conosco, ti prego, dimmi come và. Continua il nostro bel gioco. Lippi è sereno, cambia qualcosa nel secondo tempo. Entrano un certo Maggio e un certo Quagliarella, ma soltanto per dare la possibilità a tutti di giocare, di dire io c'ero. Entra anche Pirlo. Giusto. E' in forma, non può non partecipare del nostro trionfo che verrà. Mannaggia, arriva il duezero. Il mio caro amico, all'altro capo del telefono, mi dice: «Vito, non vorrei che non ci fosse il due senza tre». Che ti viene in mente, Fabio, da noi si dice “una volta si fotte la vecchia”, questi ci hanno fottuto due, adesso basta. Adesso vedrai che segniamo. E così accade. Gol bellissimo, voluto, cercato. Te lo avevo detto, carissimo, ce la facciamo. Sarà dura, ma ce la faremo. Bossi – che di persone che comprano partite, partiti, uomini, donne e sentimenti se ne intende - verrà punito per le sue allusioni e per il suo tifare contro. Noi non siamo la Francia, la cui disfatta ha significato anche fine del facile sogno dell'integrazione e della “multietnicità”, qui da noi il trionfo cementerà l'unità della nazione, ne impedirà lo sfarinamento. Che dici? Hanno segnato un altro gol gli slovacchi? Sei sicuro? Mannaggia. Sereno. Ce la faremo. Combattono come leoni, vecchi e giovani, difensori e attaccanti. Tocchi perfetti, passaggi precisi, marcature impeccabili. Evviva, segniamo il secondo gol.

 

LA SINDROME DELLA SECONDA VOLTA

Dal Quotidiano del 24 giugno 2010

LA PARTENZA decisamente deludente della Nazionale italiana ha cause di natura tecnica e organizzativa, legate alle convocazioni e al modulo adoperato da Lippi, ma anche ai limiti del calcio italiano. Vorrei ricordare, però, la “sindrome” della seconda volta, la difficoltà a rinnovare il successo, a conseguire una nuova “vittoria”, a ripetere l'exploit precedente. Per gli autori di un'opera prima, che ha riscosso un favore di critica e di pubblico, la seconda opera diventa una prova psicologica, mentale, prima che artistica. Caparezza, in una sua canzone, ricorda: «Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista». J. D. Salinger, dopo “Il giovane Holden”, in pratica si è rifiutato di pubblicare altri romanzi. Henry Roth, autore di un capolavoro della letteratura del Novecento, “Chiamalo Sonno”, ha scritto un solo libro. Esiste una sorta di sindrome del secondo libro. L'autore si domanderà: riuscirò a non deludere le aspettative, a mantenere le promesse del lavoro precedente, come verrà accolto dalla critica? Conservo lo stesso stile col rischio di apparire ripetitivo e sorprendere di meno, o cambierò narrazione e stile col rischio di deludere. Nella creazione artistico-letteraria e negli sport individuali “rivincere” (e anche migliorare) è possibile, nel calcio, dopo quattro anni, è difficile che si ripetano le condizioni, gli amalgami, la magia, la fortuna, le coincidenze che hanno concorso alla vittoria. Anche i più ottimisti hanno la consapevolezza che è difficile ripetersi a distanza di quattro anni. Una sorta angoscia e di impedimento attanaglia le nazionali che hanno vinto un mondiale o un trofeo importante e che si sentono attese al varco. E' difficile, dopo una vittoria storica, fare ancora meglio: Mourinho ha cambiato subito squadra, dopo aver vinto tutto con l'Inter. Di analoghi (ma di segno diverso) blocchi psicologici sono colpite quelle nazionali che vivono di ricordi gloriosi, che hanno una storia nobile, e che non vincono ormai da tempo. Lo sperimenta adesso Capello che si è accorto quanto la storia precedente sia un fattore decisivo per il rendimento dei calciatori. Dopo quattro anni i valori individuali e del collettivo cambiano, i campioni che erano maturi sono “invecchiati”, calciatori prima in forma possono essere infortunati, fuori condizione e intanto si sono affacciati sulla scena calciatori più freschi, più desiderosi di dimostrare e di vincere. Una delle domande che un allenatore, si pone è: bisogna dare comunque fiducia a quelli che hanno già vinto, o bisogna dare spazio a nuove promesse, anche se incompiute? La domanda diventa dolente se il commissario tecnico è lo stesso che ha guidato alla vittoria. Durante un mondiale vinto, il mister ha vissuto un momento magico, è stato protagonista assieme ai calciatori di una situazione unica e irripetibile, ha stabilito relazioni amicali, affettivi, di stima, di fiducia. Può dimenticare tutto ciò? Punterà sul noto che sembra dare più garanzie e a cui è legato, o si aprirà al nuovo con tutte le incognite che esso comporta? Bearzot, dopo il trionfo dell'82, raggiunto battendo Argentina, Brasile, Germania, non se la sentì di cambiare gruppo e questa fedeltà comportò un pessimo risultato al mondiale del 1986 in Messico. Vinsero il cuore e gli affetti sulla “ragione”, che consigliava altre scelte. La gratitudine e l'umanità alla Bearzot ci lasciano ancora ammirati, ma come possono essere conciliate con l'interesse “pubblico”, di squadra, di “nazione” di vincere ancora? E' questo il crinale su cui cammina pericolosamente Lippi, dopo avere accettato, in maniera temeraria, di tornare ad allenare l'Italia. La sindrome della seconda volta si traduce nella difficoltà di conciliare antico e nuovo, di dosare forze sperimentate e giovani di buone promesse. E' ingenerosa la critica che Lippi sia subalterno al blocco Juve o ostile, in maniera immotivata, a Cassano o a Ballotelli: egli vuole e sa che deve vincere o comunque ottenere un buon risultato, altrimenti rischierebbe di appannare anche la vittoria precedente. Quello che ha fatto è frutto di convinzione. Ma pure agendo in maniera lucida (privilegiare lo spirito di gruppo) ha commesso errori di valutazione: ha scelto gli eroi di Berlino (non tutti) non più in forma e non ha utilizzato ancora i nuovi da lui convocati. Perché non dare alla squadra un gioco più adeguato alle caratteristiche dei nuovi calciatori? In un periodo dominato da cricche e da affaristi, senza pudore e senza vergogna, da gente che si vende e cambia casacca, ha ancora un senso parlare di “fedeltà”, coerenza, gratitudine? Nel mondo del calcio, dove si muovono miliardi, hanno senso valori come attaccamento alla maglia, alla squadra, alla nazionale? Penso che abbiano un senso e che bisogna fare di tutto perché ce l'abbiano. Per questo Lippi, pure con la sua testardaggine, merita apprezzamento. Le bandiere esistono anche nel calcio e un giorno Totti e Del Piero saranno ricordati con più simpatia di Ibrahimovic o di Kakà. La gratitudine, però non deve paralizzare. Il rispetto della tradizione significa anche capacità di “tradire”, tramandare, accettare e fare accettare che il tempo passa, innovare. Significa anche forza di spiegare ai campioni che la vita è fatta di stagioni, e che non è conveniente uscire a testa china, dopo essere stati osannati. Nell'Italia che non dà opportunità ai giovani, bisognerebbe essere più coraggiosi almeno nello sport. Dopo l'esito delle prime due partite, Lippi difende il “blocco”, si assume le responsabilità del “noi”, anche per rispondere alle critiche, a volte esagerate e ingenerose, che arrivano dagli “altri”. E' una posizione che può compattare e generare risposte orgogliose. A condizione che non si privilegino continuità e conservazione. Lippi ha dato tante opportunità ai “suoi” campioni, adesso non deve restare prigioniero del passato, deve innovare, cercare, senza dimenticare quanto ha fatto, un gioco nuovo. Il rischio è preferibile al già visto che porta alla sconfitta. Il calcio, come la vita, insegna che fedeltà, gratitudine, esperienza, tradimento, freschezza e capacità di innovare, bisogno di sicurezza e necessità di rischiare sono “valori” e comportamenti da “mescolare”, dosare, tenendo conto delle condizioni che mutano.

 

 

SORELLA VUVUZELA FRATELLO JABULANI

Dal Quotidiano del 19 giugno 2010

VUVUZELA: Caro vecchio amico Jabulani, come te la passi in mezzo al campo? Mi spiace, ma dall'alto, sempre torturata, come tutte le mie compagne, dal fiato possente di un suonatore ebbro e instancabile, non riesco a seguire cosa avviene sul bel prato verde, dove compi le tue capriole e i tuoi salti, i tuoi voli e le tue piroette. JABULANI: Intanto, cara vuvuzela, non sono “vecchio”. Sono il pallone ufficiale dei mondiali del 2010, e comparso, soltanto nel 2009, come pallone della Coppa del Mondo per club 2009negli Emirati Arabi Uniti. Il nome, Jabulani è stato rubato alla lingua zulu, e parla di “esultanza”. Non ti inganni questo riferimento alla tradizione, sono un'invenzione della globalità e racconto i mille giochi delle economie mondiali. Diavolo di un Blatter! Sono stato progettato in Inghilterra, formato da otto pannelli tridimensionali, costruito con materiali prodotti In Cina, in India e a Taiwan, avrei dovuto rendere più spettacolare il gioco e fare segnare molti più gol. Come vuoi che stia? Deluso, amareggiato, sotto processo. I portieri, a cominciare da Buffon, si lamentano di me e così gli attaccanti e i centrocampisti. Sono stato definito orrendo, inadeguato, inaffidabile, il peggiore pallone con cui si sia mai giocato. Ma tu invece, sorella in disgrazia, come stai? VUVUZELA:Non bene. Sono una tradizione inventata e poco rispettata. Un postmoderno strumento a fiato di plastica. Faccio davvero riferimento al termine onomatopeico che in lingua zulu vuol dire “fare vuvu”? O racconto del gergo dei sobborghi, che significa doccia e appartengo, davvero, al repertorio culturale zulu? Che importa, ormai, nel periodo delle mescolanze e dei meticciati? Siamo, noi vuvuzelas, l'emblema di una tradizione male interpretata e di un nuovo sempre e comunque esaltato o rinnegato. Costruite, noi vuvuzelas, in quantità enormi, facendo arricchire qualche industriale mediorientale della plastica, accolte come una grande novità e, con retorica, come segno dell'allegria africana, adesso siamo indicate quasi come protagoniste negative di un mondiale che fatica a diventare esaltante. Io e le mie mille e mille sorelle siamo chiamate fastidiose, noiose, insopportabili e, dopo un'iniziale edulcorata accoglienza, subiamo una sorta di esclusione come quella conosciuta dai neri del Sud Africa. Il disturbo, il fastidio, l'irritazione che creiamo danno il via a nuovi guadagni, ad altri interessi. Hai ragione. Diavolo di un Blatter! E tifosi e commentatori banali. JABULANI: Perché dici così? Forse qualche responsabilità l'abbiamo. VUVUZELA: La responsabilità è di chi ci inventa e poi ci usa. Di chi trasforma l'allegria in insopportabile tifo, di chi non conosce più la musica degli strumenti e i dolci suoni e vive nella baldoria . In fondo, noi vuvuzelas non suoniamo e non facciamo rumore da sole e tu, fratello Jabulani, non corri e non vieni preso a calci o a testate o sbattuto sui pali o alzato al cielo per tua scelta e per tuo piacere. Sono almeno contenta per te: avrai occasione di essere ammirato per la tua eleganza…JABULANI: E' vero, nella finale, con un vestito in oro, da Jabulani diventerò Jo'bulani. Il nome è ispirato alla città di Johannesburg, che è conosciuta come Jo'burg, città d'oro. Sono felice di essere usato soltanto dai calciatori che giocheranno la finale. Non sono sicuro, però, che non venga indicato come responsabile di qualche errore dei calciatori. Temo di diventare responsabile della vittoria e della sconfitta. Conto sulla collaborazione tua e delle tue sorelle. Dovreste, fare un rumore bestiale, insopportabile, disturbare quanti sono seduti in poltrone, suonare per conto vostro, così le persone, forse, sapranno stabilire un diverso, rispettoso, affettivo rapporto con gli oggetti che creano. VUVUZELA: Ci penseremo. Alla fine questo potrebbe diventare il mondiale dell'inafferrabile Jabulani e delle perturbanti vuvuzelas. Il mondo non migliorerà dopo questi mondiali e gli infastiditi di tutto il globo non trarranno ragioni per vivere meglio e in pace assieme. Ciao sorella, ti lascio al tuo irruento e incazzoso suonatore. Cornuta e mazziata, oppressa e denigrata. Così va il mondo…del pallone.

 

 

RADIO PADANIA LA NAZIONALE E GLI ANTITALIANI

Dal Quotidiano del 16 giugno 2010

RADIO Padania e i suoi ascoltatori hanno esultato al gol del Paraguay. Si può liquidare l'episodio, come facciamo da oltre un ventennio, come un fatto di colore, di folklore leghista, di provocazione alla Bossi, ma io inviterei a decifrare diversamente l'ulteriore segnale di “antitalianità” (non quelle degli intellettuali e delle élite che da Leopardi ad Arbasino denunciano i difetti del “carattere italiano”) che ormai, in maniera esplicita, anche da ministri del governo italiano, per non dire di parlamentari, consiglieri, sindaci leghisti, viene trasmesso, con un senso di arroganza e quasi per celebrare una sorta di fatto compiuto. Irrisioni al tricolore, denigrazione dell'inno di Mameli, proposta di adottare come inno “Va' Pensiero”, tifo contro la Nazionale italiana sono i segni e gli esiti dello sfarinamento dell'Italia, dell'erosione dell'idea di nazione, della negazione del periodo storico che va dal Risorgimento all'antifascismo, dal dopoguerra ai lunghi anni della ricostruzione grazie i partiti nati dalla Resistenza. Se il calcio è la metafora della vita, è una rappresentazione sociale, il riflesso di sentimenti profondi e sotterranei, anche la prosecuzione, in maniera innocua, della guerra e dei conflitti che esistono nelle società, vale la pena prendere molto sul serio “parole” che non sono più semplici proclami, ma pratiche, iniziative, scelte politiche con forti riflessi nella vita e nel sentire quotidiano. Nel sondaggio odierno di Sky (certo opinabile, ma comunque indicativo), il 27 per cento della popolazione italiana preferirebbe “Va' Pensiero”all'Inno di Mameli. Sembrerebbe una minoranza, ma è troppo rumorosa, troppo inquietante. Va al di là della percentuale dei votanti leghisti e c'è da immaginare che nelle aree del Nord amministrate dei leghisti la percentuale va ben oltre il 50 per cento. C'è da immaginare che non è una scelta fatta da fini conoscitori di musiche e di tradizioni patrie, ma è propria di un elettorato “rancoroso” che ha ormai assorbito il virus del separatismo e della divisione che è uno dei risvolti del razzismo antimeridionalista e della xenofobia della Lega. Marcello Lippi ha dovuto avvertire (sull'onda delle critiche leghiste) che non vorrà politici e critici sul carro degli eventuali vincitori e, oggi, in conferenza stampa, fa detto piccato che se ne frega della stupidità di Radio Padana. Prima dell'inizio dei Mondiali, Cannavaro e Buffon hanno polemicamente proposto di destinare l'eventuale premio alle iniziative per celebrare il centocinquantenario dell'unità nazionale. Ringhio Gattuso ha detto parole semplici e precise contro l'invadenza di una certa politica. Ma questi episodi non raccontano che la Lega detta ormai agende, argomenti, iniziative? Non rivelano che il tarlo del separatismo è penetrato anche nel calcio, nella moda, nei festival, nel senso comune? Certo si può tifare anche contro l'Italia (lo fanno anche tanti amici interisti che volevano Balotelli e i baresi che sognavano Cassano), ma è bene chiamare le cose con il loro nome. La lunga, subdola, altalenante, marcia leghista ha raggiunto i suoi obiettivi, al pari della P2. Con il compiacimento e la tolleranza di chi ha devastato la Costituzione, le leggi, le regole, il mercato, il senso dello Stato, della vergogna e del pudore e ha dato voce, amplificandoli, agli istinti più nefasti distruttivi del peggiore “spirito italico”. E le altre forze politiche? La sinistra, dilaniata, senza idee e sogni, incapace di pensare e di fare, sempre pronta a inseguire e ad adattarsi al “meno peggio”, infatuata dal radicamento della Lega, che vuole aprire con essa un dialogo e un confronto, riuscirà a porre come discriminante prioritaria la scelta dell'unità d'Italia? E quella destra, che si scopre aggredita e snaturata dal berlusconismo, che vede i processi autoritari in corso, la destra liberale o che ha fatto i conti col fascismo, o che, comunque, ha avuto sempre il senso dello Stato e dell'Unità nazionale, saprà accorgersi che in discussione non è la nazionale italiana, ma la nazione italiana?

 

LA FATICA DI TIFARE AZZURRI

Dal Quotidiano del 15 giugno 2010

VOLATI via altri quattro anni e, per quanto non vogliamo ammetterlo, il calcio, i mondiali, le partite sono i nostri orologi. La mia postazione è davvero eccezionale: un’abitazione di amici del paese, dove con una trentina di compaesani, che hanno allestito un barbacue, ci ritroveremo per tutte le partite dell’Italia. Grigliate di ogni tipo di carne, rigatoni all’amatriciana, insalate, peperoni, vino. L’organizzazione è impeccabile, meticolosa. E’il paese vuoto e pieno che si ritrova, conviviale e carnevalesco, antico e postmoderno, quello dei rapporti liquidi e solidi, delle aperture e delle chiusure. I luoghi di ascolto di questo tipo sono almeno una diecina. Poi ci sono i commissari tecnici che vogliono vedere la partita da soli e non sentire parlare di calcio gente che non capisce un tubo. «Ma dobbiamo tifare per l’Italia o per il nostro paesano?», dico agli amici che mi guardano perplessi. Non farò come quelli che tifano “contro l’Italia” perché Lippi non ha convocato Cassano e Balotelli? Ma no, dico, non vedete che il ct del Paraguay, El Tata Martino, con quel cognome, sicuramente sarà discendente di un nostro compaesano e, difatti, la nostra più grande gloria locale si chiama Gian Giacomo De Martino. «Io tifo Italia e me ne fotto di Lippi e di Ballotelli». E anche del governatore del Veneto, il leghista Luca Zaia che, durante l’inaugurazione di una scuola elementare, ha fatto eseguire “Va’ Pensiero” al posto dell’Inno di Mameli. E del figlio di Bossi che dichiara di non tifare Italia.

Parte l’inno nazionale. La musica ha una funzione rammemorante e un valore fondante. Non parte male l’Italia, corre, fatica, non conclude. Segna il Paraguay, una grande distrazione quando stavamo giocando meglio. Gelo. Silenzio. Irritazione. «Viva il Paraguay», grida Nicola e inveisce contro Lippi e Cannavaro, la Juventus e il Milan. Dice zio Gore, grande esperto di calcio: «Pensavo di vedere la partita con gente che tifa Italia e non con stupidi che non capiscono nulla di pallone». Non entra Buffon e temo qualche segno del destino. Non è così. Cresciamo. Diventiamo più tosti. Entra Camoranesi, segna De Rossi. Rischiamo di vincere. «Viva l’Italia», dice, adesso, Nicola. Zio Gore: «Se miglioreremo, mangiamo insieme più di tre volte». Non male. Non bene. Come l’Italia. La fatica, anche nel calcio, di essere italiani.