Dalla Gazzetta del Sud di martedì 13 aprile 2011
_________________________________________________________________________________________
Si può viaggiare senza muoversi, ma bisogna sempre cercare, comprendere
Partire o restare? L'importante è ritrovare il senso dei luoghi
Francesco Bevilacqua
È possibile viaggiare avendo scelto come modus vivendi la stanzialità? Se l'interrogato fosse Xavier de Maistre, la risposta sarebbe certamente sì, avendo egli scritto, negli ultimi anni del Settecento, un gustoso "Viaggio intorno alla mia camera da letto". Se, invece, si rivolgesse la domanda ad uno degli studiosi contemporanei del viaggio (qualche nome a caso: Alain de Botton, Eric J. Leed, Attilio Brilli), probabilmente ci sentiremmo rispondere che le due cose sono inconciliabili. Ed in effetti viaggiare è sinonimo di irrequietezza, creatività, anticonformismo, assenza di legami stabili, sete di conoscenza (l'archetipo di questo tipo psicologico sarebbe, secondo Michel Onfray, autore di una "Filosofia del viaggio", il biblico pastore nomade Caino). Laddove, al contrario, l'essere stanziali equivale all'appagamento, al senso dell'ordine, alla temperanza, al sentirsi radicato in un luogo (l'archetipo, in questo caso, sarebbe il contadino sedentario Abele).
Viaggiare, restare: due verbi, dunque, apparentemente irriducibili ad un comune sentire. Prova a dare un'interpretazione inedita di questa dicotomia l'etnologo vibonese Vito Teti, con il suo "Pietre di pane, un'antropologia del restare", fresco di stampa per i tipi di Quodlibet (pp. 188, euro 22,00). Il titolo, "Pietre di pane", si rifà ad una suggestione alvariana, allorché il grande narratore calabrese ricordava come le pietre delle fiumare, oblunghe, levigate, dorate, richiamavano alla mente della gente d'Aspromonte le forme dei pani. Entrambe le immagini (pietre e pani) simboleggiavano la casa, il focolare domestico, la famiglia, quindi, in qualche misura, il senso di protezione del luogo-patria e quello di adesione a valori secolari condivisi ai quali bastava aderire per sentirsi paghi e realizzati.
La tesi di Teti è che si può viaggiare anche restando. Anzi, secondo l'autore esiste proprio una genia di "narrabondi" stanziali che partono proprio da de Maistre, passando per Baudelaire, Joyce, Kafka, Musil, e poi una schiera di antropologi del "ritorno a casa", dello studio delle «nostre Indie di quaggiù», che hanno fatto delle loro patrie i propri terreni di ricerca.
Ed il libro, a parte il breve saggio di apertura, che si occupa specificamente del tema, è un florilegio di racconti brevi per lo più autobiografici (flash mnemonici dell'infanzia in un mondo perduto, brandelli di viaggi) intramezzati da versi di antichi canti popolari calabresi. Ma tutto questo, ovviamente, non basta a giustificare un'antropologia del restare o, come scrive Teti con un neologismo, della "restanza" (intesa come contrario dell'erranza). Che senso ha – si chiede l'autore –, in una società postmoderna, globalizzata, in un mondo di non-luoghi, il restare? E soprattutto: che senso ha per l'antropologo restare, quando l'oggetto della sua ricerca è preda di mutazioni irreversibili, perdite di identità e rapidi processi di ibridazione? Quando l'emigrazione diviene post-emigrazione, cioè un mondo di andirivieni, di non più partenze forzate di braccia da lavoro, ma di fughe consapevoli di cervelli? Quando secolari universi simbolici perdono rapidamente di significato e di funzione?
La risposta è «solvitur ambulando» (camminando si risolve), come suggerisce il moderno viaggiatore inquieto per antonomasia Bruce Chatwin. Antropologo o letterato, intellettuale o persona comune, chi sceglie di restare, per dare un senso alla sua "restanza" deve muoversi, deve, paradossalmente, viaggiare. Ma non è necessario che percorra rotte transoceaniche, che attraversi deserti e foreste, che scali montagne e solchi oceani, che entri in minareti e moschee, che visiti piramidi e grandi muraglie. Probabilmente non c'è neppure bisogno che abbia l'uso delle gambe.
Deserti e foreste, montagne ed oceani, piramidi e muraglie sono tutt'intorno a noi, appena oltre l'uscio di casa, mondi misconosciuti di cui quasi nessuno si occupa più. Tranne i "restanti-viaggiatori" o camminatori o camminanti, coloro che riannodano legami tra uomini e luoghi, che, come rabdomanti, vanno alla ricerca di una vena fluida di bellezza sotto un'apparenza di caos, che, come adoratori di antichi dèi, chiedono alle pietre di rilasciare il genio che è celato in esse.
E la forza tellurica, incubica che a volte riesce a sommuovere tutto questo, si chiama, secondo Teti, nostalgia, un misto di nostos (ritorno) e di algos (dolore), che risveglia il sentimento, la passione, il senso dei luoghi che riconcilia Ulisse, l'errante, con Itaca. Come nella poesia di Kawafis, dove l'isola sta per la patria fuggita, perduta e finalmente trovata.