Dal Quotidiano dell’1 maggio 2011

 

L’etnologo presenta il suo libro, “Pietre di pane”, a Cosenza

La restanza secondo Teti

 

 

Domani alle ore 18, alla piazzetta della libreria Ubik, Vito Teti presenta il suo libro: "Pietre di pane. Un'antropologia del restare". Con l'autore ci saranno padre Pino Stancari e le letture scelte saranno curate dall’attore Paolo Mauro. “Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni”. L'incipit di Tristi Tropici di Lévi Strauss è forse la frase più celebre e più avvincente di tutta la letteratura antropologica. Nulla più dell'idea del  “restare”potrebbe, quindi, apparire estraneo alla storia del sapere etnografico. Restare sembra l'antitesi del viaggiare. del mettersi in discussione, della disponibilità al disordine, alla scoperta, all'incontro. Ma davvero l'idea e la pratica del restare sono inconciliabili con l'esperienza antropologica? E, soprattutto, è possibile pensare un viaggiare separatamente dall'esperienza del restare, e davvero il restare va accostato all'immobilità, alla scelta di non incontrare l'alterità e di non fare i conti con la propria ombra? Restare è difendere un appaesamento o esiste anche una maniera spaesante di restare che può risultare più scioccante del viaggiare? L'avventura del restare – la fatica, l'asprezza, la bellezza, l'etica della “restanza”- non è meno decisiva e fondante dell’avventura del viaggiare. Le due avventure sono complementari. Restare, allora, non è stata per tanti, una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità; restare è stata un'avventura, un atto di incoscienza e, forse, di prodezza, una fatica e un dolore.

Attraverso racconti, memorie, note di viaggio e riflessioni, che si fondono in un romanzo antropologico ambientato tra la Calabria e il Canada, Vito Teti ricostruisce la complessità della “restanza”, senza nessun cedimento a un'estetica dell'immobilismo e con una sofferta interrogazione sul senso dell'erranza nell'epoca della modernizzazione globale.

Viaggiare e restare, partire e tornare. Un amletico dilemma che affonda lontano le sue radici. In fondo che cos'è quello dell’uomo se non un continuo andirivieni tra il viaggio verso l’altro da sé, il doppio, l’ombra e il fermarsi in sé. Ma anche quel fermarsi in realtà è un continuo camminare e fare scoperte. Viaggiare e restare, partire e tornare sono veramente esperienze separabili o non è piuttosto il contrario? Il viaggio può essere un falso spostamento o la stanzialità, che sembrerebbe essere l’antitesi del movimento, del mettersi in discussione, dell’incontro, può significare anche grandi cambiamenti. Esiste una maniera spaesante del restare che può risultare in alcuni casi persino più scioccante del viaggiare.

Nel suo ultimo libro “Pietre di Pane”, edito da Quodlibet, Vito Teti, ordinario di etnologia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria, ricostruisce e analizza la complessità della "restanza", attraverso racconti, memorie, note di viaggio e riflessioni che danno vita a un romanzo antropologico ambientato tra Calabria e Canada. “Conosco persone - scrive Teti citando Levi Strauss - che hanno viaggiato molto e non hanno visto nulla. Ho incontrato persone che hanno fatto tutti i viaggi di questo mondo e non hanno mai camminato. Conosco persone rimaste ferme che conoscono il Mondo”. Quindi partire e restare sono avventure complementari che vanno raccontate insieme. Il viaggio di Ulisse non avrebbe senso senza l'attesa di Penelope e la mobilità e l’inquietudine delle persone di Calabria non rappresentano che l’altro volto della loro stanzialità e del loro radicamento. Allora il rimanere o l'essere rimasto non è un atto di debolezza né di coraggio, non è una scorciatoia, “è una condizione, un modo d’essere, un’avventura faticosa,  aspra e bella, un atto di incoscienza e un dolore.

"Restare è un'arte, un’ invenzione, è una diversa pratica dei luoghi e del tempo. Restare è la forma estrema del viaggio".