La «razza maledetta», antologia dell’anti-meridionalismo, curata da Vito Teti – Un’importante iniziativa dell’Università Popolare Mediterranea di Crotone, a chiusura dell’anno accademico

di Vittorio Emanuele Esposito

La prima edizione di questa antologia, che documenta l’errore colpevole dell’antropologia positivistica dell’Otto/Novecento  nei confronti dei nati e viventi nelle regioni meridionali della penisola italiana, all’indomani del raggiungimento di quell’unità politica cui gli italiani aspiravano da secoli e, insieme, documenta la reazione consapevole e generosa dei «meridionalisti» a questo errore gravido di conseguenze negative (1), uscì nel 1993, quando, a pochi anni dalla caduta del Muro di Berlino (1989) e della cosiddetta «fine delle ideologie» - cioè, in pratica, della sola ideologia marxista e del comunismo, perché le altre, ad essa opposte o concorrenti, sono ancora vive e attive - uno studioso come Gianfranco Miglio  e un demagogo come Umberto Bossi credettero di poter sostituire e in qualche modo surrogare alla lotta politica, fino allora, incentrata sul dualismo e la contrapposizione delle classi sociali e mirante alla realizzazione di una società più giusta –più libera in quanto più giusta- e di una democrazia meno formale e più sostanziale, una politica fondata sulla contrapposizione e lo scontro territoriale tra le due parti del paese, cioè tra il Nord ricco e sviluppato in grado di competere con i paesi più avanzati d’Europa e il Sud più povero e dallo sviluppo più lento e in gran parte indotto, che sembrava assorbire senza apprezzabili risultati le risorse prodotte dall’«industriosità» e dall’«operosità» dei settentrionali, frenando le loro migliori e legittime aspirazioni.

Si riaffacciava così il tema delle «due Italie», che ha attraversato il corso della nostra storia unitaria e, insieme ad esso, rinasceva l’ipotesi di una differenza irriducibile di mentalità, costume, senso della vita, tra i «settentrionali» e i «meridionali», assunta come causa e non già come effetto di concrete situazioni e condizioni storiche, sempre relative e sempre mutevoli.

Rinasceva, cioè, in forza, il pregiudizio antimeridionale, che, nel dopo-guerra, negli anni della crescita economica e della speranza di un graduale superamento del dualismo strutturale della società italiana, era stato contenuto nei limiti di un innocuo e, il più delle volte, scherzoso contrasto tra diversi tipi umani e aveva dato luogo a «macchiette» radiofoniche, cinematografiche e televisive, come quella del “cavaliere” milanese “ghe pensi mi”( mi riferisco a Tino Scotti. non all’altro oggi più noto “cavaliere”) o quelle interpretate da Alberto Sordi, Totò e Peppino de Filippo, in cui i rispettivi difetti  venivano comicamente esagerati e presi in giro, nel quadro di una «commedia all’italiana», che rappresentava il «carattere» nazionale con il suo corredo di vizi, ma anche di virtù, comunemente riconosciuti.

Ora, invece, - in un quadro storico mutato, di competizione economica a tutto campo- lo stereotipo - lo “pseudo concetto” - del «meridionale», la cui prima documentazione risale al tempo dei Normanni e degli Angioini, al giudizio, cioè, dei mercanti e dei banchieri toscani scesi a Napoli  per curare i loro affari, veniva riproposto esclusivamente nei suoi caratteri negativi, come stigma di una connaturata inferiorità, e portato alle sue estreme conseguenze politiche: quelle cioè di una impossibile convivenza tra due modi di essere, tra due «civiltà» differenti, così da alimentare pulsioni, ora più sopite, ora più accese, al divorzio e alla separazione del Nord “avanzato” dall’ “arretrato” Sud d’Italia.

La formazione di stereotipi e di pregiudizi avversi accompagna sempre lo svolgimento delle relazioni umane, individuali, di gruppo, collettive e nasce dal bisogno di definire il «sé» o il «noi» rispetto agli «altri», spesso in base ad una logica elementare di carattere oppositivo e binario. Vi rientrano meccanismi di difesa e di proiezione e la ricerca di un «capro espiatorio» per esorcizzare le difficoltà, gli ostacoli, gli eventi negativi della vita.

Ma quando questi processi, in parte inconsci, si sottraggono alla consapevolezza critica e gli stereotipi vengono assolutizzati, decontestualizzati, destorificati si produce un guasto culturale che porta direttamente al razzismo.

 Non ha importanza se alla base del pregiudizio sulla presunta inferiorità attribuita ai «meridionali», considerati, in blocco, come una categoria a sé, vi siano gli schematismi biologici e anatomici della  scienza positivistica lombrosiana, corredati da certosine ricerche sulla conformazione e le dimensioni dei crani, o la più debole e moderna teoria dell’«identità etnica e culturale».

 Le astrazioni, ancorché si ammantino, come spesso avviene, dell’ autorità  della scienza, producono una regressione culturale e alimentano atteggiamenti e comportamenti collettivi devianti e pericolosi. Non è un caso che, mutatis mutandis, l’elaborazione  degli studiosi positivisti di fine Ottocento sulla diversità antropologica e psicologica delle «due Italie» ricomparisse più tardi nel «Manifesto della razza» del 1938, nella forma, più attenuata, di una sottodistinzione interna alla comune razza «ariana/europea» e cioè quella tra le «piccole razze» dei «nordici» e dei «mediterranei», con la precisazione che il «razzismo italiano» doveva seguire un indirizzo «ariano-nordico».

Le idee, e soprattutto quelle sbagliate, hanno un effetto di suggestione e di trascinamento anche sulle coscienze più coltivate, altrimenti non si spiegherebbe come, tra i firmatari di quell’indegno manifesto, compaiano nomi di politici e intellettuali che, dentro di sé o pubblicamente hanno dovuto, poi, fare ammenda di un errore di quelli che segnano un’intera vita. E il pericolo di una simile deriva culturale incombe anche ai nostri giorni e va energicamente contrastato, in un periodo di instabilità, in cui, non solo in Italia, ma in tutta l’Europa, gli ideali aggreganti e l’etica universalistica incontrano nuove resistenze e difficoltà, per il diffondersi di atteggiamenti discriminatori nei confronti degli immigrati e di gruppi etnici considerati non omogenei.

Per la nuova edizione (2011) di questa chiara ed essenziale antologia, il prof. Vito Teti ha scritto una «Prefazione», che è in sé un saggio di antropologia critica e storica, riconducendo la questione delle «due Italie» nell’ambito del dibattito attuale e della problematica celebrazione dei 150 anni.  In margine alla quale è fiorita tutta una storiografia giornalistica, in cui hanno trovato  espressione gli umori revisionisti e antiunitari oggi di moda.

Così al «mito» e alla retorica del Risorgimento, già da tempo ricondotti, peraltro, dalla storiografia più seria alla misura di una realtà ricca di luci e di ombre, ma incontestabile nelle sue più autentiche finalità politiche e civili, come se non fosse bastato il mito  della «Padania», inventato di sana pianta dagli “intellettuali” leghisti, si è contrapposto l’altro mito alternativo, neoborbonico e legittimista, del Regno napoletano, idoleggiato come uno Stato ricco, sviluppato, pacifico e operoso, oggetto della barbarica «conquista piemontese», che grida, ancora oggi, vendetta.

Ovviamente ognuno ha il diritto di coltivare le proprie fantasie, nostalgie e rimpianti, ma quello che non si può fare è fondarle sulla rivendicazione etnica di una «napoletanità» perenne, su una «meridionalità» intesa, oltre le condizioni geografiche e storiche, oltre la fluidità culturale che agisce come fattore di continua trasformazione sull’identità e sull’auto rappresentazione delle popolazioni e nel tempo modifica anche sostanzialmente gli elementi dei nuclei etnici più consolidati.

Non si possono cioè contrapporre a delle astrazioni strumentali altre astrazioni. E giustamente il prof. Teti mette in rilievo quanto di superficiale e di strumentale vi sia, spesso, nel tentativo di riscoprire le cosiddette ‘radici’, riportando in onore eventi, storie, personaggi del passato –non importa se positivi o negativi- purché giudicati notevoli e in grado di alimentare un folklore, inautentico e senza radici, a fini  esclusivamente o prevalentemente turistici e affaristici, col rischio di produrre una «poltiglia identitaria» che non giova certamente al riscatto del Sud. Tanto più che a questa fatua tendenza si accompagna l’indulgenza dei ceti dirigenti meridionali verso il saccheggio e lo scempio delle vere risorse, dei veri beni culturali e ambientali, che costituiscono la  ricchezza del Sud.

E, allora, questa antologia, può costituire l’occasione per una riflessione, quanto più diffusa e corale,  dei meridionali  e dei calabresi sulle vie da intraprendere per colmare divari storici, che con l’Unità si sono evidenziati e accentuati, ma che hanno cause lontane. In primo luogo i meridionali devono liberarsi dal pregiudizio circa una loro supposta inferiorità, che è stato costruito per fini di predominio, ontologizzato da astrazioni pseudo scientifiche, e, purtroppo, fatto proprio e interiorizzato dalle popolazioni locali. Il  differenziale perdurante tra le «due Italie», che consiste, non già nell’assenza, ma in un più lento e faticoso sviluppo delle regioni meridionali, e di alcune in particolare rispetto ad altre, non è imputabile ad un deficit di energie e di capacità fisiche, pratiche ed  intellettuali, ma ad un complesso di condizioni oggettive avverse, tra le quali spiccano le politiche che lo Stato unitario, a conduzione «moderata», ha da sempre, salvo qualche eccezione, attuato per razionalizzare l’esistente, privilegiando la parte più favorita del Paese e imponendo un sistematico dissanguamento di risorse materiali ed umane alle regioni più deboli.

Se proprio vogliamo individuare responsabilità a carico dei meridionali, esse vanno individuate nella scarsa capacità di reagire ad un pregiudizio, che continua a circolare come un «luogo comune», o in reazioni improprie e inconcludenti ad esso. Vanno, cioè, individuate nella «labilità» degli orientamenti ideali, nel continuo oscillare tra il vecchio e il nuovo, negli atteggiamenti qualunquistici, che spingono, nei momenti decisivi delle scelte politiche, all’ indifferentismo, o, peggio, veicolano il consenso a supporto di un notabilato politico, da sempre, subalterno, connivente e complice delle pretese egemoniche dei ceti dirigenti del Nord.

______________________ 

(1)    I brani scelti e riprodotti da Vito Teti, con una premessa interpretativa,  indicano in modo esauriente e puntuale i temi e i termini della controversia che si svolse, a partire dal 1898, tra i seguaci di Cesare Lombroso, autore fra l’altro di un volume dal titolo In Calabria (1863-1897) – Alfredo Niceforo, Pasquale Rossi, Giuseppe Sergi- e i «meridionalisti» come Napoleone Colajanni, Ettore Ciccotti, Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato.