Da Europa dell'8 luglio 2014

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Tutta la Calabria è come Oppido Mamertina

di Vito Teti

Il j'accuse di uno dei più importanti intellettuali calabresi: «Per dare speranza alla regione bisogna partire da questa scomoda verità»

C’è una cappa mediatica e un’opa identitaria angusta sulla Calabria. Te ne accorgi quando vai fuori, in Italia e all’estero, e provi un senso di sollievo, misto ad amarezza, nel non leggere (su carta o su tanti siti web) commenti, riflessioni, retoriche identitarie che affossano la nostra regione, ne annullano il senso critico, un vero e problematico, sofferto, sentimento dell’appartenenza, incoraggiano alla lamentela, al rivendicazionismo immotivato, al rifiuto di ogni assunzione di responsabilità.

C’è un cerchio che non è nemmeno magico – non esistono leader autorevoli o progetti consapevoli cui legarsi – ma è soltanto una prigione, una trappola, un sotterraneo senza uscita. È fatto da commentatori, studiosi, giornalisti che, più o meno in buona fede, più o meno consapevolmente, più o meno legati tra di loro, si fanno portavoce di una calabresità pelosa. Siamo in presenza delle piccole vedette dell’identità proclamata, risentita, rancorosa, reattiva, mai propositiva, per qualcosa.

Provo a riassumere, in maniera riduttiva e schematica, le “tesi” che mi capita leggere su giornali, riviste, siti, facebook – che ormai stancano e sono anche illeggibili, nella loro ripetitività, nella loro inconsistenza analitica, nella loro incapacità di sguardo prospettico e di alimentare speranza a partire dal sé e non da quello che dicono gli altri. Cosa sostengono i portavoce dell’identità assediata? 1. La Calabria è oggetto di attacchi, incomprensioni, calunnie esterne e questo spiega la sua “arretratezza”, la sua marginalità. 2. Il problema della Calabria non è la ‘ndrangheta, non è la malapolitica, non sono i calabresi, ma sono gli altri, la stampa del Nord, chi non comprende una regione bella e ricca, accogliente ed ospitale. 3. La ‘ndrangheta del passato aveva dei valori popolari ed era anche risposta all’aggressione dei colonizzatori esterni. 4. La ‘ndrangheta è una continuazione del brigantaggio ed esprimeva anche i sentimenti di giustizia delle popolazioni. 5. Tutti i guai della Calabria e del Sud cominciano con l’unificazione nazionale: prima c’era l’Eden, lo “sviluppo”, la primitività genuina, adesso tutto è stato corrotto dagli altri, dai forestieri, dai nemici esterni. Come se la Calabria e il Sud non avesse partecipato, con i suoi ceti politici e dirigenti, al degrado, all’avvelenamento, alla corruzione del Sud e dell’intero paese. Come se scempi urbanistici, mancanza di tutela del territorio, incuria e incompiutezze, macerie e degradi non avessero visto come protagonisti interessati quanti poi piangono per la sfortunata e incompresa regione.

Potrei continuare a segnalare revisionismi localistici, letture infondate, asserzioni indimostrabili, affermazioni superficiali. Potrei ricordare come queste versioni tendono, di fatto, a legittimare la ’ndrangheta, a dare sempre alibi a “noi” contro gli altri, a occultare scempi e devastazioni compiute dai calabresi. La colpa è degli altri; la salvezza è all’indietro, nel buon tempo antico; noi calabresi siamo quasi “geneticamente” (razzismo alla rovescia) buoni, accoglienti e ospitali e siamo stati rovinati dagli altri: i piemontesi, lo Stato, il Nord, i partiti nazionali. La colpa non è della ‘ndrangheta, della politica clientelare, dei professionisti collusi, organici, capi clan, di gente asservita e che non si indigna. No, la colpa è assegnata a chi non ci comprende, a chi segnala le malefatte dei locali, a chi denuncia quotidianamente le ombre e le responsabilità delle popolazioni.

Giudici, studiosi, giornalisti seri che amano questa terra, ma non possono tacere, non possono assistere silenziosi non solo a questo degrado, ma anche alle spiegazioni che ne vengono date, spesso sono stati considerati traditori e calunniatori della loro terra, alla quale hanno dedicato, magari, una vita e, spesso, la vita. Il bersaglio dichiarato di molti commentatori è a volte la retorica dell’antimafia. Ora che l’antimafia abbia partorito anche interessi, spazi di potere, collocazione e visibilità poco edificanti, è sotto gli occhi di tutti. Ma ridurre l’opposizione vera alla criminalità sempre e comunque come un gioco di potere complementare alla delinquenza, diventa ingeneroso, calunnioso, pericoloso per quei giovani che non vogliono tacere, per magistrati e forze dell’ordine che sono in prima linea nel contrasto alla criminalità, per intellettuali, professionisti, gente comune che vivono nel rispetto delle regole, onestamente, e sono in prima linea nella difesa della legalità.

La parolina magica che accomuna tanti “maestri del pensiero”, notisti, fondisti è “garantismo” come se il garantismo possa diventare uno slogan, un invito ad assolvere i criminali e i loro sodali e sostenitori, e non una pratica democratica, una conquista civile e illuminata, valida sempre e per tutti. E invece i predicatori del garantismo sono garantisti con i giudici indagati e condannati, mai con i magistrati che contrastano il crimine, rischiando la vita, quotidianamente. Il garantismo è per quella Chiesa perdonista e predicatoria e non per quei parroci coraggiosi e veri che contrastano, nei fatti, non solo a parole, la criminalità e invitano alla legalità. Il garantismo è per gli imprenditori che rubano il danaro pubblico, sciupano i fondi europei, si arricchiscono nel giro di pochi mesi e mai per i giovani senza lavoro e che perdono il lavoro.

Il garantismo è sempre per i carnefici, mai per le vittime. Le garanzie vengono invocate, anche giustamente, per ogni cittadino, ma ci sono cittadini più degli altri. Se qualcuno ha commesso un reato, può stare più tranquillo di chi lo ha subito.

Adesso – dopo silenzi e omissioni della Chiesa – la presa di posizione e le parole profonde e vere del Papa mostrano che il Re è nudo, che non basta coprirlo con piccoli pannicelli sporchi, con commenti che ubbidiscono a interessi più o meno palesi, o semplicemente a bisogno di visibilità, al gioco di spararla grossa, ad analisi in cui si sostiene tutto e il contrario di tutto, a commenti nei quali, in maniera schizofrenica, si passa dall’indignazione parolaia estrema all’autoassoluzione più vergognosa. Adesso quanto accade ad Oppido – ma c’era bisogno di Oppido? Non bastavano i fatti di Sant’Onofrio e Polsi, le analisi e le descrizioni, pure di Sales, Saviano, Gratteri, Nicaso, Ciconte, Albanese, Baldassarro, Comito e tanti altri? – ci dice quanto radicate siano l’assuefazione, l’apatia, la confusione. C’era bisogno della voce di papa Bergoglio per fare capire come non sia possibile più nascondersi, ammiccare, giocare con revisionismi, informare in maniera tendenziosa, cedere alla lamentela. Credo che in molti dovrebbero almeno tacersi ed evitare, adesso, di dirci quanto ha ragione Papa Francecso e anche fare finta di stupirsi per Oppido. Tutta la Calabria, senza per questo dimenticarne bellezze e grandezza, generosità e slanci, è, purtroppo, in maniera diversa, una grande Oppido. Da qui bisogna partire, da questa dolente constatazione, da questa scomoda verità, se si vuole dare, davvero, speranza a questa terra.