Una Pasqua nicolese

Viaggio nell’antico rituale della Settimana Santa

di Domenico Teti

Non si sono ancora spenti gli ultimi bagliori del rogo di Carnevale, che già le campane, suonando "a corajisima", con quei tocchi aritmicamente cadenzati che significativamente ricordano il "mortorio", segnano, all’imbrunire del martedì "de l’azata", l’inizio del grande digiuno. Quaresima, tempo di astinenze, di mortificazione, di meditazione. Banditi lo scherzo, il riso, l’allegria, il canto. Per tutti i quaranta giorni, in chiesa, il predicatore venuto da fuori, ammonisce, esorta, intimorisce, rincuora. L’immagine dominante è quella del Crocifisso e della sua Madre dolente. E’ difficile descrivere l’intensità della devozione popolare verso la sofferenza di Cristo e di Maria. Padre Maffeo Pretto testimonia: "chi sapesse raccontare quanto il popolo calabrese ha amato il Crocifisso e l’Addolorata, racconterebbe la miglior parte della sua storia religiosa: sono state le devozioni più grandi". E’ intuitivo che entra in gioco un meccanismo d’identificazione: "piangendo il sacrificio dell’Agnello – scrive Franco Cardini – i fedeli piangono sulla loro povera umanità dolente, piagata per sempre dalla colpa di Adamo, da allora candidata a passare tutta attraverso la Porta Stretta".

I giorni particolarmente consacrati alla adorazione di questo mistero sono i Venerdì di Marzo: "tutti li venerdì di questo mese – annotava nel ‘600 P. Fiore – vengono celebrati con singolar pietà per quasi tutta la Calabria, per la memoria di Cristo Crocefisso, e morto in un di loro". E l’Autore degli Statuti della Congrega del Crocifisso specificava meglio: "ne i Venerdì di Marzo si facci ogni sera la Congregazione con devozione maggiore che nell’altri giorni, in memoria della Passione di Nostro Signore Giesù Cristo, il quale in uno di questi giorni spirò l’anima sul Tronco della Croce per i nostri peccati, e per quanto io credo da’ buoni autori fu in venerdì nella quale correvano li 25 di Marzo et era Plenilunio". Sono giorni di coronelle e litanie, di Vexilla Regis e di lugubri rintocchi di campane a "vintun’ura" – le tre del pomeriggio -. E lunghe sere, alla Congrega, di Miserere e Recordemini, di De Profundis e Anima Christi, di discipline battute con più o meno rigore su schiene già rotte dalla fatica, di salmodie latine variamente, talora comicamente storpiate, cantate a memoria e forse non comprese al cento per cento, ma certo più partecipate di certe preghiere di oggi che sembrano scritte da sindacalisti.

Arriviamo alla Domenica "de l’oliva", e ci accodiamo, tra gli enormi fasci di rami di ulivo inalberati dai campagnoli, alla processione che dalla Chiesa Madre sale al calvario, cioè alla "Cona de lu Signori, allu Carusu". Qui viene benedetta la "ramoliva" che entrerà in ogni casa, a capo di ogni letto, ma anche nelle stalle, nelle casette rurali, nei campi, "portandosi con felice augurio d’ubertosa fertilità e come con forti ripari da difenderli, sì dall’inclemenza de’tempi, sì da’ danneggiamenti degli animali, o altro simile; e più di una volta gli avvenimenti miracolosi hanno recato l’autentica alla religiosa credenza de’ popoli" (Fiore). La processione ritorna alla matrice e si colgono le prime avvisaglie di quella sorda ostilità che volgerà gli Osanna in Crucifige. Le porte del Tempio sono serrate. La Turba dei giudei, asserragliata all’interno, vuole arrestare il cammino trionfale del Messia (ovviamente ad impersonarlo è l’Arciprete). Tra le due parti s’intreccia un fitto dialogo – fatto naturalmente di salmodie latine – e non sai se è più credibile la partecipazione dell’Ufficiale di Posta, che accompagna il Parroco e rappresenta gli Apostoli, o quella di Mastro Liborio Telesa, sarto-sacrestano, che dall’interno tiene testa al suo superiore con una pervicacia tanto più eroica, in quanto predestinata a soccombere. Ad un certo punto, infatti, il Cristo perde la pazienza, e picchiando per tre volte sui battenti con l’asta della Croce, intima al demonio infernale (chi, se non lui sta sobillando l’odio giudaico?): "Aperi o Zzannapìu, ca si non aperi tu aperu eo!". Potenza della divina parola! Le porte si spalancano. E pazienza se, per un curioso effetto collaterale, il "devoto inno di lode" (Hosanna pium!) dell’originale latino si è trasformato nel nome del nemico di Dio.

Il momento cruciale della Messa solenne che segue è la proclamazione del Passio (il Vangelo della Passione), cantato e dialogato. Se corri in campagna a piantare la ramoliva benedetta prima che il canto del Passio termini, puoi star certo che essa diverrà un rigoglioso albero d’ulivo. E nessuno stupore, se in questo momento la natura deroga alle proprie leggi: il tempo del rito – come insegnano gli studiosi del sacro – è tempo sacro, giacchè il rito non solo rappresenta, ma anche ri-presenta l’evento commemorato. La Passione di Cristo non è semplicemente rievocata: avviene realmente ora, sotto i nostri occhi, e l’eccezionalità dell’avvenimento è tale da porre l’intero cosmo in uno stato di grazia. Analogamente, il pane della Cena (benedetto durante il rito del Giovedì Santo) sfugge alle leggi della materia e "non muca", non ammuffisce mai.

I giorni di Domenica delle Palme, Lunedì e Martedì Santo sono dedicati alla funzione de "li Corant’uri", cioè all’esposizione eucaristica protratta per circa quaranta ore. L’usanza, diffusasi a partire dal secolo XVI, ha avuto origine dall’adorazione dei "Sepolcri" pasquali (quaranta, infatti, furono le ore trascorse da Cristo nella tomba) e si caratterizza per la sua valenza riparatoria: non a caso la Chiesa ripropone nei giorni di Carnevale "la pubblica sposizione dell’augustissimo Sacramento; acciocché con la frequente visita di lui, fattagli da’ Popoli, raffreddasse il corso alle licenze carnevalesche" (Fiore). La Congrega assicura la guardia d’onore a Gesù esposto; anche se il rischio che Egli venga lasciato solo è certo minore che oggi.

Seguiamo meglio lo svolgimento dei riti nei giorni successivi ricordando che nell’uso canonico (a differenza che in quello civile) l’inizio del giorno è segnato non dalla mezzanotte, ma dal tramonto; quindi le funzioni officiate, ad esempio, la sera del Mercoledì Santo, vanno ascritte alla liturgia del Giovedì, e così via. Inoltre la proibizione di celebrare messa nelle ore pomeridiane (sancita dal Concilio di Trento) ha fatto arretrare la Veglia Pasquale – e quindi la Resurrezione di Cristo -, dalla notte del Sabato Santo, alla mattina, creando qualche sfasatura (sanata dalla riforma liturgica del 1960) nel calendario della Settimana Santa.

Così inizia la sera del Mercoledì – e prosegue nelle due sere successive – il rito delle tenebre ("li Tèlabri"). L’oscurità che avvolge la navata della Matrice è rotta solo dal fievole lume di quindici candele accese, infisse in un candelabro di forma triangolare (la saetta), posto al centro del presbiterio. Quindici volte, tante quanti sono i ceri, si leva e si smorza, nel ricamo di melodie latine, la voce robusta del Farmacista Teti; e ogni volta si smorza una fiammella. Quando al termine dei salmi, l’ultima candela viene portata, accesa in sagrestia, nell’oscurità ormai completa si leva un frastuono, proveniente dal retro dell’altare. La mente corre al movimentato arresto del Messia e alle percosse sofferte dal Prigioniero. "Questa è la vostra ora, il potere delle tenebre". L’assemblea si scioglie in un silenzio compunto.

La mattina del Giovedì Santo ci ritroviamo sul piano della Cutura, per seguire la processione degli Apostoli, che parte dalla Chiesa di San Nicola. Fa un certo effetto vedere quegli uomini anziani, dai volti bruciati e dalle mani incallite non meno di quelle dei pescatori di Galilea, intabarrati nei damaschi serici tirati fuori, per l’occasione, dalla "cascia" della dote. Tutti, meno uno, fasciato da una nera "tuvagghia de faglia", che cammina un passo dietro all’Arciprete-Cristo. E’ Giuda, il traditore. Lo interpreta Domenico Macedonia "Scattigna", e lo fa con maestria da teatrante: smorfie, gesti di scherno, e un continuo scuotere alle spalle del Salvatore la tintinnante borsa coi trenta denari del tradimento.

La rappresentazione della Cena avviene in P.zza Crissa, dopo la Messa cantata. Le vivande consumate dai protagonisti (pane, vino, arance; in seguito anche pesci fritti e agnello di pasta reale) vengono divise anche tra i fedeli. A Giuda viene servita doppia razione, a testimonianza del perdurante affetto del Redentore, nonostante il suo tradimento. Ma il demonio è ormai entrato nell’Iscariota, che si allontana prima della fine del banchetto, scagliando in terra il proprio bicchiere, in un gesto folle di odio e di disprezzo.

Il pomeriggio dello stesso giorno di Giovedì, entrando in chiesa, ti si apre davanti la suggestiva scenografia del Sepolcro, in cui Mastro Vito Telesa ha dato prova delle sue doti di "apparatore". Nell’irreale penombra, in cui la luce del giorno filtra a malapena attraverso i drappi purpurei che velano i finestroni, si staglia il candore dei lenzuoli drappeggiati ad arte sull’Altar Maggiore, che accolgono, al centro, l’urna lignea con le Specie Eucaristiche e la vetusta immagine del Cristo Morto, tra rami d’edera e piatti ricolmi di bianchissimo grano, appena germogliato. Tutt’intorno, la penombra si accende di fuochi multicolori: indovini che si tratta di lampadine poste dietro a recipienti di spesso vetro, riempiti di acqua colorata. A fornirli è stato Don Vito l’Ufficiale, che, sfidando i rigori del regolamento, ha letteralmente fatto a pezzi la pila del telegrafo.

E’ quasi sera quando, in una chiesa gremita all’inverosimile – i ragazzi si accalcano fin sui cornicioni – inizia la Predica di Passione, cavallo di battaglia di ogni buon predicatore, che qui dimostra di saper veramente commuovere, persuadere, spingere alla contrizione e a retti proponimenti. Ecco, si presenta all’inizio la Croce; ecco, nella seconda parte l’immagine pietosissima dell’ Ecce Homo, coronato di spine e rivestito di porpora. Ma il pathos non ha ancora toccato il culmine. Inizia il "terzo atto" della Predica. L’oratore ha già toccato le corde del sentimento, descrivendo con parole accorate la dolorosa morte del Signore. Ora ne rievoca la deposizione dalla Croce, e il suo tono sale e si fa più vibrante, mentre si chiede, appassionato: "A chi affideremo il Corpo martoriato del Redentore, se nessuno, neppure i suoi amici, gli è stato fedele sino alla fine? A chi, se non alla Madre?". Ti accorgi di non controllare il batticuore. "Vieni o Maria!" prorompe infine l’oratore, e macchinalmente scatti in piedi, mentre si spalancano le porte ed appare sulla soglia la dolente figura della Madre, nerovestita e coi capelli sciolti. Avanza lentamente, l’Addolorata, fino al pergamo dove riceve tra le braccia il Figlio morto, e ti accorgi che le lacrime, non più trattenute dai presenti, sono di pietà per Lei, per il Figlio, per se stessi. La sera tardi – e fino a notte inoltrata – senti riecheggiare per le strade i canti di dolore dei diversi gruppi di fedeli, che vanno visitando le Croci erette qua e là nell’abitato, o anche fuori di esso.

La mattina del Venerdì Santo si apre con quella che la Chiesa chiama "Messa dei Presantificati" (perché in questo giorno non si consacra, e alla comunione si distribuiscono le Specie consacrate il giorno prima), ma che il popolo, in considerazione di questa peculiarità, qualifica come "Missa storta" o "Missa avantarrede". Quindi si snoda per le vie del paese la solenne ed affollata Processione del Cristo Morto. La apre il fragore sordo delle tocche e dei carici (le campane sono "legate" dal Gloria del Giovedì Santo). Seguono le Congreghe dell’Addolorata e del Crocifisso, con gli stendardi abbrunati e reclinati a lutto; ogni confratello porta sul capo una corona di spine. Il clero precede l’antica, artistica vara, dove, in un letto di margherite e violacciocche, riposa l’effige del Redentore, e la statua dell’Addolorata. Dietro a questa procede il folto gruppo de li ‘ndolurati: sono donne che vestono lo stesso abito di lutto della Madre di Cristo, così esprimendo la propria partecipazione al dolore di Lei. Infine la banda precede la folla dei fedeli, e le marce funebri si alternano al canto accorato delle donne. A corteo concluso, il predicatore dal sagrato arringa ancora una volta i presenti; poi si entra in chiesa, per adorare Gesù morto secondo l’antichissimo rituale della Congrega.

Ci si ritrova nuovamente nella Matrice verso le tre del pomeriggio. Dalla porta principale si sente provenire l’inconfondibile canto di Mastro Liborio. Ed eccolo che incede, e lo intravedi appena, negli abiti stracciati, seminascosto com’è da un fitto intreccio di rami d’edera, dalla testa ai piedi. Impersona Jerènia Profeta – difatti ti rendi conto che sta cantando le bibliche Lamentazioni – e porta con sé un pezzo di pane de ‘ndianu ammuffito, un vozzareju con poca acqua e un piccolo fascio di legna. Giunto a metà della Chiesa, si avvicina all’acquasantiera della porta laterale. E’ vuota. Questo segno di lutto gli fa intuire che la divina tragedia si è consumata, e allora, colto da un impeto di dolore, scaraventa in mezzo alla navata il pane, l’orcio e la legna. Poi, sempre cantando lamentosamente, va a sparire nella sacrestia.

La lunga predica dell’Agonia, che ha inizio subito dopo (e tende ad avere la stessa durata del doloroso momento che rievoca, tre ore), è impostata sulla meditazione delle Sette Parole – le ultime sette frasi pronunciate dal Redentore moribondo – ed è intermezzata da cori che le commentano.. La Schola Cantorum – l’ha preparata e la dirige il sassofonista Ciccio Fera – esegue, accompagnata dai musicanti e sulle belle melodie composte dai maestri locali, canti dal testo ricco di sentimento, e talora di genuina poesia.

Si va infine a dormire, al termine di una lunga, intensa giornata, in cui si è stati spettatori, anzi quasi si è toccato con mano un dramma di portata cosmica. Domattina molti dovranno essere al lavoro dei campi. Molti saranno chini sulle zolle o intenti agli animali, mentre l’Arciprete benedirà, in piazza, il fuoco nuovo. Ma ugualmente si aprirà il cuore, quando si scioglieranno le campane – cala la Gloria! – e ognuno si inginocchierà a baciare la terra, mormorando una preghiera. La Vita, non la Morte, avrà prevalso. L’ostinata speranza che cova dentro avrà ancora un motivo per essere.