Da “Il Quotidiano” del 9 marzo 2005
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La memoria e l'anima della regione
Di Vito Teti
Un altro paese, un altro luogo dell’interno, un centro frana, se ne và, è a
rischio abbandono. Lo sgomento e l’amarezza aumentano perché sono accompagnati
da una sensazione di deja vu, di morte mille volte annunciate, troppe volte
perché non affiorino anche rabbia e disincanto. A leggere le immagini di
Cavallerizzo che scompare, una delle capitali della tessitura artistica
arbëreshe, vengono subito alle menti le cronache di Sharo Gambino degli anni
Cinquanta quando franavano e scomparivano i paesi delle Serre. Vengono alla
mente le riflessioni di Zanotti Bianco e di Giuseppe Isnardi che assistevano,
partecipi e addolorati, allo spopolamento di interi abitati, alla fuga
all'estero o lungo le coste di popolazioni che chiudevano per sempre le case, il
paese, le storie. Africo vecchia e Brancaleone superiore, Nardodipace e Cassari,
Sant'Angelo di Cetraro e Cleto, Badolato e S. Andrea Apostolo e l'elenco dei
paesi abbandonati o in abbandono potrebbe continuare a lungo. Le immagini di
apocalisse, di fine del mondo, di esodo, le scene di disperazione e di pianto,
la domanda se restare o scappare, se arrendersi o sperare, si ripetono ancora.
Appartengono alla nostra antropologia, di cui non sappiamo tenere conto, perché
negli ultimi tempi l'abbiamo ridotta a colore e a folklorismo e non abbiamo
saputo coglierla nelle sue luci e nelle sue ombre, nei suoi profondi contrasti.
E c'è da domandarsi, infatti, se lo "sfasciume" che ci circonda non sia
soprattutto il risultato delle dimenticanze e delle devastazioni dell'uomo, che
si sente onnipotente e ignora la forza della natura.
Dopo la catastrofe, dopo le immediate solidarietà e i buoni propositi di
circostanza, tornano i silenzi e le indifferenze. Gli amministratori e le
popolazioni locali che si sentono in pericolo, che conoscono il loro territorio,
lanciano l'allarme, gridano al pericolo, ma non vengono ascoltati. Così è
accaduto a Cavallerizzo. Adesso viene proclamato lo stato di calamità, ma la
calamità maggiore sono stati i nostri governanti, che non hanno saputo
prevenire, ascoltare. Siamo stati, purtroppo, abituati a vedere, in tanti
santuari, lo scorrere di fondi pubblici per false calamità, mentre i posti senza
padrini e senza padroni non hanno avuto udienza. Esiste un lungo elenco di tante
opere inutili avviate e mai ultimate, ruderi inquietanti postmoderni, e più
lungo è l'elenco di opere utili, necessarie, mai pensate, mai avviate, mai
compiute. Abbiamo una lunga esperienza dei gruppi politici dirigenti nazionali e
locali che, come diceva Alvaro, sono stati capaci di prosperare anche sulle
catastrofi e sulle disgrazie della gente. Conosciamo chiacchiere e promesse al
vento di quanti hanno rincorso altri modelli di sviluppo, hanno confuso
modernità con cementificazione delle coste e abbandono dei paesi dell'interno.
Chiacchiere e distintivi (come dice De Niro in un film) di quanti hanno
consentito la devastazione del territorio, di quanti hanno permesso che i
pilastri ficcati sul mare come moderne palafitte di "nuovi selvaggi", l'altro
volto dell'abbandono delle zone interne. Pratiche miope e interessate di chi ha
voluto sempre l'uovo oggi (magari per i parenti ed i clienti) e non ha compreso,
non ha voluto comprendere, che quando si abbandonano al loro destino paesi
dell'interno, costruiti con una razionalità che ha significato sapiente utilizzo
dello spazio e degli elementi, le fiumare, prima o poi, scendono e trascinano
tutto, provocano disastri come quelle di Soverato, rendono angusto e precario
anche il difficoltoso "ritorno" sul mare della popolazione. Nitti ed Alvaro
hanno scritto pagine di grande efficacia sulle frane sempre pronte a creare
voragini e lutti, sulla potenza distruttrice delle acque e dei piccoli ruscelli,
sui paesi sempre trascinati e sempre con la capacità di rinascere. Gli uomini
politici, si sa, non hanno avuto tempo per leggere, tanto meno per riflettere.
Ed eccoli i risultati di tante enfasi e retoriche su Por, Pis, Pit occasioni
sprecate dal più inetto governo regionale della nostra storia. Ammiriamoli i
risultati di tante celebrazione del Ponte e delle Grandi Opere: la Calabria,
diversamente dal passato, è sempre l'eterna incompiuta. Negli ultimi tempi tanti
luoghi antropologici, con una loro storia, con una loro anima, sono diventati
dei "non più luoghi" o dei "non ancora luoghi". Un profondo sconvolgimento
geografico, geologico, mentale, antropologico. Nell'indifferenza quasi generale,
spesso con la sottovalutazione del problema, anche da parte degli interessati.
Non sono mancati e non mancano persone, uomini, politici, uomini di chiesa e
uomini di cultura che da anni si oppongono a questo stato delle cose. Sono stati
e sono, però, voci isolate, in controtendenza, liquidate spesso come passatiste
e nostalgiche. Anche tanti esteti dell'identità calabrese, intesa in maniera
neo-romantica, non hanno avuto molto tempo ad accorgersi che la "bella Calabria"
di cui parlano spesso non esiste più, rischia di scomparire per sempre.
Scompaiono i paesi e prospera la retorica identitaria, proliferano le
sdolcinatezze sulla "calabresità", termine ambiguo ed ingombrante che indica
tutto e il contrario di tutto, e intanto gli abitanti di Cavallerizzo, emblema
delle nuove devastazioni della Calabria, fuggono sono costretti alla fuga,
piangono le loro case perdute per sempre, vivono la fine del loro mondo. E
mentre si susseguono incessanti i convegni sul turismo culturale e sugli
itinerari religiosi, la natura, con la complicità degli uomini, ci ricorda che
abbiamo ben poco da proporre: quali itinerari e quali abitazioni, e per quali
turisti, potremo inventare se le zone interne stanno diventando dei deserti,
degli spazi vuoti e solitari, se chiese, palazzi, castelli, opere d'arte stanno
crollando, franano, vengono lasciati in rovina. E mentre si approvano le leggi
sulla tutela delle minoranze linguistiche (in maniera tardiva e anche in maniera
strumentale) non ci si accorge che stanno scomparendo non solo le lingue e i
dialetti, ma gli stessi paesi dove quelle antiche lingue venivano parlate. La
mappa dei paesi grecanici ormai ci consegna un insieme di paesi abbandonati:
Glorio, Roghudi, S. Lorenzo sono i casi più dolorosi, drammatici e noti. Anche
quelle comunità arbëreshë, che in qualche modo, erano state salvate dalla
violenza improvvisa della natura, adesso stanno cedendo. Il loro progressivo
spopolamento accelera il degrado, che non sempre è esito della violenza della
natura. Il degrado provoca abbandono, l'abbandono provoca degrado e nessuno
riesce a interrompere questo circolo vizioso. Lo sfasciume è anche, se non
soprattutto, il prodotto degli uomini, di scelte e non scelte compiute ieri e
oggi. Dai paesi della Valle del Crati e da quelli del Pollino arrivano continui
grida d'allarme per un inarrestabile declino e per un abbandono che non si
riesce ad arrestare. Ho segnalato di recente che in provincia di Cosenza, vivono
una situazione di spopolamento molte comunità arbëreshë e tanti centri antichi,
ricchi di tradizioni culturali e di storia. Pianti di dolore giungono, anche sui
giornali, da Macchia Albanese e persino da S. Demetrio Corone. Tutto questo in
un'area di abbandono che va da S. Donato di Ninea ai paesi dell'entroterra
tirrenico e jonico, da Cerchiara ai paesi del Pollino. Due terzi dei paesi
interni della regione sono a rischio spopolamento, a rischio estinzione. Quasi
mai per scelta, quasi sempre per incuria, per dimenticanza, per inadempienza.
Certo qualcosa si è fatto, qualcuno si è mosso. Non sono mancati gli studiosi e
gli intellettuali che hanno continuato a parlare di paesi e di montagna, nel
periodo dell'ubriacatura modernista, delle cementificazioni selvagge. E, tanto
per fare un esempio, nell'area albanese della provincia cosentina, grazie
all'impegno dell'Amministrazione Provinciale di Cosenza e all'iniziativa di
alcuni docenti (in primo luogo Franco Altimari) dell'Università della Calabria i
paesi albanesi hanno un loro "sportello", dove giovani diplomati e laureati (un
buon esempio di come si possa creare nuova occupazione investendo sull'identità,
intesa in maniere non angusta) raccolgono dati, forniscono informazioni,
sostengono iniziative culturali e produttive. E' stato costituito di recente,
presso l'Università della Calabria, un Centro Studi e Iniziative "Entroterre"
che si pone il problema dell'abbandono e della rinascita dei paesi. Si tenta,
così, anche con tanta passione e con contagioso entusiasmo, di salvaguardare un
antico patrimonio storico, culturale e linguistico. Si spera così di dare voce e
visibilità ai luoghi che sognano la rinascita. Bisogna dire, però, che queste
meritorie iniziative non bastano. Vanno incoraggiate con forza. C'è bisogno di
altro. Di un grande progetto politico, di un patto tra le mille Calabrie
geografiche, culturali, politiche. C'è bisogno di una Calabria capace di
pensarsi come un unico territorio, come una città. Servono altri impegni, altri
fondi, altri progetti, anche altre parole. Una leggenda, riportata dagli
studiosi locali, dice che Cavallerizzo è stata fondata da un giovane cavaliere
che, dopo aver rapito una bella fanciulla, sarebbe scappato dal castello del suo
padrone e poi si sarebbe fermato in un luogo isolato nella montagna. Oggi
rischia di essere rapito il paese: i nuovi castellani vanno consumando la loro
vendetta. La montagna non è più luogo di vita, ma è stata trasformata in terra
di nessuno. I giovani, soprattutto loro, debbono "rapire" saperi e conoscenze,
capacità progettuale, per riportare la vita nelle zone collinari e montane.
Ho letto le dichiarazioni dei candidati a governatore. Facciano dei passi
ulteriori, coerenti con la loro solidarietà, credibili e impegnativi. Vadano in
pellegrinaggio a Cavallerizzo, si assumano anche le responsabilità di chi li ha
preceduti, compiano un gesto altamente simbolico per dire che la rinascita della
Calabria non sarà possibile se scompariranno questi luoghi. Modifichino la loro
agenda elettorale, con i candidati del listino, con tutti i candidati, celebrino
un "consiglio" regionale, aperto, "virtuale", che suoni come un impegno. C'è
bisogno di fantasia, di coraggio, di dire cose scomode. Portino la loro
solidarietà e chiedano sostegno e assistenza immediata. Lascino ai leghisti la
paura di pronunciare la parola solidarietà. Dicano delle parole vere e chiare
sulla montagna e sul Ponte, sulla tutela e sulla valorizzazione del territorio e
dei beni paesaggistici e culturali, su cosa intendano per innovazione, sull'idea
che hanno della Calabria, su come intendano misurarsi con un moderno sistema
paesi da legare al sistema delle città e delle marine, al Mediterraneo e al
mondo esterno. Non pronuncino discorsi di maniera. Non parlino astrattamente di
moralità, dicano che i paesi interni pongono un problema di civiltà e di nuova
etica. Gli abitanti delle zone interne non hanno alcuna nostalgia del passato,
non esprimono rimpianti per il buon tempo antico, non vogliono abitare luoghi
irrecuperabili, hanno una nuova consapevolezza delle loro risorse, ambientali ed
umane, aspirano ad un diverso futuro. Nel periodo della riscoperta del locale,
di nuovi stili di vita, di nuove filosofie dello spazio e del tempo, di nuovi
prodotti, le nostre antiche disgrazie potrebbero diventare risorsa. Non sarà
facile ricostruire Cavallerizzo, eppure bisogna fare di tutto perché continui a
vivere: questo chiedono, con dignità e con speranza, con forza e con orgoglio, i
suoi abitanti. I paesi dell'interno non vogliono e non possono morire: con loro
finirebbe la storia, la memoria e l'anima della Calabria, finirebbe la speranza
di una nuova Calabria.