PROFILO STORICO DI SAN NICOLA DA CRISSA (VV)

TRA STORIA, CULTURA, ECONOMIA E TRADIZIONI

di Antonio Galloro  

 

1. DESCRIZIONE GEO-TOPOGRAFICA E NATURALISTICA

San Nicola da Crissa, comune della neo provincia di Vibo Valentia, è un paese che si trova adagiato sui contrafforti sud-occidentali di quella parte della dorsale appenninica calabrese, conosciuta meglio con l’appellativo di “Serre catanzaresi”, che digrada verso il mar Tirreno.

È addossato alla ripida scarpata di un ampio terrazzo, che, quale prosecuzione a nord del sovrastante Monte Cucco (958 m), declina verso il Golfo di Sant’Eufemia, e gravita all’interno del bacino idrografico dell’Angitola (G. Valente, Dizionario dei luoghi della Calabria, Chiaravalle Centrale [CZ], 1973, vol. II [M-Z], pag. 913, sub voce; S. Donato, Sviluppo sostenibile e trasformazioni del territorio, Reggio Calabria, 1998, pag. 43 e segg.).

L’intero nucleo abitativo del nostro luogo è delimitato da due valloni: uno posto sul lato nord-est, dentro cui scorrono le acque del torrente Fellà (ma anche Fallà), l’altro ubicato su quello sud-ovest, denominato, nelle relative carte topografiche, “Fosso di Gianferrante” (per i Sannicolesi “Giamperrante”), probabilmente dal nome di un antico feudatario locale, ma meglio conosciuto in situ come “Ddorico”, con allusione, forse, ad un altro non meglio specificato proprietario terriero (tal “don Enrico”?).

Nel canale o solco fluviale “Ddorico” fluisce un ruscello, composto prevalentemente da acque sorgive, che, nel periodo invernale, vengono ingrossate da quelle piovane provenienti dalla parte alta del paese, dopo essere state opportunamente convogliate.

Appare superfluo sottolineare, a questo punto, come gli abitanti del borgo, nei secoli passati, quando ancora non potevano fruire degli innegabili vantaggi apportati dal servizio idrico domestico, si siano serviti di questi due corsi d’acqua e di altri prossimi all’abitato, per soddisfare i loro primari bisogni quotidiani, sia quando la preziosa sostanza liquida era utilizzata sul posto per il lavaggio della biancheria, l’irrigazione dei poderi circonvicini coltivati, la pulizia del proprio corpo, ecc., sia allorché veniva trasferita in casa, a costo di pesanti fatiche fisiche, per uso alimentare o igienico-sanitario.

Dal punto di vista naturalistico, San Nicola da Crissa è inserito in un ambiente il cui paesaggio è ancora dominato dalla considerevole presenza di vasti e folti boschi, prati fioriti e pascoli verdeggianti, e studiosi del settore, con la collaborazione del World Wildlife Fund (WWF), hanno rilevato molto giustamente che, all’interno del suo territorio, «la montagna si ammanta di grandi esemplari di leccio e castagno» (F. Pratesi-F. Tassi, Guida alla natura della Puglia, Basilicata e Calabria, Milano, 1979, pag. 206).

Per quanto concerne l’altitudine, esso è posto a 510 m sopra il livello del mare, ma, poiché è ubicato su un costone dall’andamento irregolare ed in forte pendio, è possibile riscontrare, tra la parte più bassa dell’abitato e quella più alta, dove solo di recente si è registrato un modesto sviluppo urbanistico, una differenza di quota altimetrica o dislivello che supera abbondantemente i 100 m.

Il fatto, poi, che il suo primo nucleo abitativo sia stato fatto sorgere volutamente lungo gli scoscesi fianchi collinari di una montagna, piuttosto che sulla sua contigua parte alta e pianeggiante (i cosiddetti “Piani”, posti tra San Nicola da Crissa ed il vicino borgo di Vallelonga), lascia pensare molto verosimilmente che i suoi fondatori, in maniera alquanto oculata, si siano maggiormente preoccupati di insediarsi in un luogo, che, seppure poco felice a causa della sua particolare conformazione geomorfologica, poteva ritenersi, però, più salubre climaticamente.

L’attuale sito, infatti, è collocato al riparo dall’infuriare del vento e dall’imperversare della nebbia provenienti dal Monte Cucco.

Quest’altura, vuoi per la sua considerevole altitudine e vuoi anche perché costituisce, nel sistema orografico dell’intero territorio in cui essa insiste, il più aperto valico di collegamento tra i due versanti costieri calabresi, il tirrenico e lo jonico, spesso meteorologicamente opposti, è da sempre flagellata da condizioni atmosferiche molto inclementi.

Nell’Apprezzo dello Stato di Soriano, redatto nel 1650 dal regio ingegnere fiscale A. Tango per conto della Corte spagnola, è detto che il nostro paese «è d’aere meglior dell’altre Terre per stare esposto á mezzo giorno, et in altura (e) tiene detta Terra buon’acqua con più fontane fredde d’estate» (A. Barilaro [a cura di], Apprezzo dello Stato di Soriano in Calabria Ultra [del] 1650 di A. Tango, Oppido Mamertina [RC], 1982, pag. 145).

Proprio perché il nostro casale si trova adagiato sopra un vasto ripiano naturale, esso è in grado di offrire agli abitanti del luogo ed ai visitatori forestieri, in qualsiasi sua parte essi si collochino, la vista di un paesaggio di vero incanto.

È possibile, infatti, spingere lo sguardo fino ad abbracciare, con un’unica orbita visiva, il bacino idrografico del Mesima e quello dell’Angitola, per non dire che, nelle giornate più chiare e luminose, si riesce persino a vedere l’estrema punta nord-orientale della Sicilia ed il vulcano Etna.

Si racconta che il re Ferdinando II di Borbone, essendo un giorno capitato nell’attuale Piazza Crissa, estasiato davanti ad un così straordinario spettacolo della natura, abbia definito l’intero nostro villaggio «balcone delle Calabrie».

Non conosciamo quando quest’evento possa essere avvenuto, se cioè nel 1833, allorché per la prima volta «Ferdinando II visita la Calabria e s’inerpica fino a Serra S. Bruno con tutto il suo numeroso ed eterogeneo seguito, [….] (per presenziare alla) inaugurazione della Ferdinandea, fonderia succursale di Mongiana»  oppure nell’ottobre del 1852, quando ha deciso di ispezionare a sorpresa la nuova fabbrica di armi di Mongiana, realizzata in sostituzione di quella che era stata distrutta due anni prima da una disastrosa alluvione (B. De Stefano Manno-G. Matacena, Le Reali Ferriere ed Officine di Mongiana, Napoli, 1979, pagg. 55, 63-64; R. De Cesare, La fine di un Regno, Napoli, 1969, vol. I, pagg. 17, 29-33).

Sappiamo per certo, però, che «il 16 ottobre 1852, [….] a San Nicola da Crissa (la sottolineatura è nostra ed è stata apposta per evidenziare l’anacronismo della dizione), dove incomincia più ripida la salita, quasi a mezza via fra l’Angitola e Serra, il corteo si fermò presso la magnifica sorgente delle cento fontane. Il re scese a bere (ed a mangiare, poiché, essendo prossimo il mezzogiorno, sentiva appetito) e n’è rimasta la memoria» (Ibidem, pagg. 32-33).

E’ assai probabile, dunque, che, in questa medesima circostanza, invitato a visitare San Nicola dalla stessa popolazione in festa che lo aveva accolto all’ingresso del paese, abbia voluto onorare, con la sua augusta persona, il nostro misero luogo e, una volta entrato nell’abitato, sia stato  condotto nella piazza antistante alla Chiesa Matrice.

 

2. ORIGINE STORICA

Volendo ora ricostruire, succintamente, le origini storiche del nostro villaggio, è opportuno sottolineare come la sua fondazione risalga, al pari del resto di quella di molti altri luoghi calabresi, all’età altomedievale, più precisamente al periodo della dominazione bizantina (VII-IX sec. d. C.). Secondo il nostro parere, esso non è sorto direttamente «come casale della Baronia di Vallelonga», come sostiene G. Valente, anche se poi per lunghi anni ha vissuto questa condizione di subalternità, ma deve ritenersi piuttosto il risultato della presenza di monaci basiliani (G. Valente, Dizionario dei luoghi della Calabria, cit., vol. II [M-Z], pag. 913, sub voce).

Questi religiosi, infatti, provenienti dall’Oriente cristiano (prevalentemente dalla Grecia, Siria, Egitto, Palestina) e dalla Sicilia, invasi in quel tempo dagli Arabi, hanno deciso di rifugiarsi nelle nostre silenziose contrade, per sfuggire alle persecuzioni ereticali ed alla dominazione musulmana, le quali, oltre a mettere in serio pericolo la propria vita, minacciavano soprattutto di far scomparire la loro cultura, di cui erano gelosi custodi e che intendevano conservare a lungo integra.

I pazienti lettori vogliano perdonarci questa breve digressione, ma non possiamo non ricordare che è stato proprio in questo particolare periodo storico che la nostra regione ha perso il suo antico nome di “Brutium”, per assumere quello di “Calabria”, con cui si designava nell’antichità l’odierna penisola salentina, corrispondente, in Puglia, al cosiddetto “Tallone d’Italia” (M. Schipa, La migrazione del nome “Calabria”, in “Archivio Storico della Calabria”, Anno I [1912-1913], pagg. 7-24: L. Gambi, Calabria, vol. XVI della collana Utet “Le regioni d’Italia”, Torino, 1965, pag. 4).

Giunti qui da noi, i Seguaci di San Basilio hanno subito creato numerose comunità monastiche (“laure”), in cui conducevano una vita rigorosamente eremitica.

Ben presto, però, attorno ai loro monasteri sono sorti i primi agglomerati di case, destinate ad ospitare profughi, agricoltori e pastori, desiderosi di stare vicino a quei religiosi, non solo per soddisfare un intimo bisogno spirituale attraverso una costante cura della propria anima, ma anche per imparare, dall’osservazione diretta della loro laboriosa vita quotidiana, il modo di eseguire alcuni lavori, che si rendevano estremamente necessari per partecipare concretamente alla vita della comunità ed assai utili per meglio difendersi dalle continue minacce di un’ostile Natura (D. L. Raschellà, Saggio storico sul monachesimo italo-greco in Calabria, Messina, 1925, passim; P. Orsi, Le Chiese basiliane della Calabria, Firenze, 1929, passim; B. Cappelli, Il monachesimo basiliano ai confini calabro-lucani, Napoli [collezione storica della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, vol. III], 1963, passim).

E’ così che i nostri antenati hanno imparato o affinato la tecnica per lavorare i campi devastati ed incolti, al fine di renderli ubertosi e predisporli alla coltivazione di messi, uliveti e vigneti; allevare gli animali domestici, da impiegare nei pesanti lavori agricoli e da cui ricavare cibo e indumenti; costruire case e sistemare strade; canalizzare le acque ed arginare quelle impetuose delle fiumare; risanare i luoghi paludosi ed infetti dalla malaria; coltivare il gelso ed allevare il baco da seta (F. Albanese, Storia di S. Onofrio di Chao, Polistena, s. d., pagg. 8-17).

Tutto questo, senza dimenticare che veniva offerta loro un’occasione più unica che rara per venire a contatto con mestieri od occupazioni artigianali di cui prima ignoravano addirittura l’esistenza, e, qualche volta, limitatamente a quelle poche persone che si mostravano idonee ad accostarsi ad un’assai elementare forma di istruzione e disposte a recepirla, per apprendere i rudimenti del saper leggere, scrivere e far di conto, essendo quei monaci dotati di un’elevata dottrina e cultura.

Ciò non deve sorprendere, ove si pensi che anche la Regola di San Basilio, cui i suoi monaci dovevano uniformarsi, ricalcava perfettamente lo spirito di quella di San Benedetto da Norcia (Ora et labora).

Per gli appartenenti ad entrambi gli ordini monastici, infatti, l’Amore verso Dio consisteva nell’armoniosa fusione tra preghiera e meditazione, da una parte, e vita attiva e laboriosa, dall’altra, nella sapiente coniugazione della pratica religiosa, caratterizzata da un atteggiamento ascetico e penitenziale, con un’intensa attività operosa e lavorativa per se stessi e, specialmente, per l’indigente collettività circostante.

Sono nate, in tal modo, delle «piccole comunità popolari a livello agricolo, di cui i monaci non rappresentavano solo la guida religiosa e spirituale, ma l’epicentro intorno a cui gravitava tutta l’organizzazione sociale della collettività nei suoi vari aspetti: da quello culturale a quello agricolo» (F. Lacava Ziparo, Dominazione bizantina e civiltà basiliana nella Calabria prenormanna, Reggio Calabria, 1977, pag. 101, ma anche 78-79, 106-111).

Domenico Teti, in un suo interessante saggio in argomento, pubblicato esattamente dieci anni fa, ricorda che «la Calabria fu oggetto di una vera e propria pacifica invasione da parte di questi uomini di Dio, in cerca di luoghi tranquilli e solitari, in cui compiere il proprio cammino di santificazione» (D. Teti, Quei monaci, nostri antenati, in “La Barcunata”, periodico della “Pro Loco” di San Nicola da Crissa, anno I [1995], n. 1, pag. 3).

L’acuto Studioso di problemi religiosi sannicolesi tenta, poi, di «ricostruire con sufficiente plausibilità» la storia dell’insediamento dei monaci basiliani nel nostro sito ed argomenta che il conio di alcuni termini dell’antica toponomastica sannicolese, indicanti rioni tuttora esistenti, come “Monacella”, “Cutura”, “Tripona”, ecc., potrebbe essere riferito proprio a questa lontana presenza basiliana ed alle particolari condizioni ambientali e naturali, in cui la nostra Terra anticamente si è presentata ai loro occhi.

La stessa primitiva denominazione del luogo, “Santo Nicola de junco” (altre dizioni: “della Junca” o “de Juncis”), al di là di qualsiasi altra motivazione di ordine paesaggistico che non può non richiamarci alla mente, per la particolare natura del suolo e la vegetazione che lo rivestiva, la presenza in situ di acquitrini e giuncaie (da qui anche la provenienza del termine “Pantano”, corrotto in “Pontani”, per ricordare un rione ancora oggi abitato), contiene nascosto in questa sua specificazione toponimica (“de junco”) un significato simbolico di grande rilevanza morale, in quanto la pianta del giunco, nella tradizione cristiana, rappresenta, per la sua flessibilità, l’immagine della santa umiltà, ideale per ogni monaco.

I nostri avi, dunque, a questo loro primo insediamento abitativo hanno dato il nome di “San Nicola”, denominazione, questa, che trarrebbe origine dalla prima chiesa conventuale ivi edificata, la quale, a sua volta, «prende il nome dal Santo più amato da tutta la cristianità, il “Padre Gerarca Nicola”, che  da quel momento diviene l’amatissimo  protettore del luogo» (Ibidem, pag. 12).

In età bassomedievale, cioè dopo l’anno Mille, della storia del nostro paese si conosce assai poco, poiché tutte le vicende in cui è stato in qualche modo coinvolto o di cui è stato protagonista sono contenute in carte archivistiche, che ancora devono essere pazientemente rinvenute ed attentamente e rigorosamente esaminate.

N. A. Mannacio, ad esempio, nell’informarci che «nel 1134 S. Nicola era denominato S. Nicola della Junca (o de Juncis), [….] come si rileva dallo stesso manoscritto dei due Missionari [….] mandati qui perché richiamassero il popolo alla luce della Fede, e potesse, così, essere annullata la scomunica comminata sin dal 1130 circa», non trascura di porre l’accento sul fatto che poco dopo, cioè «nel 1139 [….] era membro della Terra di Vallelonga» (N. A. Mannacio, S. Nicola di Crissa e i suoi capolavori, Napoli, 1965, pagg. 19-21).

La puntualizzazione storica del Mannacio tende a dimostrare come, nel volgere di pochi anni, il primitivo nome “Santo Nicola della Junca” (o “de Juncis”) si sia trasformato in quello più articolato di “Santo Nicola della Terra di Vallelonga” o, più semplicemente, “Santo Nicola di Vallelonga”.

Molto probabilmente, l’ulteriore specificazione “della Terra di Vallelonga”, che era riuscita a scalzare quella originaria “della Junca”, mirava a sottolineare, in buona sostanza, l’appartenenza feudale di San Nicola a questo centro urbano ad esso assai vicino, dove del resto dimorava il signore del feudo in un palazzo gentilizio o castello.

Lo attestano, inequivocabilmente diversi importanti atti ufficiali di indubbio valore storico, in cui si trova riportata l’indicazione “di Vallelonga”.

Ad esempio, nel ragguardevole studio di D. Vendola, riguardante il pagamento alla Chiesa delle decime da parte dei presbiteri del tempo, il nostro luogo, relativamente all’anno 1310, è menzionato con il nome di «S. Nicolai de Valle Longa» (D. Vendola, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Apulia-Lucania-Calabria [Studi e Testi, 84], Città del Vaticano, 1939, pag. 283, doc. n. 4009).

Nella stessa Relazione ad Limina che il cardinale Felice Centini, vescovo di Mileto, ha inviato al Sommo Pontefice nel 1612, è detto, molto chiaramente, che «la Contea di Vallelonga, oltre al paese, che per l’ingiuria dei tempi è quasi distrutto, comprende i villaggi di Vazzano con mille rurali, di Pizzoni con 1.300 abitanti, e infine S. Nicola» (T. Mannacio, La Confraternita del Crocifisso, Vibo Valentia, 1993, pag. 17).

Né, tanto meno, deve stupirci il fatto che una persona colta ed erudita come il giureconsulto Gian Giacomo Martini, abate curato di San Nicola nella prima metà del Seicento, nonché vicario generale del summenzionato Card. Felice Centini, non lasci trasparire all’esterno più del dovuto, per comprensibili ragioni di discrezione e buon senso, la soggezione della sua «dulcis patria» alla contigua Vallelonga.

Infatti, dopo essersi qualificato, nel lungo titolo della sua unica opera pubblicata e di cui si dirà più approfonditamente in seguito (Consiliorum, sive responsorum iuris…, Sancti Nicolai, 1635), come cittadino nato «a Sancto Nicolao a Junca», sostiene sì, all’interno del suo stesso lavoro, che il casale di «Santo Nicola [….] si trova in territorio di Vallelonga» (pag. 8, cons. n. 15), ma lo fa in una maniera così blanda e vaga, lieve e generica da indurre qualsiasi lettore a pensare che si tratti di una semplice precisazione, avente solo il valore di riferimento geografico e nessuna rilevanza giurisdizionale (T. Mannacio, La Confraternita del Crocifisso, cit., pag. 239; V. Capialbi, Memorie delle tipografie calabresi, II ediz. a cura di C. F. Crispo [I ediz. Napoli, 1835], Roma, 1941, pagg. 54-55).

Questa riservatezza, però, viene rotta, allorquando il Nostro decide di difendere i legittimi diritti dell’Università di San Nicola a Junca contro la Terra e l’Università di Vallelonga.

Avendo, infatti, i due paesi, proprio perché contigui, in comproprietà dei beni naturali, come boschi, campi, fiumi, ecc., il Martini si domanda se non sia giusto che gli abitanti di San Nicola a Junca godano dei benefici derivanti dal comune possesso di tali ricchezze spontanee del creato, al pari dei vallelonghesi, senza per questo dover pagare i relativi tributi a Vallelonga, di cui il loro luogo è casale.

Egli chiede, pertanto, che venga riconosciuto ai Sannicolesi il pieno diritto di poter fruire liberamente dei prodotti delle selve (legna, ghiande, castagne, funghi, ecc.) e dei campi (pascoli per il bestiame, erbe d’ogni genere da mangiare cotte o crude) che si trovano tra le due Terre, compreso l’utilizzo delle acque fluviali o d’altra natura (Consiliorum…., pag. 17, cons. n. 86, 87 e segg. : «libertas aquandi, alligandi et pascendi»).

La formulazione di siffatte domande nasconde in sé una ben più amara verità e cioè che i rapporti sociali tra i due paesi erano tutt’altro che cordiali e la causa di tanta tensione andava ricercata, più che nel tradizionale antagonismo che spesso nasce tra due luoghi viciniori, nella pretesa supremazia della comunità vallelonghese, che non perdeva occasione per esternare forme di arroganza e prepotenza ai danni di quella sannicolese.

Non stiamo dicendo alcunché di strano, ma ci limitiamo a rilevare ciò che la storia dei popoli quotidianamente ci insegna e cioè che molto spesso vicinitas discordiarum causa est, per le assurde rivalità e forme di invidia e gelosia che è capace di suscitare nell’animo umano.

Un uomo sensibile e di grande tempra morale come il Martini deve aver vissuto questa situazione di contrasto tra i due casali con molta sofferenza morale e ciò non tanto per un pur comprensibile orgoglio municipalistico, diretta conseguenza del suo forte attaccamento al luogo natio, quanto piuttosto perché si sentiva gravemente offeso, come persona, uomo di Chiesa e studioso di diritto, da quelle forme di ingiustizia sociale e di violazione dei più elementari «iura civitatis (sannicolensis)», le cui ragioni ed interessi intendeva per questo difendere.

Tornando al discorso interrotto relativo al rapporto feudale tra Vallelonga e San Nicola, la Curia romana, in un atto ufficiale datato «Gennaio 1601» in cui si parla proprio «de parochiali ecclesia S. Nicolai [….] (et) Io. Iacobo de Martino, clerico oriundo», definisce, con quella proprietà linguistica di tipo giuridico che le è propria, il nostro paese «districtus terrae Vallelungae», dove il termine «districtus» equivale a “contado”, cioè ad un territorio sottoposto all’autorità di un conte o al dominio di un altro feudatario (F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, Roma, 1979, vol. V, pag. 290, doc. n. 25653).

Se, però, assumiamo come terminus a quo della subordinazione feudale di San Nicola nei confronti di Vallelonga, protrattasi poi per diversi secoli, l’anno 1139, quale lettura bisognerà dare ad un documento della “Cancelleria Angioina”, datato 1278, in cui è detto che esso era «casale di Rocca Niceforo», considerato che, in quel tempo, tre luoghi calabresi portavano lo stesso nome di Rocca (di) Niceforo? (Accademia Pontaniana, I Registri della Cancelleria Angioina, a cura di R. Filangieri, vol. XX [1277-1279], Napoli, 1966, pag. 252, doc. n. 683).

Ora, esclusa, per ovvie ragioni di distanza, la terza Rocca Niceforo, posta nelle immediate vicinanze di Tiriolo e divenuta poi Rocca Falluca, bisognerà fare i conti con le altre due rimaste.

Noi, in verità, riteniamo, sulla base di fonti documentarie inoppugnabili, che la Rocca Niceforo della fonte angioina sopra richiamata debba necessariamente essere identificata con Vallelonga (D. Taccone-Gallucci, Regesti dei Romani Pontefici per le Chiese della Calabria, Roma, 1902, pag. 360, nota n. 166; Idem, Monografia della Città e Diocesi di Mileto, Napoli, 1881, pag. 190: «Arx Nicephori»; E. Barillaro, Calabria. Guida turistica e archeologica [Dizionario corografico], Cosenza, 1972, pag. 102, sub voce; Idem, Dizionario bibliografico e toponomastico della Calabria, Cosenza, 1976, vol. I [Provincia di Catanzaro], pag. 166, sub voce).

Non manca, tuttavia, chi vuole vedere in Rocca Niceforo la progenitrice di Rocca Angitola, sorta sullo stesso sito, la quale, a sua volta, avrebbe dato origine a molti centri abitati, uno dei quali sarebbe stato appunto San Nicola, pur riconoscendo, in verità, che «con questo nome era anche indicata Vallelonga» (G. Greco, Rocca Angitola nella storia e nella leggenda, Vibo Valentia, 1985, pagg. 12, nota n. 3; 83; 101-102; ma anche 43-46).

Anche G. Valente, da par suo, cerca di conciliare le due opposte posizioni, allorquando, all’interno della stessa opera, dapprima sostiene che «Rocca Angitola [….] veniva anche detta [….] Rocca di Niceforo, sebbene con questo nome era anche indicato altro luogo», e poi, trattando di Vallellonga, asserisce che esso «è creduto l’antico Niceforo, o Val di Niceforo» (G. Valente, Dizionario dei luoghi della Calabria, vol. II [M-Z], cit., pagg. 807 [sub voce “Rocca Angitola”], 1126 [sub voce “Vallelonga”]).

Rinviando ad altra sede ogni ulteriore riflessione critica sul rapporto triangolare che si è venuto a creare tra Rocca Niceforo-Vallelonga-Rocca Angitola, giova ora sottolineare come San Nicola, nel suo lungo periodo feudale, non sia stato sempre denominato con l’impiego della specificazione “de Vallelonga”.

In due documenti del 1574 e 1578, conservati presso l’Archivio di Stato di Napoli, in effetti, viene citato, rispettivamente, come «S. Nicolò de Falla» e come «San Nicola de li Serri», appunto per indicare la sua vicinanza ora al torrente Fellà, che scorre nel suo territorio, ora a Serra San Bruno, il più grande dei centri urbani vicini ad esso, ed assegnargli, in tal modo, un preciso elemento distintivo di natura geografica, che potesse meglio distinguerlo e differenziarlo dalle altre località recanti lo stesso nome (G. Crocenti, La valle del Marepotamo, Chiaravalle Centrale [CZ], 1980, pag. 186; J. Mazzoleni, Fonti per la storia della Calabria nel viceregno [1503-1734], Napoli, 1968, pag. 236).

Va ricordato, altresì, che San Nicola non è nuovo a questo genere di puntualizzazione toponomastica, poiché in altri non meno significativi documenti del 1091 e 1102, appartenenti quindi ad un periodo storico di molto anteriore al primo, custoditi nel medesimo istituto pubblico partenopeo, esso è di nuovo segnalato come «S. Nicolò de Falla», con immutato riferimento al suo corso d’acqua Fellà (G. Crocenti, La valle del Marepotamo, cit., pag. 13).

Riprendendo la narrazione degli avvenimenti storici interrotta, nel 1506 troviamo San Nicola incluso nella Contea di Soriano, infeudata ai Carafa, duchi di Nocera, insieme con le vicine terre di Vallelonga, Filogaso e Panajia (G. Galasso, Economia e società nella Calabria del Cinquecento, Milano, 1975, pag. 33).

In questa condizione di feudalità è rimasto fino al 1648 (G. Valente, Dizionario dei luoghi della Calabria, cit., vol. II [M-Z], pag. 1126, sub voce “Vallelonga”).

Con la scomparsa dell’ultimo dei Carafa, il duca Francesco Maria Domenico, morto nel 1648 senza lasciare un legittimo successore, l’intera Contea di Soriano -e con essa anche il nostro villaggio- è stata venduta dal re di Spagna, Filippo IV, ai Padri Domenicani del luogo al prezzo di 84.000 ducati (A. Galloro, L’antica spezierìa del Convento domenicano in Soriano. Aspetti di vita civile e religiosa in Calabria nei secoli XVII-XVIII, Vibo Valentia, 2001, pagg. 26; 37; 54; 120, nota n. 28; 126, nota n. 60).

Il nostro paese, però, pur essendo sottoposto al Convento domenicano di Soriano assieme a Vallelonga, ha continuato a chiamarsi “Santo Nicola di Vallelonga”, sicuramente più per seguire un’antica abitudine ormai consolidatasi nel tempo e non già perché fosse un casale più piccolo di quello.

Il Tango, infatti, ci informa della superiorità numerica di popolazione che San Nicola, nell’anno 1650, poteva vantare nei confronti Vallelonga, anche se, in verità, i dati statistici quantitativi riferiti non ci convincono per la loro esiguità ed insufficienza.

Il regio ingegnere fiscale, infatti, non avendo potuto effettuare un attento censimento dei paesi che costituivano la Contea di Soriano, probabilmente per mancanza di tempo, e dovendo urgentemente consegnare alla corte spagnola committente il calcolo dell’esatto valore economico di quei possedimenti feudali, ha pensato bene di riferirsi ed avvalersi della rilevazione demografica compiuta alla fine del secolo precedente.

Ecco spiegato il vero motivo per cui ha stimato la popolazione vallelonghese in «fuochi numero trenta quattro iusta la numerazione dell’anno 1595», cioè circa 170 abitanti, mentre quella sannicolese in «fuochi 54», vale a dire quasi 270 persone (A. Barilaro [a cura di], Apprezzo dello Stato di Soriano in Calabria Ultra [del] 1650 di A. Tango, cit., pagg. 132, 144).

D’altra parte, da un’attenta lettura delle fonti archivistiche dei secoli passati è emerso che nel casale di Santo Nicola si è sempre verificato, costantemente, un maggiore incremento demografico rispetto a quello di Vallelonga e, pertanto, la notizia può costituire una novità di rilievo solo per i non addetti ai lavori, cioè per coloro che non sono versati in questo genere di studi.

G. Greco, ad esempio, attingendo l’interessante notizia da G. Vivenzio, ricorda, a tal proposito, che nel 1783, anno del violento terremoto, «l’abitato (di San Nicola) contava 1291 anime, mentre Vallelonga, di cui S. Nicola era casale, ne contava 914» (G. Greco, Rocca Angitola nella storia e nella leggenda, cit., pag. 129).

Nella seconda metà del 1600, il nostro borgo è stato rilevato dalla patrizia famiglia cosentina Castiglione-Morelli, che ne ha mantenuto il possesso fino al 1711.

In quest’anno, infatti, è stato venduto, per la somma di ducati 38.000, dal marchese Diego Castiglione Morelli ad Ottavio Di Gaeta, il quale, per l’occasione, ha ottenuto il titolo di duca.

Nel 1776, però, Francesco M. Castiglione Morelli ha deciso di rientrarne in possesso, riacquistandolo da Muzio Di Gaeta (M. Pellicano Castagna, Le ultime intestazioni feudali in Calabria, Chiaravalle Centrale [CZ], 1978, pag. 75, ma anche 44, 51; G. Valente, Dizionario dei luoghi della Calabria, cit., vol. II [M-Z], pag. 913, sub voce).

I Padri Domenicani di Soriano, anche dopo aver ceduto la Terra di San Nicola di Vallelonga al suo nuovo feudatario, hanno voluto conservare, tuttavia, fino a tutto il 1700, per ragioni ancora inspiegabili, la proprietà di un vasto appezzamento di terreno posto in agro sannicolese.

Qualche anno fa, ricercando, all’interno dell’Archivio del Convento sorianese, notizie sulla sua antica e florida spezierìa, ci è capitato di rinvenire un documento, che comprova la veridicità di quanto ora affermato.

La “Lista di carico dei beni posseduti dal Convento di San Domenico di Soriano”, redatta nel 1791 dall’amministratore della Cassa Sacra Carlo Pedicini, che dovevano essere confiscati per conto ed a vantaggio dello stesso istituto pubblico di intervento straordinario pro terremotati calabresi, conteneva anche il fondo sannicolese denominato “Castagnarelle”.

Esso è descritto «confinante da Levante colla via pubblica, da Tramontana col fiume corrente (cioè “Ddorico”: n.d.a.), da Ponente con Don Nicola Marino, e da Mezzogiorno con Michele Scoleri, dell’estenzione (sic) di tomolate venti piane, alberato tutto con castaneto ceduo, inaffittato, perché ingombrato tutto da detto castaneto» (Lista di carico per il Convento di S. Domenico di Soriano (“Cassa Sacra”), Anno 1791, vol. 40, pag. 425, r. e v. [vecchia numerazione pag. 407]).

Il nostro villaggio ha conservato la specificazione “della Terra di Vallelonga” fino all’Unità d’Italia, come ci viene attestato dalla dizione apposta sui fascicoli processuali degli anni 1856-1859, giacenti presso il “Fondo Gran Corte Criminale” dell’Archivio di Stato di Catanzaro da noi più volte visitato, in cui alcuni nostri compaesani, accusati di reati penali, sono stati qualificati come cittadini di «San Nicola di Vallelonga» (non mancano, tuttavia, per gli stessi anni, atti ufficiali in cui è possibile riscontrare il solo nome “San Nicola”).

Infatti, «in data 30 Giugno 1862, con apposita circolare, il Ministro dell’Interno inviava da Torino ai Prefetti del Nuovo Regno norme e suggerimenti, affinché si procedesse alla modifica della denominazione di alcuni comuni delle rispettive province, che si trovavano ad avere lo stesso nome di altri municipi» (N. G. Marchese, Calabria dimenticata, Casavatore [NA], 1982, pag. 423).

Dagli anni successivi in poi, dunque, il nostro paese ha cominciato a chiamarsi “San Nicola di Crissa”, prima, e “da Crissa”, dopo.

E’ verosimile pensare che, su proposta del Consiglio comunale sannicolese dell’epoca, la primitiva dizione “di Crissa” sia stata cambiata con quella “da Crissa” per sottolineare, in maniera più incisiva, non già l’appartenenza, ma l’origine e la provenienza del casale dall’antica e gloriosa città di Crissa, che i Focidesi, reduci dalla distruzione di Troia (1183 a. C.), avrebbero fondato sulla riva sinistra del fiume Angitola (N. A. Mannacio, S. Nicola di Crissa e i suoi capolavori, cit., pag. 32).

La prima delle due denominazioni (“San Nicola di Crissa”), per quel più stretto legame affettivo con la celebre madrepatria che riesce ad esprimere meglio dell’altra (“San Nicola da Crissa”), deve aver esercitato sull’animo del compianto “Don Nicola” (Mannacio) un tale fascino da indurlo a titolare il più importante dei suoi non pochi lavori storico-letterari proprio in siffatta maniera (S. Nicola di Crissa e i suoi capolavori).

Sulle ceneri di questa polis di derivazione greca sarebbe, poi, sorta quella Rocca Angitola, che avrebbe in parte contribuito alla crescita demografica di San Nicola, grazie al lento, ma costante, esodo della sua popolazione.

G. Greco, ad esempio, non diversamente da altri studiosi locali, dopo aver ricordato che «il villaggio di San Nicola si rese comune autonomo durante il decennio francese», sottolinea che esso, «in seguito, rivendicando, giustamente, la sua legittima ascendenza crissea, assunse la denominazione di San Nicola da Crissa» (G. Greco, Rocca Angitola nella storia e nella leggenda, cit., pag. 129).

La città di Crissa avrebbe così derivato il nome, eponimamente, niente di meno che dal suo fondatore Crisso, eroe greco, zio di quell’Epeo, che, per suggerimento di Ulisse, ispirato a sua volta dalla dea Minerva, ha costruito il famoso e fraudolento cavallo ligneo di Troia, del quale è menzione nell’Odissea di Omero (VIII, 492) e nell’Eneide di Virgilio (II, 264), che ha apostrofato quest’abile lavoratore del legno con l’epiteto di «doli fabricator» (G. Greco, Rocca Angitola nella storia e nella leggenda, cit., pagg. 11-15, 76, 83-84, 99-100).

Diversi anni or sono, per nulla attratti dal desiderio di tessere immotivati elogi all’indirizzo della nostra patria, ma mossi piuttosto dalla sola ansia di fare un po’ luce, una volta per tutte, sulla tanto dibattuta “questione crissea”, abbiamo ampiamente spiegato e dimostrato, con rigoroso senso critico, in una serie di articoli apparsi su un periodico di Vibo Valentia, “L’Altra Provincia”, come sia gravemente errato correre dietro a queste favole, che abbiamo definito “barriane” perché ideate dal Barrio nella sua opera De antiquitate et situ Calabriae (Roma, 1571).

Questo erudito di Francica (VV), infatti, ha irreparabilmente danneggiato la storiografia moderna della Calabria, facendo ricorso, per la composizione del suo scritto, a fatti leggendari e ad episodi della mitologia classica mai esistiti, al solo scopo di magnificare le antiche origini storiche di molte località calabresi del suo tempo, assegnando ad esse gloriosi e mitici fondatori.

Per la parte attinente a Crissa di cui qui si sta ragionando, il Barrio ha fornito, in maniera volutamente strumentale, un’errata interpretazione di un passo dell’Alessandra (o Cassandra) del poeta calcidese Licofrone (IV-III secolo a. C.), relativamente ai w. 1067-1070, con cui ha fatto credere ai suoi seguaci per vera la fondazione di questa città, avvenuta sul “Sinus napitinus”, oggi Golfo di Sant’Eufemia, ad opera del focidese Crisso.

Da questa fonte, che tutti gli storici moderni hanno giudicato scarsamente attendibile ed assai poco affidabile, infatti, diversi studiosi hanno attinto, a larghe mani e con molta faciloneria, cioè senza mai sottoporre ad una severa analisi critica, le informazioni storiche utilizzate nei propri lavori, che alla prova dei fatti sono risultate in parte o totalmente errate (G. Marafioti, Croniche et antichità di Calabria, Padova, 1601; G. Fiore, Della Calabria illustrata, Napoli, 1691; E. D’Amato, Pantopologia Calabra, Napoli, 1725; D. Martire, La Calabria sacra e profana, Cosenza, 1876-1878).

Il seducente racconto della discendenza della sua amata patria, San Nicola, da una gloriosa e mitica città di origine greca, Crissa, è riuscito ad affascinare persino una persona dotta come G. G. Martini («Crissa [….] patria mea»: Consiliorum sive responsorum iuris, cit., pag. 33, cons. n. 226), il quale si dice fiero di così illustri natali, sottolineando con rammarico come da giovane vi abbia creduto troppo poco («dum adolescens eram, non parum dubitavi de hac historia»: ivi). In argomento, si confronti pure D. Taccone-Gallucci, Monografia della Città e Diocesi di Mileto, cit., pagg. 191-192.

Ad onor del vero, al di là delle falsità diffuse dal Barrio, non si può neppure escludere del tutto che sotto le mura abbattute di Rocca Angitola si celino i resti di una preesistente polis, sia essa di origine greca o d’altra provenienza.

Nel passato, infatti, è accaduto (poche volte, in verità) che la ricerca e conseguente scoperta archeologica abbiano dimostrato l’esistenza storica di civiltà da sempre ritenute leggendarie, grazie alla felice intuizione di pazienti e tenaci investigatori: valga per tutti l’esempio dello scopritore di Troia, il tedesco H. Schliemann.

Per il momento è necessario essere cauti, confortati dall’assoluto silenzio mantenuto in argomento da scrupolosi ed insigni eruditi, storici, archeologi delle epoche trascorse, che hanno attentamente indagato sull’evoluzione storica dei centri urbani della Calabria, dall’antichità ai loro giorni.

Se, infatti, sul sito di Rocca Angitola fosse davvero insistita nel lontano passato l’illustre città di Crissa, perché mai i monteleonesi V. Capialbi e C. F. Crispo, i francesi F. Lenormant e J. Bérard, i connazionali E. Pais, E. Piaceri e P. Zancani-Montuoro, solo per citare i nomi più autorevoli e rappresentativi di una più vasta schiera di seri e coscienziosi studiosi, non hanno mai rivolto ad essa la loro attenzione ed indirizzato, pertanto, in questa direzione le loro investigazioni, al fine di riportarne alla luce le rovine?

Per quale ragione lo stesso Sen. P. Orsi, che nella nostra regione, negli anni in cui ricopriva la carica di Soprintendente Archeologico della Sicilia orientale e della Calabria (1907-1925), ha svolto un assai fruttuoso lavoro di ricerca e scoperta di antichi siti magnogreci e medievali, non si è mai preoccupato di appurare la verità in merito alla città di Crissa?

Poiché non si può dire che fosse un indagatore sprovveduto e poco attento alla realtà storica che gli stava intorno, perché allora, durante i suoi ripetuti soggiorni in Monteleone, non si è mai domandato cosa realmente nascondesse il sottosuolo del poggio prospiciente la riva sinistra del fiume Angitola che aveva sotto il naso?

Si deve dedurre, dunque, che egli non abbia mai creduto nel racconto sorto intorno a Crissa, ritenendolo privo di ogni fondamento di verità storica.

Fino a quando non saranno effettuati i necessari scavi archeologici ed essi non riusciranno a portare alla luce del sole le vestigia di questa civiltà finora rimasta sepolta, il buon senso ammonisce a volersi prudentemente astenere dalla formulazione di teorie affrettare sull’esistenza di Crissa, che, da diversi secoli (si pensi all’opera di I. Tranquillo, pubblicata nel 1725), taluni ricercatori municipali additano, a cuor leggero, quale gloriosa progenitrice del loro patrio luogo.

Soltanto allora sarà possibile parlare ed esprimere, a ragion veduta e con piena cognizione di causa, il proprio pensiero sull’ormai accertata esistenza di questa antica polis di stirpe greca.

Finché non giungerà quel momento, però, sarà conveniente per tutti zittire, seguendo l’esortazione del poeta latino Marziale, secondo cui, se res est magna tacere, lo è ancor di più quando non si dispone di argomentazioni sufficientemente valide per formulare, sostenere e difendere con tutte le forze una propria tesi.

A conclusione della “questione crissea”, vorremmo ricordare, senza alcun tono polemico, a quanti finora hanno scritto su questa città, sia quando l’argomento è stato affrontato in maniera centrale sia en passant, che, quand’anche un giorno la ricerca archeologica dovesse dimostrare la sua esistenza storica, essa non potrà mai essere definita città magnogreca, come finora è avvenuto a tutti i livelli culturali, perché appartenente ad altra epoca storica.

Quando, infatti, parliamo di Crisso, quale ipotetico fondatore della città di Crissa dopo la distruzione della ricca città di Priamo (1183 a. C.), intendiamo riferirci esclusivamente al primo grande movimento emigratorio greco, che si è svolto tra il XII ed il IX secolo a. C.

La fondazione di colonie magnogreche nell’Italia meridionale appartiene, invece, a quella che gli storici hanno definito «seconda colonizzazione greca» ed è avvenuta fra l’VIII ed il VI secolo a. C. in conseguenza di una grave crisi economica, che ha duramente colpito la Grecia in quel tempo: essendo la raccolta bibliografica in argomento molto ampia, valga per tutti la citazione della sola opera classica J. Bérard, La Magna Grecia, Torino, 1963, passim.

In considerazione di questa netta suddivisione cronologica dei due grandi flussi demografici diretti dalla penisola greca verso l’esterno, sbagliano enormemente, quindi, quegli studiosi che considerano la città di Crissa colonia magnogreca, come, ad esempio, V. Teti (“Introduzione” al Consiliorum sive responsorum iuris di G. G. Martini [ristampa anastatica della prima edizione, apparsa in Sancti Nicolai nel 1635, presso la stamperia dello stesso Martini], Roma, 2003, pag. X); N. G. Marchese (Calabria dimenticata, cit., pagg. 421-423); G. Greco (Rocca Angitola nella storia e nella leggenda, cit., pagg. 19-20), ecc.

Per quanto riguarda i disastrosi terremoti che si sono abbattuti sul nostro paese, dobbiamo dire che esso, nel corso degli anni, a causa di questi flagelli naturali, ha sofferto moltissimo.

Relativamente al movimento tellurico avvenuto il 27 marzo 1638, non possediamo, in verità, dati di rilevazione statistica esatti circa le perdite umane e materiali subite da San Nicola, ma abbiamo validi motivi per ritenere che non possa essere uscito indenne da un sisma che ha gravemente danneggiato l’intera Calabria ed in modo particolare i paesi ad esso vicini: «abbattuti restarono [….] Belforte, Filogaso, Panaja, Montesanto». Vi furono, infatti, a «Belforte morti 13, case distrutte 25; a Montesanto morti 20, quasi tutto caduto; a Panaia morti 80, case tutte cadute; a Filogaso morti 100, case cadute 118. Fu quasi tutto disfatto; a Monterosso 33 case cadute, 1 chiesa e l’ospedale» (G. Vivenzio, Istoria de’ Tremuoti avvenuti nella Provincia della Calabria Ulteriore, e nella città di Messina nell’anno 1783 e di quanto nella Calabria fu fatto per lo suo risorgimento fino al 1787, Napoli, 1788, vol. I, pag. 12; M. Baratta, I terremoti d’Italia, Torino, 1901, pagg. 129-130).

In quello successivo e più violento del 5 novembre 1659, San Nicola ha riportato pesanti danni a persone e cose, poiché sono state distrutte 93 case, compresa la Chiesa Matrice, e sotto quelle macerie hanno trovato la morte ben 30 suoi figli, di cui 22 uomini, 6 donne e 2 minori (Ibidem, pag. 140; V. D’Amato, Memorie historiche dell’Illustrissima, famosissima e fedelissima città di Catanzaro, Napoli, 1670, pag. 242; G. Valente, Storia della Calabria nell’età moderna, Chiaravalle Centrale [CZ], 1980, vol. II, pagg. 93, 250).

Non si trova menzionato nell’elenco dei luoghi che hanno sofferto gravi perdite nel sisma del 7 dicembre 1743, ma nelle apocalittiche scosse telluriche del 5 e 7 febbraio e 1 e 28 marzo 1783, che sono state le più funeste di tutte e che hanno avuto il loro epicentro nei pressi di Soriano, è rimasto irrimediabilmente rovinato. Infatti, «una parte del monte, sul quale era collocato S. Nicola cadde nel sottoposto vallone. A causa de’ guasti riferiti, è stato deciso che Vallelonga sarà trasportata nel piano detto del Castello, ed il villaggio S. Nicola nel sito chiamato il Santissimo» (G. Vivenzio, Istoria de’ Tremuoti…, cit., vol. I, pag. 172; M. Baratta, I terremoti d’Italia, cit., pagg. 269-277).

 

3. DESCRIZIONE ECONOMICO-SOCIALE ED ANTROPOLOGICA

L’economia di San Nicola da Crissa è stata sempre prevalentemente agricola.

La maggior parte dei suoi abitanti, prima che essi imboccassero la dolorosa via dell’esilio volontario, emigrando verso Paesi lontani (soprattutto in Canada, dove esiste tuttora una folta presenza di immigrati sannicolesi) in cerca di un tozzo di pane e di una migliore e più dignitosa condizione di vita per sé e per i propri cari, traeva i mezzi del proprio sostentamento dalle coltivazioni di cereali, dalle colture arboree (in prevalenza l’olivo) ed orticole, oltre che dalla pastorizia.

Il Tango, infatti, nel ragguagliarci sulla condizione socio-economica di San Nicola nel 1650, rileva che esso annoverava  tra i suoi abitanti «5 persone Civili incluso tre Dottori di Legge, et uno Giudice á Contratto [….]. Il Remanente sono tutti bracciali, faticatori che s’esercitano alle Campagne, e viveno con le loro fatiche, così anco le donne, [….] due scarpari, 3 Mastri d’ascia, 3 fabricatori, due ferrari, et uno Torniero» (A. Barilaro [a cura di], Apprezzo dello Stato di Soriano in Calabria Ultra [del] 1650 di A. Tango, cit., pag. 144).

Sottolinea, altresì, che «sono in detto Casale da 40 bovi lavorandini, e 30 bacche, da 400 pecore, e capre, due cavalli, e quattro somarini de particolari, e de Preiti» (Ibidem, pag. 145).

Le condizioni di vita dei contadini e pastori sannicolesi erano, dunque, piuttosto misere ed il nostro villaggio mancava persino dei servizi sociali più urgenti, tant’è vero che «del Medico, e Notare, quando occorre, se ne servono delle Terre convicine, e così anco delle cose di Spetiería» (Ivi).

Naturalmente, lo sviluppo dell’attività agricola era strettamente legato alle dimensioni ed alla capacità produttiva dell’assai ridotto territorio pianeggiante di cui poteva disporre il contadino sannicolese, spesso impegnato nella faticosa opera di terrazzare le sue superfici di terra molto piccole, le cosiddette “rasule” (l’uso dei tempi verbali nella forma dell’imperfetto, esprimente un’azione passata, ci viene imposto, obbligatoriamente, dal fatto che l’occupazione campestre di cui qui si sta discutendo è stata svolta dai Sannicolesi, come attività primaria, soltanto nei tempi trascorsi e le nuove generazioni, in tutt’altre faccende affaccendate, tendono a stare il più lontano possibile da essa, quasi fosse un morbo pestifero).

Queste “rasule” richiedevano, a loro volta, una costante cura di protezione, consolidamento e concimazione, non solo perché insistenti su un terreno a forte pendenza e quindi soggetto a continui smottamenti, ma anche perché, per la particolare conformazione geomorfologica dell’intero territorio di cui si è detto sopra, spesso si rivelavano improduttive o poco redditizie, in quanto caratterizzate dalla massiccia presenza di conglomerati argillosi e sabbiosi (L. Grimaldi, Studi archeologici sulla Calabria Ultra Seconda, Napoli, 1845, pag. 119).

Questi ampi ammassi arenari o depositi di sabbia sono di formazione pliocenica e denunciano una chiara ed antichissima origine marina del nostro territorio e di quelli facenti parte del non lontano bacino del fiume Mesima, che, proprio per questa ragione, era conosciuto nell’antichità come «Terra Arenarum». (E. Cortese, Descrizione geologica della Calabria, Firenze, 1934, pagg. 164-180; F. Ippolito, Geologia dei dissesti calabresi, in “Almanacco Calabrese”, anno V [1955], pagg. 129-141).

In una società contadina tradizionalmente indigente, quale quella sannicolese, molto diffuso era l’allevamento del maiale per uso domestico, che costituiva un evento di straordinaria importanza economica (D. Taruffi-L. De Nobili-C. Lori, La questione agraria e l’emigrazione in Calabria, Firenze, 1908, pagg. 606, 631 e segg).

Il solito Tango, nel notificarci che i Sannicolesi «viveno parcamente, [….] non se ci fá Carne, né ci viene pesce, però quelle poche persone che ne vogliono comprare, mandano alle Terre convicine», fa notare che «però tutti s’allevano li porci in casa, e si fanno lo salato per uso loro, che li basta da un anno all’altro» (A. Barilaro [a cura di], Apprezzo dello Stato di Soriano in Calabria Ultra [del] 1650 di A. Tango, cit., pag. 145).

Infatti, grazie ad una corretta conservazione della carne del porco, di cui peraltro niente andava perso perché veniva sfruttata ogni sua minima parte, tanto che fosse mantenuta sotto sale quanto che venisse insaccata e trasformata in vari tipi di salumi, ogni nucleo familiare poteva assicurarsi una provvista alimentare bastevole per tutto il corso dell’anno.

I vantaggi derivanti dal possesso di un maiale, l’utilità e la rilevanza assunte da questo animale nell’economia del contadino sannicolese ed il valore nutrizionale rivestito dalla carne suina nella sua alimentazione sono espressi, molto efficacemente, in alcuni significativi adagi, in cui è condensata la straordinaria saggezza popolare dei nostri avi e di cui proponiamo qui qualche esempio:

1)-‘N orto e ‘nu porco resuscitano ‘nu morto : “Il possesso di carne di maiale e di prodotti orticoli riveste, nel sistema alimentare di un uomo, un’importanza così fondamentale che è capace di fare ritornare in vita persino un morto”;

2)-Cu’ si marita è cuntento ‘nu jorno, cu’ ammazza lu porco è cuntento ‘n annu: Se la felicità di chi si sposa dura un giorno, quella di chi macella un maiale si protrae per un intero anno ovvero per tutto il tempo in cui il contadino può derivare cibo e sostentamento dalla sua carne conservata” (M. Tigani Sava, I salumi di Calabria ed il rito del porco, Catanzaro Lido, 1997, pag. 61: i proverbi riportati sono stati opportunamente adattati alla lingua dialettale sannicolese).

Benché l’attuale spopolamento delle campagne, diretta conseguenza dell’abbandono dell’attività agreste da parte delle nuove generazioni attratte più dalla comoda vita urbana che da quella faticosa rurale, abbia fatto diminuire fortemente l’allevamento domestico di maiali, ancora oggi, in non poche famiglie sannicolesi, vengono prodotti dei capicolli e soppressate assai prelibati, grazie alla conoscenza ed al sapiente impiego di antiche ed elaborate tecniche di lavorazione della carne suina, che, ad onta dell’inesorabile usura del tempo che tutto travolge e distrugge, vengono accuratamente trasmesse, da lontane generazioni, da madre in figlia.

Per quanto concerne lo sviluppo demografico di San Nicola nei secoli, c’è da precisare quanto segue. Nella lunga e buia età medievale, molti centri urbani posti all’interno della regione calabrese hanno visto aumentare la propria popolazione, grazie al trasferimento di quanti, desiderosi di sfuggire alle feroci incursioni turchesche ed alla non meno grave infezione malarica che affliggevano le vicine zone costiere e di pianura tirreniche, avevano deciso di abbandonare i loro malsicuri antichi siti, per insediarsi in luoghi ritenuti certamente più tranquilli e salubri.

In considerazione di ciò, si può credere che anche nel casale di San Nicola, con il passar del tempo, si sia verificato un incremento demografico (non sappiamo, però, in che misura percentuale rispetto alla comunità residente), grazie all’apporto fornito dall’immigrazione di abitanti provenienti da Rocca Angitola, la cui decadenza demografica ed abitativa, iniziata nel XVII secolo, è giunta al suo culmine con il sopraggiungere dell’assai funesto terremoto del 1783 (G. Greco, Macherato, Vibo Valentia, 1978, pagg. 16-18; Idem, Rocca Angitola nella storia e nella leggenda, cit., pagg. 73-76).

San Nicola ha conosciuto la sua massima espansione nel 1951, quando, al censimento di quell’anno, contava ben 4.576 abitanti, ed il minimo storico lo ha toccato qualche mese fa, il 31 maggio 2005, con 1.532 unità (N. B.: Va tenuto presente che i dati anagrafici riportati, di per sé esigui, sono riferiti alle persone registrate come “residenti” presso il competente ufficio comunale e non già a quelle “effettivamente dimoranti” nel paese. Questa differenziazione contribuisce ad assottigliare ancor di più la già magra popolazione sannicolese).

Certamente, le attuali 1.532 persone costituiscono ben poca cosa, se comparate al dinamismo umano che il paese ha conosciuto in tutta la prima metà del Novecento, e la causa dell’attuale decremento quantitativo della popolazione sannicolese va tutta addebitata all’assoluta mancanza di lavoro sul posto e nel resto della regione di appartenenza, che costringe i giovani ad emigrare verso luoghi più prosperi e ricchi, in cerca di una migliore sistemazione di vita (O. Baldacci, Il movimento demografico, in “Almanacco Calabrese”, anno XIII [1963], pagg. 129-141).

 

4.“VIA REGIA” E BANDITISMO LOCALE

L’intero versante nord orientale dell’abitato di San Nicola da Crissa è attraversato, in tutta la sua lunghezza, dalla strada statale 110, che collega il Bivio Angitola, posto sul mar Tirreno, con Monasterace Marina, ubicata sul litorale jonico.

Essa ha un andamento abbastanza tortuoso e di forte dislivello, determinato dal fatto che, per assolvere il difficile compito di mettere in comunicazione le due opposte riviere, è costretta ad inerpicarsi lungo tutta la dorsale appenninica, che divide longitudinalmente in due la Calabria (R. De Cesare, La fine di un Regno, cit., vol. I, pag. 31).

Quest’arteria, che dai Sannicolesi è meglio conosciuta nelle varie forme linguistiche di “Via regia”, “Viareggia” e “Vareggia”, è stata fatta costruire, tra gli anni 1837-1852, da Ferdinando II, re delle Due Sicilie, sul tracciato di un antico sentiero naturale di montagna, poco più di una mulattiera, con il preciso scopo di potenziare l’industria siderurgica statale dei due stabilimenti calabresi di Mongiana e di Ferdinandea, che lavoravano in funzione di forniture militari e che suo nonno, Ferdinando I, aveva impiantato tra il 1782 ed il 1783 (B. De Stefano Manno-G. Matacena, Le Reali Ferriere ed Officine di Mongiana, cit., pagg. X [“Prefazione” di G. Cingari], 22 e segg.; L. Gambi, Calabria, cit., pag. 374).

In questi due opifici del serrese venivano prodotti strumenti bellici di notevole rilevanza, come elementi di artiglieria, specie cannoni e “metraglie” di ferro fuso, e relative palle, fucili e corrispondenti proiettili, spade e baionette, pezzi per ferrovie, oltre a pani di ghisa ed altro metallo ferroso, che venivano poi lavorati in diverse fabbriche del reame.

Il re di Napoli, però, per rilanciare la produzione metalmeccanica calabrese e renderla competitiva, per qualità e prezzo, con quella pregiata inglese, aveva bisogno di una strada carrettiera così efficiente da consentire ai manufatti siderurgici di Mongiana e Ferdinandea di giungere, in tempi molto brevi, al porticciolo di Pizzo, per essere successivamente da qui imbarcati, con un prezzo di trasporto marittimo abbastanza contenuto, alla volta di quello di Napoli .

In Calabria sorgeva, dunque, la più importante industria metallurgica del Regno borbonico e la produttività raggiunta dalle due ferriere, nelle quali trovavano lavoro circa mille operai, ha fatto conseguire all’economia del territorio serrese e di tutto quello bruzio una posizione davvero ragguardevole, sia in campo qualitativo che quantitativo (G. Cingari, Lo stabilimento di Mongiana nella crisi del 1860, in “Atti del 2o Congresso Storico Calabrese”, Napoli, 1961, pagg. 237-259; Idem, Storia della Calabria dall’Unità ad oggi, Roma-Bari, 1982, pagg. 5, 9-10, 30, 32, 34-35, 70).

Non è nostra intenzione indugiarci qui sull’annosa “Questione meridionale”, risalendo alle molteplici cause che hanno originato la decadenza industriale del Meridione d’Italia, ma come non ricordare, così come risulta da attenti studi comparativi di economia, che il Sud d’Italia, al momento dell’unificazione della Penisola, era più progredito del Nord, specie nel settore dell’industria pesante o metalmeccanica, in cui vantava primati che l’intera Europa ci invidiava? (F. Milone, L’Italia nell’economia delle sue regioni, Torino, 1955, pagg. 938-943; C. Alianello, La conquista del Sud, Milano, 1982).

L’apertura della borbonica “Strada della Mongiana” (così era definita nei documenti ufficiali del tempo) ha fatto rifiorire quel fenomeno banditesco locale che già si era distinto nel decennio di dominazione napoleonica (1806-1815), raggiungendo ora punte di maggiore recrudescenza, soprattutto nel biennio 1843-’44.

Per quanto riguarda il decennio di dominio francese sopra richiamato, si pensi alle atroci crudeltà commesse nelle nostre contrade dal famigerato bandito Francesco Moscato della vicina Vazzano, meglio conosciuto con l’appellativo di “Bizzarro” o “Vizzarro” (S. Gambino, Vizzarro, Chiaravalle Centrale [CZ], 1981; II ediz. Ardore Marina, 1994; A. Calcaterra, Memorie istoriche militari del colonnello Antonino Calcaterra dal 1799 al 1822, Polistena, 1923, pagg. 51-58).

Era proprio nei pressi di San Nicola, là dove il tratto di strada dell’intera via borbonica, oltre che angusto ed erto, era anche pericoloso per il fatto che poggiava su enormi banchi di sabbia sempre pronti a franare sotto l’azione della più piccola spinta o sollecitazione, che i briganti locali o dei territori vicini, annidandosi nella fitta vegetazione del contiguo bosco Fellà, tendevano imboscate a viandanti facoltosi, per derubarli dei loro preziosi carichi o, addirittura, per sequestrarli a scopo di riscatto (A. Galloro, San Nicola da Crissa e la borbonica “Strada della Mongiana”, in “La Barcunata”, cit., anno I [1995], n. 2, pag. 4).

Il punto più cruciale era costituito dal cosiddetto “Cafuni de Punga”, che si trova poco più sotto della chiesetta di Santa Maria Mater Domini, la stessa che è ricordata da D. Taccone-Gallucci  come «un eremo non lungi dal paese presso al bosco Fellà» (D. Taccone-Gallucci, Monografia della Città e Diocesi di Mileto, cit., pag. 192).

Non mancavano, tuttavia, degli altri nascondigli, posti nelle vicine selve adiacenti ai fiumi Angitola e Mesima, come meglio avrà modo di ragguagliarci il lavoro di M. Roccisano-B. Congiustì (Fellà, il bosco che parla. Possidenti, contadini e vagabondi in un bosco di Calabria), in corso di pubblicazione presso l’editore Monteleone di Vibo Valentia, uno studio, questo, atteso per le interessanti ed inedite informazioni socio-economiche che vorrà fornici in argomento.

Non erano neppure rari gli assalti che gli stessi malfattori, desiderosi di rifornirsi di armi efficienti da rivolgere, poi, contro l’inerme popolazione civile oppressa o da atterrire, perpetravano ai danni delle carovane militari borboniche addette al trasferimento di fucili e relative munizioni, nuovi di zecca perché da poco forgiati, dagli stabilimenti di Mongiana e Ferdinandea al porticciolo di Pizzo.

 

5. PERSONAGGI FAMOSI DELLA VITA RELIGIOSA CIVILE

Il personaggio che, più degli altri, ha segnato la storia sociale di San Nicola, riuscendo a far travalicare ad essa gli angusti confini locali per proiettarla in una più ampia dimensione non solo di spessore regionale ma anche di respiro meridionale, è stato, senza dubbio alcuno, Gian Giacomo Martini, abate curato della sua patria, San Nicola di Vallelonga appunto, dov’era nato tra il 1575 ed il 1580 e morto nel 1640.

Il suo alto merito, al tempo in cui è stato vicario generale del vescovo della diocesi di Mileto, Mons. Maurizio Centini, è consistito nell’aver introdotto per primo, in tutta la Calabria Ultra Seconda (corrispondente a tutta l’ex provincia di Catanzaro), nel 1634, l’arte della stampa (V. Capialbi, Memorie delle tipografie calabresi, II ediz. a cura di C. F. Crispo, cit., pagg. 54-56).

Egli, in effetti, fatti venire in San Nicola gli impressori itineranti Giovan Battista Russo e Domenico Jezzo, vi ha impiantato una tipografia, che è stata la terza in assoluto di tutta la Calabria dopo quella fatta sorgere in Reggio da un ebreo, tal Abramo Garton, nel 1475, e l’altra installata a Cosenza, sempre ad opera di un altro figlio d’Israele, tal Ottaviano Salomonio di Manfredonia, nel 1478.

Non si conoscono le vere ragioni per cui il Martini ha fatto uscire dai suoi torchi la stampa del solo primo volume di una delle tre opere da lui composte, Consiliorum, sive responsorum iuris…, ovvero Consigli e Responsi Legali, una disciplina, questa, in cui era abbastanza esperto, se si pensa che aveva conseguito presso lo Studio di Napoli la laurea in Diritto Canonico e Civile, che gli consentiva di esercitare con successo anche la professione forense.

Quasi certamente, essendo di salute cagionevole, il sopraggiungere di una tanto improvvisa quanto preoccupante malattia deve avergli impedito di pubblicare le altre due fatiche, già pronte per essere impresse: un Trattato dei privilegi della povertà e La vita di Giovan Dionisio Galeno, il famoso pirata rinnegato, meglio conosciuto con il nome di “Ulucci-Alì” o, più italianamente, “Occhialì”, che tanto terrore ha incusso alle popolazioni abitanti le coste della Calabria, sua Terra natale (Ivi; G. Valente, Vita di Occhialì, Milano, 1960).

A causa di queste costantemente precarie condizioni di salute, il Martini non ha potuto prestare, per come avrebbe voluto, la massima cura al lavoro di stampa del suo Consiliorum, che, proprio per questo motivo, è giunto a noi pieno di errori tipografici.

Per tanta negligenza, l’Autore, fortemente rammaricato, come si evince dalla parte introduttiva dell’opera, si è visto costretto a chiedere scusa al benevolo lettore (V. Capialbi, Memorie delle tipografie calabresi, II ediz. a cura di C. F. Crispo, cit., pagg. 55-56).

Un’altra inquietante infermità per il nostro Martini, dunque, dopo quella superata tre lustri prima, grazie all’intervento miracoloso di San Domenico di Soriano, a cui egli si era raccomandato caldamente dopo che i tre medici che l’assistevano avevano dichiarato, inequivocabilmente, che per lui non vi era alcuna possibilità di salvezza: «Ebbe allora una confortante visione e poi si addormentò per tre ore. Si destò completamente guarito con la più viva sorpresa dei medici e dei familiari. Mandò subito a Soriano il suo magnifico cavallo da viaggio, promesso in voto, del valore di circa cento ducati e si recò più volte di persona per ringraziare il Santo» (A. Barilaro, San Domenico in Soriano, Soriano Calabro [CZ, ora VV], 1969, pag. 321, che rinvia alla fonte primaria, S. Frangipane, Raccolta de’ miracoli et grazie adoperate dall’Immagine del Padre S. Domenico di Soriano, Messina 1621 [II ediz., ivi, 1634]).

Occhialì, rapito all’età di sedici anni dai Turchi in località Le Castella, nei pressi di Crotone dov’era nato, e venduto come schiavo a Costantinopoli, ha dovuto abiurare la fede cattolica ed abbracciare quella islamica, cambiando anche il nome, per poter essere lasciato in pace e mantenere salva la vita.

La sua spiccata intelligenza ed alcune circostanze fortunate lo hanno fatto ben presto diventare uno dei più potenti condottieri della pirateria turca ed è grazie a questi suoi non comuni meriti militari che il sultano ottomano del tempo, Selim II, gli ha affidato il comando dell’ala sinistra di quella poderosa armata navale musulmana, che, a Lepanto, città greca posta all’imboccatura del golfo di Corinto, nel 1571, si è scontrata contro quella cristiana, riportando una sconfitta così disastrosa da rimanere memorabile nella storia dell’umanità.

Il papa dell’epoca, Pio V (Antonio Michele Ghislieri, canonizzato nel 1712), promotore fra l’altro di una “Lega santa” composta da stati italiani ed europei in funzione antimusulmana, e tutto il mondo cattolico hanno attribuito questa straordinaria ed insperata vittoria all’intercessione della Madonna del SS. Rosario, che, per questo provvidenziale intervento, da quel momento in poi è stata proclamata “Regina delle vittorie”.

La Chiesa cattolica ha voluto, inoltre, che il giorno del fatidico scontro navale, 7 ottobre, fosse dedicato alla celebrazione del nome della Madonna del SS. Rosario, a perenne ricordo di quell’eccezionale evento bellico di cui Ella è stata grande protagonista.

Questa lunga digressione dal tema principale, volta ad approfondire la figura storica di Occhialì e la battaglia di Lepanto, si è resa necessaria per guidare i lettori ad una migliore comprensione di un meraviglioso dipinto, che si trova collocato all’interno della Chiesetta della Vergine Maria del SS. Rosario, di cui si dirà più approfonditamente appresso.

In campo prettamente religioso, va segnalata la figura di mons. Antonio Papa, che «occupa il primo posto nella gerarchia della Chiesa di questo nostro paese, per essere stato l’unico Sacerdote ad assurgere al titolo di vescovo» (T. Mannacio, La Confraternita del Crocifisso, cit., pag. 247).

In effetti, egli, nato a San Nicola nel 1627, è stato elevato alla dignità di vescovo di San Marco Argentano (CS) nel 1685, dove è morto due anni più tardi.

Poteva ben vantarsi di appartenere alla ristretta cerchia degli amici del pontefice Innocenzo XI, che lo ha molto amato e stimato per la sua integrità morale (D. Taccone-Gallucci, Monografia della Città e Diocesi di Mileto, cit., pag. 192).

Passando ora alla storia civile e patriottica, San Nicola da Crissa ha dato i natali ad Antonio Garcea (1820), eroe del Risorgimento italiano, che ha pagato il suo fervido amor di patria con duri anni di carcere e di esilio inflittigli dai Borboni (G. Garcea Bertola, Antonio Garcea sotto i Borboni di Napoli e nelle rivoluzioni d’Italia dal 1837 al 1862, Torino, 1862, passim).

Non è stato, come si vuol comunemente far credere, un vero e proprio garibaldino, uno di quei Mille ardimentosi che hanno seguito Garibaldi da Quarto al Volturno alla maniera dei calabresi Francesco Stocco e dei fratelli Mauro e Sprovieri, ma soltanto un valido fiancheggiatore dell’Eroe dei due Mondi nella sua non facile spedizione militare.

Era comandante di una delle tante avanguardie garibaldine, il cui scopo era quello di spianare la strada alle Camicie Rosse, che, provenienti dalla Sicilia e da poco sbarcate a Melito Porto Salvo (RC), si accingevano a risalire la Penisola sino a Roma.

Tra le imprese militari compiute dal capitano Garcea, ne annoveriamo particolarmente due, finora poco o per nulla conosciute:

-Riesce a convincere il capitano borbonico Polistena ad arrendersi ed a consegnargli il castello di Scilla (RC), di cui era comandante (C. Morisani, Ricordi storici. I fatti delle Calabrie nel Luglio ed Agosto 1860, Reggio Calabria, 1872, pag. 139);

-Forte di una colonna di 1370 uomini, ottiene dal capitano borbonico Del Bono, direttore dello stabilimento siderurgico della Mongiana, e dalla esigua guarnigione posta a presidio dell’opificio, la loro resa condizionata e la consegna immediata dell’importante fabbrica di armi, che subito requisisce e di cui prende possesso in nome e per conto del Dittatore, cioè Garibaldi. (B. De Stefano Manno-G. Matacena, Le Reali Ferriere ed Officine di Mongiana, cit., pagg. 72-73).

 

6. ARTE

Come preannunciato sopra, oggi, in San Nicola da Crissa, proprio all’interno della Chiesetta della Vergine Maria del SS. Rosario, è possibile ammirare un meraviglioso dipinto posto al centro del soffitto, raffigurante la memorabile battaglia di Lepanto, cui si è già fatto cenno.

Il quadro, di forma rettangolare (cm 140 x cm 280), è stato eseguito nel 1968 a tempera su tavola, che è stata poi fissata in alto mediante appositi bulloni, da un valente artista di Serra San Bruno, Giuseppe Maria Pisani, per volontà di mons. Vito Cina, padre spirituale della Confraternita della Vergine Maria del SS. Rosario, che ha ancora oggi la sua sede nell’omonimo tempio, nonché grande erudito e profondo conoscitore della storia della Chiesa.

L’Autore, con una magistrale tecnica pittorica, ha saputo esprimere, molto efficacemente, l’intensità degli stati d’animo dei personaggi raffigurati.

Al centro del dipinto, infatti, grandeggia, in tutta la sua magnificenza spirituale, la mistica figura di papa Pio V, il quale, con volto ascetico e sguardo supplice, efficacemente rappresentati dall’apertura massima delle braccia elevate al Cielo, con grande sofferenza fisica e morale per le sorti della cristianità tutta a lungo minacciata dalla feroce barbarie turca, bene espresse dalla faccia smunta, dalle mani scarne e dalla magrezza dell’intero corpo, prega ed invoca l’aiuto della Vergine Maria del SS. Rosario, perché, una volta per tutte, venga debellato il dilagante flagello turco.

Del resto, Pio V, che era già stato monaco domenicano, a chi altri poteva indirizzare la sua supplica se non alla Madonna del SS. Rosario, il cui culto era stato istituito, alcuni secoli prima, dal suo Gran Patriarca, San Domenico, come Protettrice dei bisognosi che si rivolgono a Lei attraverso la recitazione del Santo Rosario?

La Madonna, infatti, quale Madre premurosa che non abbandona mai i suoi figli in difficoltà, non tarda ad apparirgli in mezzo alle nuvole squarciate, per manifestargli tutta la sua benevolenza e protezione.

Ella, però, non è sola, ma è accompagnata dal Bambino Gesù, che tiene teneramente in braccio, il quale, a sua volta, mostra all’umanità, peccatrice e bisogna di redenzione spirituale, il Santo Rosario come l’unico e solo mezzo di cui avvalersi, per potersi salvare dalla vita peccaminosa ed immorale che conduce sulla Terra.

Lo sfondo del quadro, infine, è dominato dal nero fumo e dalle dense fiamme che si innalzano minacciose dalle navi musulmane soccombenti, mentre su quelle cristiane, vittoriose, sventola il vessillo trionfatore della “Lega santa”, cioè la Croce cristiana.

Nell’altra Chiesa, quella Matrice, dedicata a Maria SS. Annunziata, è custodita una straordinaria scultura lignea, di grande suggestione ed imponenza, che nei fedeli «produce molta devozione» (D. Taccone-Gallucci, Monografia della Città e Diocesi di Mileto, cit., pag. 192).

Essa raffigura il Crocifisso ed è stata realizzata, verso la fine del Settecento, da un artista ignoto, appartenente alla Scuola napoletana, su commissione dell’omonima Confraternita sannicolese.

Ci piace, a questo punto, riportare l’efficace descrizione che della sacra Statua ci ha fornito, esattamente quarant’anni or sono (1965), quello, che, a buona ragione, può essere considerato il Padre degli studi storici sannicolesi ed a cui tutti noi, novelli ricercatori delle antiche memorie patrie, dobbiamo molto, Nicola Alberto Mannacio: «Non è veramente un Crocifisso: nel suo significato etimologico Crocifisso vuol dire “fisso in Croce”. Il nostro, invece, è un Cristo staccato dalla Croce. Sostenuto, per le braccia, da due Angioli, un altro, in ginocchio ai suoi piedi, raccoglie in un Calice il Divinissimo sangue, che, a fiotti, sgorga dal Sacro Costato. La testa del Nazareno, anziché piegata sul petto, naturale in qualsiasi cadavere, è reclinata leggermente a destra. Gli occhi, socchiusi, ma non spenti -di una bellezza e di un significato singolari- sono rivolti verso il calice, ricolmo di Sangue. Ai piedi del simulacro sono la corona di spine e i chiodi» (N. A. Mannacio, S. Nicola di Crissa e i suoi capolavori, cit., pag. 38).

Recentemente, un autorevole studioso d’arte sacra ha avanzato l’ipotesi che il virtuoso Autore del venerabile Simulacro possa identificarsi con lo scultore Michele Salerno, nato nella vicina Serra San Bruno, ma operante nella città partenopea.

Chiudiamo queste brevi note storiche su San Nicola da Crissa, che, lungi dalla pretesa di avere il carattere di esaustività, vogliono soltanto essere il grato omaggio di un figlio alla Terra che lo ha allevato, con l’auspicio che da esse le giovani generazioni sappiano trarre lo stimolo per dedicarsi agli studi storici patrii e rivolgersi, con pazienza, alla ricerca di quelle numerose informazioni sul luogo nativo, che ancora si ignorano.

E’ necessario, infatti, investigare ancora molto negli archivi, pubblici e privati, sparsi per l’Italia, al fine di raccogliere quelle notizie mancanti, che sono indispensabili per poter attendere ad una ricostruzione completa delle antiche vicende accadute in San Nicola, e fare un po’ più di luce su quelli che la tradizione storica riconosce ormai come i “secoli bui” dell’intera vita calabrese.

 

 

 

SAN NICOLA DA CRISSA E LE SUE “GIORNATE MEDICHE”

 

BREVE SINTESI  STORICA DELLA SCIENZA MEDICA IN CALABRIA

DALL’ANTICHITÀ AI GIORNI NOSTRI

 

Tra le varie manifestazioni culturali che ogni anno si svolgono in San Nicola da Crissa, ve n’è una che, rispetto alle altre, riveste una particolare importanza, per la rilevante funzione sociale che svolge, il rigore scientifico che l’anima, l’indiscutibile dottrina dei convegnisti che vi prendono parte ed il nutrito e qualificato pubblico che, ogni volta sempre più numeroso, riesce a richiamare.

Si tratta de “Le Giornate mediche-Incontarsi per camminare insieme”, giunte quest’anno alla loro XI edizione, essendo nate nel 1994 (con l’interruzione, però, di un anno) per iniziativa del prof. Francesco Martino, responsabile del Centro per lo studio delle dislipidemie infantili, presso il Dipartimento di Pediatria dell’Università “La Sapienza” di Roma, e del parroco don Salvatore Minniti, e che, con il passar del tempo, stanno riscuotendo sempre maggiori consensi.

Dopo il volontario trasferimento di don Salvatore Minniti in altro luogo della diocesi di Mileto, l’onere di organizzare questo Congresso grava sulle sole spalle del prof. Francesco Martino, il quale, però, riesce ad assolvere questo compito con l’antica passione, paziente cura e competenza professionale che lo hanno sempre distinto.

A questo nostro concittadino, pertanto, va riconosciuto il merito di diffondere sempre più, nel mondo esterno, una buona immagine del suo paese nativo, quale luogo, in cui, sia pure per pochi giorni all’anno, vengono ampiamente esposti e discussi interessanti argomenti di natura scientifica e medica di vitale importanza per tutti, grazie alla partecipazione di insigni studiosi di chiara fama, sia nazionale che internazionale, nel campo medico.

La particolare attenzione che la gente riserva alla trattazione di queste tematiche, la sua partecipazione ai relativi dibattiti non sono dettate da pura curiosità, ma, più semplicemente, da un’ardente voglia di essere informati sui risultati delle ultime ricerche scientifiche, effettuate sulle più gravi malattie di interesse pubblico che affliggono la società in cui oggi viviamo.

Non va dimenticato, infatti, che la conoscenza di un qualsiasi morbo e la sua cura preventiva costituiscono il rimedio più efficace per combatterlo e debellarlo, prima che esso insidi ed annienti per sempre il corpo umano.

Questo Convegno, dunque, ha un carattere tipicamente medico-scientifico divulgativo, in quanto, sin dal suo primo sorgere, si è prefisso lo scopo di avvicinare il Centro, dove si fa ricerca e ci si occupa per lo più delle malattie complesse, alla Periferia, dove il medico interviene sulle malattie più comuni con il preciso intento di sensibilizzare ed educare alla prevenzione amministratori, operatori e gente comune, grazie proprio a questa informazione ed interscambio di esperienze sanitarie.

Né, tanto meno, deve suscitare meraviglia il fatto che simili simposi si svolgano in un piccolo paese collinare della povera e derelitta Calabria, San Nicola da Crissa appunto.

La nostra regione, infatti, benché ciò possa apparire enfatico e presuntuoso (in verità, non lo è, se si pone mente per un solo attimo a quella che è stata, nei secoli passati, la sua gloriosa storia medica), è quella che, più di ogni altra, ha le carte in regola per offrire ospitalità a congressi di siffatta natura, per le ragioni storiche che ora andremo a spiegare, sia pure in maniera alquanto succinta, dettata dalla ristrettezza di spazio e di tempo concessici.

Le origini assai antiche ed illustri che vanta la scienza medica sanitaria sono ampiamente documentate dalla grande celebrità raggiunta dalla prima Scuola Medica, fiorita nella Crotone magnogreca nel VI e nel V secolo a. C., dove, secondo quanto annotato da Adalberto Pazzini, massimo storico della medicina italiana e fondatore dell’Istituto di Storia della Medicina dell’Università “La Sapienza” di Roma, «sono state formulate le prime leggi della biologia» (A. Pazzini, La Calabria nella storia della medicina, in “Almanacco Calabrese”, anno II [1952], pag. 49). I più illustri rappresentanti di questa Scuola sono stati Alcmeone e Democede.

Alcmeone è ritenuto, a buon diritto, dagli scienziati moderni il primo fisiologo, biologo, neuro-psicologo e le sue indagini in materia sono contenute nell’opera Ricerche anatomiche sul cervello.

Può essere considerato anche «il vero padre della medicina e dell’anatomia umana», avendo tentato addirittura la sezione dei cadaveri (A. Tafuri [recensore], Priolo F: Medici di Calabria, in “Calabria Nobilissima”, anno VI [1952], n. 17, pag. 225) e sappiamo pure che «ha studiato per primo il decorso dei nervi ottici» (W. Morabito, Alcmeone e Democede, in “Calabria Sconosciuta”, anno XIV [Gennaio-Marzo 1991], n. 49, pag. 75; D. Teti, Alcmeone e Pitagora, Padova, 1970, pag. 26 e segg.).

Democede, invece, ha costituito il primo esempio di chirurgo e di medico condotto, nel vero senso del termine (la considerazione appartiene allo storico della medicina S. De Renzi ed è riportata in A. Pazzini, La Calabria nella storia della medicina, cit., pag. 50; Erodoto, storico greco, V sec. a. C., Storie, III, 131).

È stato medico personale di Dario, re di Persia, che ha risanato da una «slogatura [….] abbastanza grave, dato che la caviglia gli era uscita fuori dalle articolazioni», procuratasi «in una partita di caccia alle fiere» (Ibidem, 129-130).

Grazie ad una profonda conoscenza ortopedica (è stato anche autore di un trattato sulle fratture delle ossa), Democede è riuscito là dove i valenti medici egizi della corte persiana erano falliti.

Quale metodo di cura così efficace ha potuto adoperare Democede da guarire in breve tempo il suo illustre paziente, che era tormentato, giorno e notte, da dolori assai atroci e non sperava più di riacquistare la funzionalità del piede?

È probabile che si sia servito della «tecnica “androplastica”, consistente in massaggi muscolari ritmici, usati a Crotone per tenere in forma il famoso atleta Milone» (M. A. Ruffo, L’avventurosa storia di Democede, medico a Crotone nel VI sec. a. C., in “Calabria Sconosciuta”, anno XX [Luglio-Settembre 1997], n. 75, pag. 40).

Democede è riuscito a guarire completamente da un grave tumore alla mammella, da cui era affetta, anche la moglie di Dario, Atossa, figlia di Ciro il Grande (E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, Milano, 1927, vol. II, pagg. 62-67; G. Brasacchio, Storia economica della Calabria, Chiaravalle Centrale [CZ], 1977, vol. I, pag. 144).

È nell’età medievale che l’arte medica calabrese ha conosciuto uno sviluppo pari a quello del periodo magnogreco, grazie alla febbrile attività di una vasta schiera di insigni studiosi, di cui annoveriamo qui soltanto quelli più autorevoli e rappresentativi, come:

-M. Aurelio Cassiodoro da Squillace (486 ca-580 ca), già ministro e segretario del re goto Teodorico, il quale, pur non essendo un medico, ha promosso, nel suo cenacolo di studi umanistici, il “Vivarium”, il risveglio dell’arte sanitaria, attraverso lo studio delle opere mediche classiche di Dioscoride, Ippocrate, Galeno e Celso Aureliano e «c’è da credere che l’influsso cassiodoriano sulla famosa Scuola medica salernitana sia stato tutt’altro che trascurabile» (F. Russo, Medici e veterinari calabresi [sec. VI-XV], Napoli, 1962, pag. 12; A. Galloro, L’antica spezierìa del Convento domenicano in Soriano. Aspetti di vita civile e religiosa in Calabria nei secoli XVII-XVIII, Vibo Valentia, 2001, pagg. 57-58; 151, nota n. 205).

-Maestro Ursone di Calabria, monaco benedettino, probabilmente della Valle del Crati, che, vissuto nell’epoca normanno-sveva (XII-XIII sec.), è stato uno dei rappresentanti più qualificati della Scuola Medica Salernitana nel periodo del suo maggior splendore.

È stato un espertissimo urologo, tanto che il suo trattatello, ricordato con il diverso titolo di De urinis o Tractatus de urinis oppure Regulae urinarum, ha fatto testo in tutto il Medio Evo.

È ritenuta, questa, «un’opera molto importante nello sviluppo della scienza dello studio delle urine, il cui esame, per la diagnostica di numerose malattie, era praticato già presso i Greci» (L. Lucania, Medici e medicina nella Calabria medievale, in “Calabria Sconosciuta”, anno III [Aprile-Giugno 1980], n.10,  pag. 16).

-Maestro Bruno da Longobucco (Cosenza) è stato uno dei chirurghi più famosi di tutta l’età medievale (XIII sec.) e, pertanto, salutato come «in re chirurgica ceterorum facile princeps» (T. Aceti, Adnotationes in Gab. Barrium, in F. Russo, Medici e veterinari calabresi [sec. VI-XV], cit., pag. 62).

Ha legato la sua fama a due trattati, Chirurgia magna e Chirurgia parva, composti a Padova, dove, oltre che a Verona, ha insegnato ed esercitato la sua professione.

-Nicola Ruperti o Deoprepio da Reggio Calabria, «un medico, che apportò un notevole contributo alla conoscenza di Galeno in Occidente e nello stesso tempo fu uno dei migliori e più apprezzati professionisti dell’evo angioino» (Ibidem, pag. 71).

È stato considerato «un miracolo di dottrina» ed indicato come il «vero promotore della medicina classica» (S. De Renzi, Storia della Medicina in Italia, Napoli, 1845, vol. II, pag. 287).

La sua notorietà, dunque, «è legata alle traduzioni delle opere di Galeno, cui si deve il merito di aver gettato le basi delle fisiologia sperimentale» (L. Lucania, Medici e medicina nella Calabria medievale, cit., pag. 16).

La sua figura ha dominato nella Napoli della prima metà del secolo XIV e, soprattutto, nell’ambiente di quell’ Università, dove ha insegnato medicina per lunghi anni (F. Russo, Medici e veterinari calabresi [sec. VI-XV], cit., pag. 71).

-Maestro Nicola da Grotteria, che «viene ricordato verso il 1430 come “philosophus et medicus celeberrimus” [….], che avrebbe trovato un antidoto contro la peste» (Ibidem, pag. 113).

-Vincenzo Vianeo (XV sec.), celebre chirurgo («famosissimus chirurgus») da Maida, precursore della chirurgia plastica, specialmente della rinoplastica, famoso in tutto il Regno di Napoli per aver praticato, per primo, su diversi pazienti la plastica facciale e ciò in data anteriore agli analoghi interventi realizzati dai più noti Branca, operanti in Catania (A. F. Parisi, I Vianeo di Maida e l’invenzione della plastica, in “Historica”, anno V [1952], n. 4-5, pagg. 169-171).

Strano a dirsi, ma il Vianeo è riuscito a realizzare, quasi sei secoli or sono, delle mirabili operazioni chirurgiche, volte a ricostruire ed a far tornare perfetti, così come la natura li aveva generati, labbra e nasi mutili (G. Barrio, De antiquitate et situ Calabriae, Roma, 1571, traduzione italiana curata da E. A. Mancuso [Antichità e luoghi della Calabria di Gabriele Barrio], Cosenza, 1979, pag. 237).

Questo metodo, detto “autoplastico”, perché ottenuto innestando nel paziente i tessuti prelevati dal suo stesso corpo, inventato da Vincenzo Vianeo, è stato, più tardi, «perfezionato e divulgato dai suoi figli o nipoti, Pietro e Paolo», trasferitisi, nel frattempo, a Tropea e da qui è nata la dibattuta questione, che divide tuttora gli studiosi di storia di entrambi i luoghi in contesa, se cioè l’effettiva patria dei Vianeo debba considerarsi Maida o Tropea (F. Russo, Medici e veterinari calabresi [sec. VI-XV], cit., pag. 115; A. F. Parisi, I Vianeo di Maida e l’invenzione della plastica, cit., pagg. 169-171).

Non è mancato, dunque, chi ha voluto ritenere l’intera famiglia Vianeo nativa di Tropea (il loro metodo risanatore, per questo, è stato definito magia tropoënsium e la rinoplastica [o plastica facciale] è divenuta una gloria di questa splendida città turistica tirrenica) e sospettare che Vincenzo Vianeo possa essere stato «forse allievo dei Branca».

Da questi chirurghi catanesi, infatti, egli avrebbe appreso e trasferito, dalla Sicilia in Calabria, quella particolare tecnica operatoria di cui si è detto sopra, che gli consentiva, con straordinaria maestria, non solo di riparare normali lesioni delle labbra e dei nasi, ma addirittura di correggere in essi gravi difetti e deformità, di natura sia funzionale che estetica (A. Pazzini, La Calabria nella storia della medicina, cit., pag. 51).

Tra la prima metà del XVI e quella del XVII secolo, è brillato l’astro di Giulio Giasolino (o Jasolino), nato a Monteleone (oggi Vibo Valentia) da un’agiata famiglia patrizia tra il 1537 ed il 1538 e morto a Napoli intorno al 1622 (V. Capialbi, Giulio Iasolino, in “Biografia degli Uomini illustri del Regno di Napoli”, tom. VIII, Napoli, 1822; L. Accattatis, Uomini illustri delle Calabrie, Cosenza, 1870, vol. II, pagg. 66-69).

Andava orgoglioso di essere nato a Monteleone e, per questa ragione, nelle sue  non numerose pubblicazioni non mancava di sottolinearlo, definendosi «medicus Hipponiata» (P. Buchner, Giulio Iasolino medico calabrese del Cinquecento che dette nuova vita ai bagni dell’isola d’Ischia, in “Archivio Storico per la Calabria e la Lucania”, anno XVIII [1949], fasc. III-IV, pagg. 101-120).

La sua fama di insigne studioso era tale, nel mondo medico napoletano, che «il Nostro appare come perito quando Fra Tommaso Campanella fu processato a Napoli, [….] per avere organizzato una congiura contro gli Spagnoli ed aizzato la popolazione abbandonata con le sue prediche violente. La rivolta fu soffocata nel sangue e Fra Campanella imprigionato» (Ibidem, anno XXI [1952], fasc. III-IV, pag. 146).

La popolarità di questo scienziato ha varcato, ben presto, i confini nazionali, non solo perché i suoi studi anatomici sono stati editi in Germania dal Volkamer e dal Severino, il migliore dei suoi discepoli, di cui si dirà più approfonditamente appresso, ma anche per il fatto che ha avuto cura di «tenere viva a Napoli una scuola, che fu importantissimo vivaio di medici e studiosi di tutta Europa, tra i quali il danese Bartholin» (W. Morabito, Giulio Jasolino, in “Calabria Sconosciuta”, anno X [Luglio-Dicembre 1987], n. 39, pag. 93).

Tra i suoi scritti, ricordiamo, particolarmente, l’opera De’ rimedi naturali che sono nell’isola di Pithecusa hoggi detta Ischia, in due libri, pubblicata a Napoli nel 1588, con la quale il Giasolino dava nuova vita, facendoli nuovamente risorgere, ai bagni dell’isola di Ischia, sottolineando, con vivo interesse scientifico, gli straordinari benefici apportati all’uomo dalle sue calde, perché di origine vulcanica, sorgenti termali; Quaestiones anatomicae et osteologia parva (1573: l’osteologia è quella branca dell’anatomia che studia la struttura delle ossa) ed altri importanti studi sulle vie biliari, cistifellea, fegato e cuore (P. Buchner, Giulio Iasolino medico calabrese del Cinquecento che dette nuova vita ai bagni dell’isola d’Ischia, cit., anno XIX [1950], fasc. II, pagg. 103-116; anno XVIII [1949], fasc. III-IV, pagg. 101-120).

È stato allievo prediletto del grande maestro siciliano Filippo Ingrassia, titolare della cattedra di medicina e chirurgia pratica presso l’Università di Napoli, che nutriva per lui una vera e propria venerazione, tanto da definirlo, in perfetta lingua latina, come si conveniva alle persone dotte del tempo, in pubblico «artium et medicinae doctor celeberrimus, anatomicarumque aggressionum peritissimus» ed in privato «Juli mi dilectissime» (Ibidem, anno XVIII [1949], fasc. III-IV, pag. 117).

Il Giasolino, dunque, ne ha preso, ancora giovanissimo, il posto accademico (pare che abbia insegnato anche a Padova e Bologna), per cederlo, alla sua morte, al più geniale dei suoi allievi, Marco Aurelio Severino.

A Giulio Giasolino, i Vibonesi, orgogliosi di cotanto nome e grati per la fama trasmessa alla loro comune patria, hanno dedicato il loro ospedale civile, nel cui atrio è possibile ammirare la statua bronzea dello scienziato, che lo ritrae a mezzo busto, in età avanzata.

Il Severino, succeduto al suo Maestro Giasolino, è stato ritenuto, a sua volta, da non pochi storici della medicina il più grande chirurgo della sua età ed un grande rigeneratore della chirurgia italiana, per la sua valentia professionale e per l’audacia con cui ha posto in essere alcune tecniche rivoluzionarie ed innovative, eseguendo delle operazioni chirurgiche molto ardite per quei tempi: si pensi, ad esempio, alla broncotomia o tracheotomia (A. Pazzini, La Calabria nella storia della medicina, cit., pag. 51).

Nato a Tarsia nel 1580 e morto di peste a Napoli nel 1656, è stato docente di anatomia e chirurgia presso l’Università partenopea, ove ha composto importanti opere di contenuto anatomico.

A lui, nell’insegnamento della stessa disciplina, è subentrato un altro calabrese nonché suo amico, Tommaso Cornelio da Rovito (casale di Cosenza), che era in buoni rapporti con l’anatomista Marcello Malpigli e che ha svolto degli studi interessanti sulla milza e la digestione.

Vi sono stati in Calabria, dunque, uomini illustri anche nel campo della medicina, che, grazie al loro fervido ingegno e al paziente lavoro di ricerca svolto, hanno saputo, nelle età trascorse, onorare la loro Terra e fornire un fattivo e rilevante contributo allo sviluppo dell’arte sanitaria e del progresso umano tutto.

Tra gli altri numerosi medici calabresi del Seicento, emergono G. Cesare Comerci da Mileto, famoso ai suoi tempi e tenuto in grande considerazione per aver guarito Filippo II di Spagna e Carlo Musitano da Castrovillari, attento studioso dell’ulcera, delle tonsille e, soprattutto, della sifilide, che ha considerato, per primo, come una malattia costituzionale (Ibidem, pagg. 52-53).

Anche nel secolo XVIII i medici calabresi hanno saputo imprimere il loro nome nella storia della scienza medica.

Tra costoro, ricordiamo:

-Francesco Rognetta da Reggio Calabria, che, esule in Francia, perché avversato dai Borboni, ha insegnato per un decennio alla prestigiosa Sorbona ed ha compiuto pazienti ricerche nel campo della chirurgia urinaria (Ibidem, pag. 54).

-Agostino Casini da Cosenza, docente di patologia chirurgica nell’Ateneo di Napoli, cui «si deve uno dei primi interventi di chirurgia toracica su focolai tubercolari» (Ivi).

Ci piace completare questa sommaria indagine sui medici calabresi, dall’età magnogreca fino ai primi del Novecento, ricordando, per ultimi, Francesco Morano, Rocco Iemma ed Antonino Anile.

Il medico Francesco Morano (Monterosso Calabro, 1837-Napoli, 1904) è stato un eccellente oftalmologo e, conseguita la specializzazione in oculistica in Italia, per meglio perfezionarsi in questo ramo della medicina, non ha esitato a recarsi in Germania ed in Austria.

È autore di pregevoli studi nella sua materia (Ibidem, pag. 55).

Il suo nome è molto noto ai bibliofili calabresi e di tutto il Mezzogiorno d’Italia, che gli devono eterna gratitudine, perché, avendo egli speso gran parte della sua vita a ricercare opere di scrittori calabresi di tutti i tempi, le ha, poi, adunate in una copiosa “Biblioteca Calabra”,  che, con grande ed insolita generosità, ha donato nel 1898 alla Biblioteca Nazionale di Napoli, dove oggi costituisce il cosiddetto “Fondo Morano” (V. G. Galati, Gli scrittori delle Calabrie, Firenze, 1928, vol. I, pagg. 8-9).

Rocco Iemma, nato a Laureana di Borrello (Reggio Calabria) nel 1866 e deceduto a Napoli nel 1949, può essere considerato «il fondatore della pediatria in Italia e di una grande scuola di medicina applicata all’uomo nelle prime fasi dello sviluppo, dalla nascita alla pubertà» (A. Sesti, La scienza medica in Calabria attraverso i tempi, in “Calabria Sconosciuta”, anno II [Luglio-Dicembre 1979], n. 7-8, pag. 71).

Egli ha ricoperto per lungo tempo la carica di direttore della clinica pediatrica dell’Ateneo napoletano e «le ricerche da lui effettuate e le conquiste realizzate nel campo della tubercolosi infantile, della leishmaniosi viscerale, della patogenesi delle anemie splenomegaliche, della vaccinoterapia nelle malattie infettive acute, dell’immunità del lattante, ecc., fanno di Iemma il vero iniziatore di una scuola, continuata da una fiorente corona di discepoli, che ne perpetuano la memoria e l’insegnamento» (A. Pazzini, La Calabria nella storia della medicina, cit., pag. 55)

Antonino Anile, infine, nato a Pizzo Calabro nel 1869 e morto a Raiano (L’Aquila) nel 1943, ha legato il suo nome, oltre che alla riconosciuta competenza professionale di insigne anatomista, anche all’attività parlamentare, avendo rivestito la carica di Sottosegretario di Stato alla P. I., prima, e di Ministro dello stesso dicastero, dal luglio 1921 all’ottobre 1922, poi.

Ha insegnato, dal 1908 al 1911, presso la Facoltà di Scienze dell’Università di Napoli ed ha composto interessanti trattati anatomici, tra i quali ricordiamo:

Note anatomiche, Napoli, 1896; Osservazioni e interpretazioni anatomiche, Napoli, 1900; Elementi di Anatomia umana topografica, Napoli, 1915; Torino, 1918 ; Trattato di Anatomia sistematica dell’Uomo, Napoli, 1919.

Uomo di vasta cultura, è stato anche saggista e poeta delicato e gentile (V. G. Galati, Gli scrittori delle Calabrie, cit., vol. I, pagg. 159-161; G. Valente, Dizionario bibliografico, biografico, geografico e storico della Calabria, Chiaravalle Centrale [CZ], 1988, vol. I, pagg. 228-230).

Per concludere, possiamo affermare, senza esagerazione alcuna o tema di essere smentiti, che “Le Giornate mediche-Incontarsi per camminare insieme”, che si svolgono in San Nicola da Crissa nei primi giorni del mese di agosto di ogni anno, possono giustamente inserirsi nel solco di quell’antica e gloriosa tradizione storica di cui si è qui ragionato, che ha visto primeggiare la nostra regione, nel campo della scienza sanitaria, su tutte le altre del pur evoluto vasto bacino del mar Mediterraneo e delle terre ad esso limitrofe.

                                                                                                     

 

                                                                                      

San Nicola da Crissa (VV), luglio 2005.