PROFILO STORICO DI SAN NICOLA DA
CRISSA (VV)
di
Antonio Galloro
1. DESCRIZIONE
GEO-TOPOGRAFICA E NATURALISTICA
San Nicola da Crissa,
comune della neo provincia di Vibo Valentia, è un paese che si trova adagiato
sui contrafforti sud-occidentali di quella parte della dorsale appenninica
calabrese, conosciuta meglio con l’appellativo di “Serre catanzaresi”, che
digrada verso il mar Tirreno.
È addossato alla ripida scarpata di un ampio terrazzo, che, quale prosecuzione a nord del sovrastante Monte Cucco (958 m), declina verso il Golfo di Sant’Eufemia, e gravita all’interno del bacino idrografico dell’Angitola (G. Valente, Dizionario dei luoghi della Calabria, Chiaravalle Centrale [CZ], 1973, vol. II [M-Z], pag. 913, sub voce; S. Donato, Sviluppo sostenibile e trasformazioni del territorio, Reggio Calabria, 1998, pag. 43 e segg.).
L’intero nucleo
abitativo del nostro luogo è delimitato da due valloni: uno posto sul lato
nord-est, dentro cui scorrono le acque del torrente Fellà (ma anche Fallà),
l’altro ubicato su quello sud-ovest, denominato, nelle relative carte
topografiche, “Fosso di Gianferrante” (per i Sannicolesi “Giamperrante”),
probabilmente dal nome di un antico feudatario locale, ma meglio conosciuto in
situ come “Ddorico”, con allusione, forse, ad un altro non meglio
specificato proprietario terriero (tal “don Enrico”?).
Nel canale o solco
fluviale “Ddorico” fluisce un ruscello, composto prevalentemente da acque
sorgive, che, nel periodo invernale, vengono ingrossate da quelle piovane
provenienti dalla parte alta del paese, dopo essere state opportunamente
convogliate.
Appare superfluo
sottolineare, a questo punto, come gli abitanti del borgo, nei secoli passati,
quando ancora non potevano fruire degli innegabili vantaggi apportati dal
servizio idrico domestico, si siano serviti di questi due corsi d’acqua e di
altri prossimi all’abitato, per soddisfare i loro primari bisogni quotidiani,
sia quando la preziosa sostanza liquida era utilizzata sul posto per il lavaggio
della biancheria, l’irrigazione dei poderi circonvicini coltivati, la pulizia
del proprio corpo, ecc., sia allorché veniva trasferita in casa, a costo di
pesanti fatiche fisiche, per uso alimentare o igienico-sanitario.
Dal punto di vista
naturalistico, San Nicola da Crissa è inserito in un ambiente il cui paesaggio
è ancora dominato dalla considerevole presenza di vasti e folti boschi, prati
fioriti e pascoli verdeggianti, e studiosi del settore, con la collaborazione
del World Wildlife Fund (WWF), hanno rilevato molto giustamente che,
all’interno del suo territorio, «la montagna si ammanta di grandi esemplari
di leccio e castagno» (F. Pratesi-F. Tassi, Guida alla natura della Puglia,
Basilicata e Calabria, Milano, 1979, pag. 206).
Per quanto concerne
l’altitudine, esso è posto a 510 m sopra il livello del mare, ma, poiché è
ubicato su un costone dall’andamento irregolare ed in forte pendio, è
possibile riscontrare, tra la parte più bassa dell’abitato e quella più
alta, dove solo di recente si è registrato un modesto sviluppo urbanistico, una
differenza di quota altimetrica o dislivello che supera abbondantemente i 100 m.
Il fatto, poi, che
il suo primo nucleo abitativo sia stato fatto sorgere volutamente lungo gli
scoscesi fianchi collinari di una montagna, piuttosto che sulla sua contigua
parte alta e pianeggiante (i cosiddetti “Piani”, posti tra San Nicola da
Crissa ed il vicino borgo di Vallelonga), lascia pensare molto verosimilmente
che i suoi fondatori, in maniera alquanto oculata, si siano maggiormente
preoccupati di insediarsi in un luogo, che, seppure poco felice a causa della
sua particolare conformazione geomorfologica, poteva ritenersi, però, più
salubre climaticamente.
L’attuale sito,
infatti, è collocato al riparo dall’infuriare del vento e dall’imperversare
della nebbia provenienti dal Monte Cucco.
Quest’altura, vuoi
per la sua considerevole altitudine e vuoi anche perché costituisce, nel
sistema orografico dell’intero territorio in cui essa insiste, il più aperto
valico di collegamento tra i due versanti costieri calabresi, il tirrenico e lo
jonico, spesso meteorologicamente opposti, è da sempre flagellata da condizioni
atmosferiche molto inclementi.
Nell’Apprezzo
dello Stato di Soriano, redatto nel 1650 dal regio ingegnere fiscale A.
Tango per conto della Corte spagnola, è detto che il nostro paese «è d’aere
meglior dell’altre Terre per stare esposto á mezzo giorno, et in altura (e)
tiene detta Terra buon’acqua con più fontane fredde d’estate» (A. Barilaro
[a cura di], Apprezzo dello Stato di Soriano in Calabria Ultra [del] 1650 di
A. Tango, Oppido Mamertina [RC], 1982, pag. 145).
Proprio perché
il nostro casale si trova adagiato sopra un vasto ripiano naturale, esso è in
grado di offrire agli abitanti del luogo ed ai visitatori forestieri, in
qualsiasi sua parte essi si collochino, la vista di un paesaggio di vero
incanto.
È possibile,
infatti, spingere lo sguardo fino ad abbracciare, con un’unica orbita visiva,
il bacino idrografico del Mesima e quello dell’Angitola, per non dire che,
nelle giornate più chiare e luminose, si riesce persino a vedere l’estrema
punta nord-orientale della Sicilia ed il vulcano Etna.
Si racconta che
il re Ferdinando II di Borbone, essendo un giorno capitato nell’attuale Piazza
Crissa, estasiato davanti ad un così straordinario spettacolo della natura,
abbia definito l’intero nostro villaggio «balcone delle Calabrie».
Non conosciamo
quando quest’evento possa essere avvenuto, se cioè nel 1833, allorché per la
prima volta «Ferdinando II visita la Calabria e s’inerpica fino a Serra S.
Bruno con tutto il suo numeroso ed eterogeneo seguito, [….] (per presenziare
alla) inaugurazione della Ferdinandea, fonderia succursale di Mongiana»
oppure nell’ottobre del 1852, quando ha deciso di ispezionare a
sorpresa la nuova fabbrica di armi di Mongiana, realizzata in sostituzione di
quella che era stata distrutta due anni prima da una disastrosa alluvione (B. De
Stefano Manno-G. Matacena, Le Reali Ferriere ed Officine di Mongiana,
Napoli, 1979, pagg. 55, 63-64; R. De Cesare, La fine di un Regno, Napoli,
1969, vol. I, pagg. 17, 29-33).
Sappiamo per certo,
però, che «il 16 ottobre 1852, [….] a San Nicola da Crissa (la
sottolineatura è nostra ed è stata apposta per evidenziare l’anacronismo
della dizione), dove incomincia più ripida la salita, quasi a mezza via fra
l’Angitola e Serra, il corteo si fermò presso la magnifica sorgente delle cento
fontane. Il re scese a bere (ed a mangiare, poiché, essendo prossimo il
mezzogiorno, sentiva appetito) e n’è rimasta la memoria» (Ibidem, pagg.
32-33).
E’ assai
probabile, dunque, che, in questa medesima circostanza, invitato a visitare San
Nicola dalla stessa popolazione in festa che lo aveva accolto all’ingresso del
paese, abbia voluto onorare, con la sua augusta persona, il nostro misero luogo
e, una volta entrato nell’abitato, sia stato
condotto nella piazza antistante alla Chiesa Matrice.
2. ORIGINE
STORICA
Volendo ora
ricostruire, succintamente, le origini storiche del nostro villaggio, è
opportuno sottolineare come la sua fondazione risalga, al pari del resto di
quella di molti altri luoghi calabresi, all’età altomedievale, più
precisamente al periodo della dominazione bizantina (VII-IX sec. d. C.). Secondo
il nostro parere, esso non è sorto direttamente «come
casale della Baronia di Vallelonga», come sostiene G. Valente, anche se
poi per lunghi anni ha vissuto questa condizione di subalternità,
ma deve ritenersi piuttosto il risultato della presenza di monaci
basiliani (G. Valente, Dizionario dei luoghi della Calabria,
cit., vol. II [M-Z], pag. 913, sub voce).
Questi religiosi,
infatti, provenienti dall’Oriente cristiano (prevalentemente dalla Grecia,
Siria, Egitto, Palestina) e dalla Sicilia, invasi in quel tempo dagli Arabi,
hanno deciso di rifugiarsi nelle nostre silenziose contrade, per sfuggire alle
persecuzioni ereticali ed alla dominazione musulmana, le quali, oltre a mettere
in serio pericolo la propria vita, minacciavano soprattutto di far scomparire la
loro cultura, di cui erano gelosi custodi e che intendevano conservare a lungo
integra.
I pazienti lettori
vogliano perdonarci questa breve digressione, ma non possiamo non ricordare che
è stato proprio in questo particolare periodo storico che la nostra regione ha
perso il suo antico nome di “Brutium”, per assumere quello di
“Calabria”, con cui si designava nell’antichità l’odierna penisola
salentina, corrispondente, in Puglia, al cosiddetto “Tallone d’Italia” (M.
Schipa, La migrazione del nome “Calabria”, in “Archivio Storico
della Calabria”, Anno I [1912-1913], pagg. 7-24: L. Gambi, Calabria,
vol. XVI della collana Utet “Le regioni d’Italia”, Torino, 1965, pag. 4).
Giunti qui da noi, i
Seguaci di San Basilio hanno subito creato numerose comunità monastiche (“laure”),
in cui conducevano una vita rigorosamente eremitica.
Ben presto, però,
attorno ai loro monasteri sono sorti i primi agglomerati di case, destinate ad
ospitare profughi, agricoltori e pastori, desiderosi di stare vicino a quei
religiosi, non solo per soddisfare un intimo bisogno spirituale attraverso una
costante cura della propria anima, ma anche per imparare, dall’osservazione
diretta della loro laboriosa vita quotidiana, il modo di eseguire alcuni lavori,
che si rendevano estremamente necessari per partecipare concretamente alla vita
della comunità ed assai utili per meglio difendersi dalle continue minacce di
un’ostile Natura (D. L. Raschellà, Saggio storico sul monachesimo
italo-greco in Calabria, Messina, 1925, passim; P. Orsi, Le Chiese
basiliane della Calabria, Firenze, 1929, passim; B. Cappelli, Il
monachesimo basiliano ai confini calabro-lucani, Napoli [collezione storica
della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, vol. III], 1963, passim).
E’ così che i
nostri antenati hanno imparato o affinato la tecnica per lavorare i campi
devastati ed incolti, al fine di renderli ubertosi e predisporli alla
coltivazione di messi, uliveti e vigneti; allevare gli animali domestici, da
impiegare nei pesanti lavori agricoli e da cui ricavare cibo e indumenti;
costruire case e sistemare strade; canalizzare le acque ed arginare quelle
impetuose delle fiumare; risanare i luoghi paludosi ed infetti dalla malaria;
coltivare il gelso ed allevare il baco da seta (F. Albanese, Storia di S.
Onofrio di Chao, Polistena, s. d., pagg. 8-17).
Tutto questo, senza
dimenticare che veniva offerta loro un’occasione più unica che rara per
venire a contatto con mestieri od occupazioni artigianali di cui prima
ignoravano addirittura l’esistenza, e, qualche volta, limitatamente a quelle
poche persone che si mostravano idonee ad accostarsi ad un’assai elementare
forma di istruzione e disposte a recepirla, per apprendere i rudimenti del saper
leggere, scrivere e far di conto, essendo quei monaci dotati di un’elevata
dottrina e cultura.
Ciò non deve
sorprendere, ove si pensi che anche la Regola di San Basilio, cui i suoi monaci
dovevano uniformarsi, ricalcava perfettamente lo spirito di quella di San
Benedetto da Norcia (Ora et labora).
Per gli appartenenti
ad entrambi gli ordini monastici, infatti, l’Amore verso Dio consisteva
nell’armoniosa fusione tra preghiera e meditazione, da una parte, e vita
attiva e laboriosa, dall’altra, nella sapiente coniugazione della pratica
religiosa, caratterizzata da un atteggiamento ascetico e penitenziale, con
un’intensa attività operosa e lavorativa per se stessi e, specialmente, per
l’indigente collettività circostante.
Sono nate, in tal
modo, delle «piccole comunità popolari a livello agricolo, di cui i monaci non
rappresentavano solo la guida religiosa e spirituale, ma l’epicentro intorno a
cui gravitava tutta l’organizzazione sociale della collettività nei suoi vari
aspetti: da quello culturale a quello agricolo» (F. Lacava Ziparo, Dominazione
bizantina e civiltà basiliana nella Calabria prenormanna, Reggio Calabria,
1977, pag. 101, ma anche 78-79, 106-111).
Domenico Teti, in un
suo interessante saggio in argomento, pubblicato esattamente dieci anni fa,
ricorda che «la Calabria fu oggetto di una vera e propria pacifica invasione da
parte di questi uomini di Dio, in cerca di luoghi tranquilli e solitari, in cui
compiere il proprio cammino di santificazione» (D. Teti, Quei monaci, nostri
antenati, in “La Barcunata”,
periodico della “Pro Loco” di San Nicola da Crissa, anno I [1995], n. 1,
pag. 3).
L’acuto
Studioso di problemi religiosi sannicolesi tenta, poi, di «ricostruire
con sufficiente plausibilità» la storia dell’insediamento dei monaci
basiliani nel nostro sito ed argomenta che il conio di alcuni termini
dell’antica toponomastica sannicolese, indicanti rioni tuttora esistenti, come
“Monacella”, “Cutura”, “Tripona”, ecc., potrebbe essere riferito
proprio a questa lontana presenza basiliana ed alle particolari condizioni
ambientali e naturali, in cui la nostra Terra anticamente si è presentata ai
loro occhi.
La stessa primitiva
denominazione del luogo, “Santo Nicola de junco” (altre dizioni: “della
Junca” o “de Juncis”), al di là di qualsiasi altra motivazione di ordine
paesaggistico che non può non richiamarci alla mente, per la particolare natura
del suolo e la vegetazione che lo rivestiva, la presenza in situ di acquitrini e giuncaie (da qui anche la provenienza del
termine “Pantano”, corrotto in “Pontani”, per ricordare un rione ancora
oggi abitato), contiene nascosto in questa sua specificazione toponimica (“de
junco”) un significato simbolico di grande rilevanza morale, in quanto la
pianta del giunco, nella tradizione cristiana, rappresenta, per la sua
flessibilità, l’immagine della santa umiltà, ideale per ogni monaco.
I nostri avi,
dunque, a questo loro primo insediamento abitativo hanno dato il nome di “San
Nicola”, denominazione, questa, che trarrebbe origine dalla prima chiesa
conventuale ivi edificata, la quale, a sua volta, «prende il nome dal Santo più
amato da tutta la cristianità, il “Padre Gerarca Nicola”, che
da quel momento diviene l’amatissimo
protettore del luogo» (Ibidem, pag. 12).
In età
bassomedievale, cioè dopo l’anno Mille, della storia del nostro paese si
conosce assai poco, poiché tutte le vicende in cui è stato in qualche modo
coinvolto o di cui è stato protagonista sono contenute in carte archivistiche,
che ancora devono essere pazientemente rinvenute ed attentamente e rigorosamente
esaminate.
N. A. Mannacio, ad
esempio, nell’informarci che «nel 1134 S. Nicola era denominato S. Nicola
della Junca (o de Juncis), [….] come si rileva dallo stesso manoscritto dei
due Missionari [….] mandati qui perché richiamassero il popolo alla luce
della Fede, e potesse, così, essere annullata la scomunica comminata sin dal
1130 circa», non trascura di porre l’accento sul fatto che poco dopo, cioè
«nel 1139 [….] era membro della Terra di Vallelonga» (N. A. Mannacio, S.
Nicola di Crissa e i suoi capolavori, Napoli, 1965, pagg. 19-21).
La puntualizzazione
storica del Mannacio tende a dimostrare come, nel volgere di pochi anni, il
primitivo nome “Santo Nicola della Junca” (o “de Juncis”) si sia
trasformato in quello più articolato di “Santo Nicola della Terra di
Vallelonga” o, più semplicemente, “Santo Nicola di Vallelonga”.
Molto
probabilmente, l’ulteriore specificazione “della Terra di Vallelonga”, che
era riuscita a scalzare quella originaria “della Junca”, mirava a
sottolineare, in buona sostanza, l’appartenenza feudale di San Nicola a questo
centro urbano ad esso assai vicino, dove del resto dimorava il signore del feudo
in un palazzo gentilizio o castello.
Lo attestano,
inequivocabilmente diversi importanti atti ufficiali di indubbio valore storico,
in cui si trova riportata l’indicazione “di Vallelonga”.
Ad esempio, nel
ragguardevole studio di D. Vendola, riguardante il pagamento alla Chiesa delle
decime da parte dei presbiteri del tempo, il nostro luogo, relativamente
all’anno 1310, è menzionato con il nome di «S. Nicolai de Valle Longa» (D.
Vendola, Rationes decimarum Italiae nei
secoli XIII e XIV. Apulia-Lucania-Calabria [Studi e Testi, 84], Città
del Vaticano, 1939, pag. 283, doc. n. 4009).
Nella stessa Relazione
ad Limina che il cardinale Felice Centini, vescovo di Mileto, ha inviato al
Sommo Pontefice nel 1612, è detto, molto chiaramente, che «la Contea di
Vallelonga, oltre al paese, che per l’ingiuria dei tempi è quasi distrutto,
comprende i villaggi di Vazzano con mille rurali, di Pizzoni con 1.300 abitanti,
e infine S. Nicola» (T. Mannacio, La Confraternita del Crocifisso, Vibo
Valentia, 1993, pag. 17).
Né, tanto
meno, deve stupirci il fatto che una persona colta ed erudita come il
giureconsulto Gian Giacomo Martini, abate curato di San Nicola nella prima metà
del Seicento, nonché vicario generale del summenzionato Card. Felice Centini,
non lasci trasparire all’esterno più del dovuto, per comprensibili ragioni di
discrezione e buon senso, la soggezione della sua «dulcis patria» alla
contigua Vallelonga.
Infatti, dopo
essersi qualificato, nel lungo titolo della sua unica opera pubblicata e di cui
si dirà più approfonditamente in seguito (Consiliorum,
sive responsorum iuris…, Sancti
Nicolai, 1635), come cittadino nato «a Sancto Nicolao a Junca»,
sostiene sì, all’interno del suo stesso lavoro, che il casale di «Santo
Nicola [….] si trova in territorio di Vallelonga» (pag. 8, cons. n. 15), ma
lo fa in una maniera così blanda e vaga, lieve e generica da indurre qualsiasi
lettore a pensare che si tratti di una semplice precisazione, avente solo il
valore di riferimento geografico e nessuna rilevanza giurisdizionale (T.
Mannacio, La Confraternita del Crocifisso, cit., pag. 239; V. Capialbi, Memorie
delle tipografie calabresi, II ediz. a cura di C. F. Crispo [I ediz. Napoli,
1835], Roma, 1941, pagg. 54-55).
Questa riservatezza,
però, viene rotta, allorquando il Nostro decide di difendere i legittimi
diritti dell’Università di San Nicola a Junca contro la Terra e l’Università
di Vallelonga.
Avendo, infatti, i
due paesi, proprio perché contigui, in comproprietà dei beni naturali, come
boschi, campi, fiumi, ecc., il Martini si domanda se non sia giusto che gli
abitanti di San Nicola a Junca godano dei benefici derivanti dal comune possesso
di tali ricchezze spontanee del creato, al pari dei vallelonghesi, senza per
questo dover pagare i relativi tributi a Vallelonga, di cui il loro luogo è
casale.
Egli chiede,
pertanto, che venga riconosciuto ai Sannicolesi il pieno diritto di poter fruire
liberamente dei prodotti delle selve (legna, ghiande, castagne, funghi, ecc.) e
dei campi (pascoli per il bestiame, erbe d’ogni genere da mangiare cotte o
crude) che si trovano tra le due Terre, compreso l’utilizzo delle acque
fluviali o d’altra natura (Consiliorum…., pag. 17, cons. n. 86, 87 e
segg. : «libertas aquandi, alligandi et pascendi»).
La formulazione di
siffatte domande nasconde in sé una ben più amara verità e cioè che i
rapporti sociali tra i due paesi erano tutt’altro che cordiali e la causa di
tanta tensione andava ricercata, più che nel tradizionale antagonismo che
spesso nasce tra due luoghi viciniori, nella pretesa supremazia della comunità
vallelonghese, che non perdeva occasione per esternare forme di arroganza e
prepotenza ai danni di quella sannicolese.
Non stiamo dicendo
alcunché di strano, ma ci limitiamo a rilevare ciò che la storia dei popoli
quotidianamente ci insegna e cioè che molto spesso vicinitas discordiarum causa est, per le assurde rivalità e forme di invidia e gelosia che è
capace di suscitare nell’animo umano.
Un
uomo sensibile e di grande tempra morale come il Martini deve aver vissuto
questa situazione di contrasto tra i due casali con molta sofferenza morale e ciò
non tanto per un pur comprensibile orgoglio municipalistico, diretta conseguenza
del suo forte attaccamento al luogo natio, quanto piuttosto perché si sentiva
gravemente offeso, come persona, uomo di Chiesa e studioso di diritto, da quelle
forme di ingiustizia sociale e di violazione dei più elementari «iura
civitatis (sannicolensis)», le cui ragioni ed interessi intendeva per questo
difendere.
Tornando
al discorso interrotto relativo al rapporto feudale tra Vallelonga e San Nicola,
la Curia romana, in un atto ufficiale datato «Gennaio 1601» in cui si parla
proprio «de parochiali ecclesia S. Nicolai [….] (et) Io. Iacobo de Martino,
clerico oriundo», definisce, con quella proprietà linguistica di tipo
giuridico che le è propria, il nostro paese «districtus terrae Vallelungae»,
dove il termine «districtus» equivale a “contado”, cioè ad un territorio
sottoposto all’autorità di un conte o al dominio di un altro feudatario (F.
Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, Roma, 1979, vol. V,
pag. 290, doc. n. 25653).
Se, però, assumiamo
come terminus a quo della subordinazione feudale di San Nicola nei
confronti di Vallelonga, protrattasi poi per diversi secoli, l’anno 1139,
quale lettura bisognerà dare ad un documento della “Cancelleria Angioina”,
datato 1278, in cui è detto che esso era «casale di Rocca Niceforo»,
considerato che, in quel tempo, tre luoghi calabresi portavano lo stesso nome di
Rocca (di) Niceforo? (Accademia Pontaniana, I Registri della Cancelleria
Angioina, a cura di R. Filangieri, vol. XX [1277-1279], Napoli, 1966, pag.
252, doc. n. 683).
Ora, esclusa, per
ovvie ragioni di distanza, la terza Rocca Niceforo, posta nelle immediate
vicinanze di Tiriolo e divenuta poi Rocca Falluca, bisognerà fare i conti con
le altre due rimaste.
Noi, in verità,
riteniamo, sulla base di fonti documentarie inoppugnabili, che la Rocca Niceforo
della fonte angioina sopra richiamata debba necessariamente essere identificata
con Vallelonga (D. Taccone-Gallucci, Regesti dei Romani Pontefici per le
Chiese della Calabria, Roma, 1902, pag. 360, nota n. 166; Idem, Monografia
della Città e Diocesi di Mileto, Napoli, 1881, pag. 190: «Arx Nicephori»;
E. Barillaro, Calabria. Guida turistica e archeologica [Dizionario
corografico], Cosenza, 1972, pag. 102, sub voce; Idem, Dizionario
bibliografico e toponomastico della Calabria, Cosenza, 1976, vol. I
[Provincia di Catanzaro], pag. 166, sub voce).
Non manca, tuttavia,
chi vuole vedere in Rocca Niceforo la progenitrice di Rocca Angitola, sorta
sullo stesso sito, la quale, a sua volta, avrebbe dato origine a molti centri
abitati, uno dei quali sarebbe stato appunto San Nicola, pur riconoscendo, in
verità, che «con questo nome era anche indicata Vallelonga» (G. Greco, Rocca
Angitola nella storia e nella leggenda, Vibo
Valentia, 1985, pagg. 12, nota n. 3; 83; 101-102; ma anche 43-46).
Anche G. Valente, da
par suo, cerca di conciliare le due opposte posizioni, allorquando,
all’interno della stessa opera, dapprima sostiene che «Rocca Angitola [….]
veniva anche detta [….] Rocca di Niceforo, sebbene con questo nome era anche
indicato altro luogo», e poi, trattando di Vallellonga, asserisce che esso «è
creduto l’antico Niceforo, o Val di Niceforo» (G. Valente, Dizionario
dei luoghi della Calabria,
vol. II [M-Z], cit., pagg. 807 [sub voce “Rocca Angitola”], 1126 [sub
voce “Vallelonga”]).
Rinviando ad
altra sede ogni ulteriore riflessione critica sul rapporto triangolare che si è
venuto a creare tra Rocca Niceforo-Vallelonga-Rocca Angitola, giova ora
sottolineare come San Nicola, nel suo lungo periodo feudale, non sia stato
sempre denominato con l’impiego della specificazione “de Vallelonga”.
In due documenti del
1574 e 1578, conservati presso l’Archivio di Stato di Napoli, in effetti,
viene citato, rispettivamente, come «S. Nicolò de Falla» e come «San Nicola
de li Serri», appunto per indicare la sua vicinanza ora al torrente Fellà, che
scorre nel suo territorio, ora a Serra San Bruno, il più grande dei centri
urbani vicini ad esso, ed assegnargli, in tal modo, un preciso elemento
distintivo di natura geografica, che potesse meglio distinguerlo e
differenziarlo dalle altre località recanti lo stesso nome (G. Crocenti, La
valle del Marepotamo, Chiaravalle Centrale [CZ], 1980, pag. 186; J.
Mazzoleni, Fonti per la storia della Calabria nel viceregno [1503-1734],
Napoli, 1968, pag. 236).
Va ricordato, altresì,
che San Nicola non è nuovo a questo genere di puntualizzazione toponomastica,
poiché in altri non meno significativi documenti del 1091 e 1102, appartenenti
quindi ad un periodo storico di molto anteriore al primo, custoditi nel medesimo
istituto pubblico partenopeo, esso è di nuovo segnalato come «S. Nicolò de
Falla», con immutato riferimento al suo corso d’acqua Fellà (G. Crocenti, La
valle del Marepotamo, cit., pag. 13).
Riprendendo la
narrazione degli avvenimenti storici interrotta, nel 1506 troviamo San Nicola
incluso nella Contea di Soriano, infeudata ai Carafa, duchi di Nocera, insieme
con le vicine terre di Vallelonga, Filogaso e Panajia (G. Galasso, Economia e
società nella Calabria del Cinquecento, Milano, 1975, pag. 33).
In questa condizione
di feudalità è rimasto fino al 1648 (G. Valente, Dizionario dei luoghi della Calabria, cit., vol. II
[M-Z], pag. 1126, sub voce “Vallelonga”).
Con la scomparsa dell’ultimo dei Carafa, il duca
Francesco Maria Domenico, morto nel 1648 senza lasciare un legittimo successore,
l’intera Contea di Soriano -e con essa anche il nostro villaggio- è stata
venduta dal re di Spagna, Filippo IV, ai Padri Domenicani del luogo al prezzo di
84.000 ducati (A. Galloro, L’antica spezierìa del Convento domenicano in
Soriano. Aspetti di vita civile e religiosa in Calabria nei secoli XVII-XVIII,
Vibo Valentia, 2001, pagg. 26; 37; 54; 120, nota n. 28; 126, nota n. 60).
Il nostro paese, però, pur essendo sottoposto al
Convento domenicano di Soriano assieme a Vallelonga, ha continuato a chiamarsi
“Santo Nicola di Vallelonga”,
sicuramente più per seguire un’antica abitudine ormai consolidatasi nel tempo
e non già perché fosse un casale più piccolo di quello.
Il Tango, infatti,
ci informa della superiorità numerica di popolazione che San Nicola,
nell’anno 1650, poteva vantare nei confronti Vallelonga, anche se, in verità,
i dati statistici quantitativi riferiti non ci convincono per la loro esiguità
ed insufficienza.
Il regio ingegnere
fiscale, infatti, non avendo potuto effettuare un attento censimento dei paesi
che costituivano la Contea di Soriano, probabilmente per mancanza di tempo, e
dovendo urgentemente consegnare alla corte spagnola committente il calcolo
dell’esatto valore economico di quei possedimenti feudali, ha pensato bene di
riferirsi ed avvalersi della rilevazione demografica compiuta alla fine del
secolo precedente.
Ecco spiegato il
vero motivo per cui ha stimato la popolazione vallelonghese in «fuochi numero
trenta quattro iusta la numerazione dell’anno 1595», cioè circa 170
abitanti, mentre quella sannicolese in «fuochi 54», vale a dire quasi 270
persone (A. Barilaro [a cura di], Apprezzo dello Stato di Soriano in Calabria
Ultra [del] 1650 di A. Tango, cit., pagg. 132, 144).
D’altra parte, da
un’attenta lettura delle fonti archivistiche dei secoli passati è emerso che
nel casale di Santo Nicola si è sempre verificato, costantemente, un maggiore
incremento demografico rispetto a quello di Vallelonga e, pertanto, la notizia
può costituire una novità di rilievo solo per i non addetti ai lavori, cioè
per coloro che non sono versati in questo genere di studi.
G. Greco, ad
esempio, attingendo l’interessante notizia da G. Vivenzio, ricorda, a tal
proposito, che nel 1783, anno del violento terremoto, «l’abitato (di San
Nicola) contava 1291 anime, mentre Vallelonga, di cui S. Nicola era casale, ne
contava 914» (G. Greco, Rocca Angitola nella storia e nella leggenda,
cit., pag. 129).
Nella seconda metà
del 1600, il nostro borgo è stato rilevato dalla patrizia famiglia cosentina
Castiglione-Morelli, che ne ha mantenuto il possesso fino al 1711.
In quest’anno,
infatti, è stato venduto, per la somma di ducati 38.000, dal marchese Diego
Castiglione Morelli ad Ottavio Di Gaeta, il quale, per l’occasione, ha
ottenuto il titolo di duca.
Nel 1776, però,
Francesco M. Castiglione Morelli ha deciso di rientrarne in possesso,
riacquistandolo da Muzio Di Gaeta (M. Pellicano Castagna, Le ultime
intestazioni feudali in Calabria, Chiaravalle Centrale [CZ], 1978, pag. 75,
ma anche 44, 51; G. Valente, Dizionario
dei luoghi della Calabria, cit., vol. II [M-Z], pag. 913, sub voce).
I Padri
Domenicani di Soriano, anche dopo aver ceduto la Terra di San Nicola di
Vallelonga al suo nuovo feudatario, hanno voluto conservare, tuttavia, fino a
tutto il 1700, per ragioni ancora inspiegabili, la proprietà di un vasto
appezzamento di terreno posto in agro sannicolese.
Qualche anno fa, ricercando, all’interno
dell’Archivio del Convento sorianese, notizie sulla sua antica e florida
spezierìa, ci è capitato di rinvenire un documento, che comprova la veridicità
di quanto ora affermato.
La “Lista di carico dei beni posseduti dal Convento di
San Domenico di Soriano”, redatta nel 1791 dall’amministratore della Cassa
Sacra Carlo Pedicini, che dovevano essere confiscati per conto ed a vantaggio
dello stesso istituto pubblico di intervento straordinario pro terremotati
calabresi, conteneva anche il fondo sannicolese denominato “Castagnarelle”.
Esso è descritto «confinante da Levante colla via
pubblica, da Tramontana col fiume corrente (cioè “Ddorico”: n.d.a.), da
Ponente con Don Nicola Marino, e da Mezzogiorno con Michele Scoleri, dell’estenzione
(sic) di tomolate venti piane, alberato tutto con castaneto ceduo, inaffittato,
perché ingombrato tutto da detto castaneto» (Lista di carico per il
Convento di S. Domenico di Soriano (“Cassa Sacra”), Anno 1791, vol. 40,
pag. 425, r. e v. [vecchia numerazione pag. 407]).
Il nostro villaggio
ha conservato la specificazione “della Terra di Vallelonga” fino all’Unità
d’Italia, come ci viene attestato dalla dizione apposta sui fascicoli
processuali degli anni 1856-1859, giacenti presso il “Fondo Gran Corte
Criminale” dell’Archivio di Stato di Catanzaro da noi più volte visitato,
in cui alcuni nostri compaesani, accusati di reati penali, sono stati
qualificati come cittadini di «San Nicola di Vallelonga» (non mancano,
tuttavia, per gli stessi anni, atti ufficiali in cui è possibile riscontrare il
solo nome “San Nicola”).
Infatti, «in data
30 Giugno 1862, con apposita circolare, il Ministro dell’Interno inviava da
Torino ai Prefetti del Nuovo Regno norme e suggerimenti, affinché si procedesse
alla modifica della denominazione di alcuni comuni delle rispettive province,
che si trovavano ad avere lo stesso nome di altri municipi» (N. G. Marchese, Calabria
dimenticata, Casavatore [NA], 1982, pag. 423).
Dagli anni successivi in poi, dunque, il nostro paese ha cominciato a chiamarsi “San Nicola di Crissa”, prima, e “da Crissa”, dopo.
E’ verosimile
pensare che, su proposta del Consiglio comunale sannicolese dell’epoca, la
primitiva dizione “di Crissa” sia stata cambiata con quella “da Crissa”
per sottolineare, in maniera più incisiva, non già l’appartenenza, ma
l’origine e la provenienza del casale dall’antica e gloriosa città di
Crissa, che i Focidesi, reduci dalla distruzione di Troia (1183 a. C.),
avrebbero fondato sulla riva sinistra del fiume Angitola (N. A. Mannacio, S.
Nicola di Crissa e i suoi capolavori, cit., pag. 32).
La prima delle due denominazioni (“San Nicola di
Crissa”), per quel più stretto legame affettivo con la celebre madrepatria
che riesce ad esprimere meglio dell’altra (“San Nicola da Crissa”),
deve aver esercitato sull’animo del compianto “Don Nicola” (Mannacio) un
tale fascino da indurlo a titolare il più importante dei suoi non pochi lavori
storico-letterari proprio in siffatta maniera (S. Nicola di
Crissa e i suoi capolavori).
Sulle ceneri di
questa polis di derivazione greca sarebbe, poi, sorta quella Rocca
Angitola, che avrebbe in parte contribuito alla crescita demografica di San
Nicola, grazie al lento, ma costante, esodo della sua popolazione.
G. Greco, ad
esempio, non diversamente da altri studiosi locali, dopo aver ricordato che «il
villaggio di San Nicola si rese comune autonomo durante il decennio francese»,
sottolinea che esso, «in seguito, rivendicando, giustamente, la sua legittima
ascendenza crissea, assunse la denominazione di San Nicola da Crissa» (G. Greco, Rocca Angitola nella storia e
nella leggenda, cit., pag. 129).
La città di Crissa
avrebbe così derivato il nome, eponimamente, niente di meno che dal suo
fondatore Crisso, eroe greco, zio di quell’Epeo, che, per suggerimento di
Ulisse, ispirato a sua volta dalla dea Minerva, ha costruito il famoso e
fraudolento cavallo ligneo di Troia, del quale è menzione nell’Odissea
di Omero (VIII, 492) e nell’Eneide di
Virgilio (II, 264), che ha apostrofato quest’abile lavoratore del legno con
l’epiteto di «doli fabricator» (G. Greco, Rocca Angitola nella storia e
nella leggenda, cit., pagg. 11-15, 76, 83-84, 99-100).
Diversi anni or
sono, per nulla attratti dal desiderio di tessere immotivati elogi
all’indirizzo della nostra patria, ma mossi piuttosto dalla sola ansia di fare
un po’ luce, una volta per tutte, sulla tanto dibattuta “questione crissea”,
abbiamo ampiamente spiegato e dimostrato, con rigoroso senso critico, in una
serie di articoli apparsi su un periodico di Vibo Valentia, “L’Altra
Provincia”, come sia gravemente errato correre dietro a queste favole, che
abbiamo definito “barriane” perché ideate dal Barrio nella sua opera De
antiquitate et situ Calabriae (Roma, 1571).
Questo erudito di
Francica (VV), infatti, ha irreparabilmente danneggiato la storiografia moderna
della Calabria, facendo ricorso, per la composizione del suo scritto, a fatti
leggendari e ad episodi della mitologia classica mai esistiti, al solo scopo di
magnificare le antiche origini storiche di molte località calabresi del suo
tempo, assegnando ad esse gloriosi e mitici fondatori.
Per la parte
attinente a Crissa di cui qui si sta ragionando, il Barrio ha fornito, in
maniera volutamente strumentale, un’errata interpretazione di un passo dell’Alessandra
(o Cassandra) del poeta
calcidese Licofrone (IV-III secolo a. C.), relativamente ai w. 1067-1070, con
cui ha fatto credere ai suoi seguaci per vera la fondazione di questa città,
avvenuta sul “Sinus napitinus”, oggi Golfo di Sant’Eufemia, ad opera del
focidese Crisso.
Da questa fonte, che tutti gli storici moderni hanno giudicato scarsamente attendibile ed assai poco affidabile, infatti, diversi studiosi hanno attinto, a larghe mani e con molta faciloneria, cioè senza mai sottoporre ad una severa analisi critica, le informazioni storiche utilizzate nei propri lavori, che alla prova dei fatti sono risultate in parte o totalmente errate (G. Marafioti, Croniche et antichità di Calabria, Padova, 1601; G. Fiore, Della Calabria illustrata, Napoli, 1691; E. D’Amato, Pantopologia Calabra, Napoli, 1725; D. Martire, La Calabria sacra e profana, Cosenza, 1876-1878).
Il seducente racconto della discendenza della sua amata patria, San Nicola, da una gloriosa e mitica città di origine greca, Crissa, è riuscito ad affascinare persino una persona dotta come G. G. Martini («Crissa [….] patria mea»: Consiliorum sive responsorum iuris, cit., pag. 33, cons. n. 226), il quale si dice fiero di così illustri natali, sottolineando con rammarico come da giovane vi abbia creduto troppo poco («dum adolescens eram, non parum dubitavi de hac historia»: ivi). In argomento, si confronti pure D. Taccone-Gallucci, Monografia della Città e Diocesi di Mileto, cit., pagg. 191-192.
Ad onor del vero, al
di là delle falsità diffuse dal Barrio, non si può neppure escludere del
tutto che sotto le mura abbattute di Rocca Angitola si celino i resti di una
preesistente polis, sia essa di
origine greca o d’altra provenienza.
Nel passato, infatti, è accaduto (poche volte, in verità) che la ricerca e conseguente scoperta archeologica abbiano dimostrato l’esistenza storica di civiltà da sempre ritenute leggendarie, grazie alla felice intuizione di pazienti e tenaci investigatori: valga per tutti l’esempio dello scopritore di Troia, il tedesco H. Schliemann.
Per il momento è necessario essere cauti, confortati dall’assoluto silenzio mantenuto in argomento da scrupolosi ed insigni eruditi, storici, archeologi delle epoche trascorse, che hanno attentamente indagato sull’evoluzione storica dei centri urbani della Calabria, dall’antichità ai loro giorni.
Se, infatti, sul sito di Rocca Angitola fosse davvero insistita nel lontano passato l’illustre città di Crissa, perché mai i monteleonesi V. Capialbi e C. F. Crispo, i francesi F. Lenormant e J. Bérard, i connazionali E. Pais, E. Piaceri e P. Zancani-Montuoro, solo per citare i nomi più autorevoli e rappresentativi di una più vasta schiera di seri e coscienziosi studiosi, non hanno mai rivolto ad essa la loro attenzione ed indirizzato, pertanto, in questa direzione le loro investigazioni, al fine di riportarne alla luce le rovine?
Per quale ragione lo stesso Sen. P. Orsi, che nella nostra regione, negli anni in cui ricopriva la carica di Soprintendente Archeologico della Sicilia orientale e della Calabria (1907-1925), ha svolto un assai fruttuoso lavoro di ricerca e scoperta di antichi siti magnogreci e medievali, non si è mai preoccupato di appurare la verità in merito alla città di Crissa?
Poiché non si può dire che fosse un indagatore sprovveduto e poco attento alla realtà storica che gli stava intorno, perché allora, durante i suoi ripetuti soggiorni in Monteleone, non si è mai domandato cosa realmente nascondesse il sottosuolo del poggio prospiciente la riva sinistra del fiume Angitola che aveva sotto il naso?
Si deve dedurre, dunque, che egli non abbia mai creduto nel racconto sorto intorno a Crissa, ritenendolo privo di ogni fondamento di verità storica.
Fino a quando non
saranno effettuati i necessari scavi archeologici ed essi non riusciranno a
portare alla luce del sole le vestigia di questa civiltà finora rimasta
sepolta, il buon senso ammonisce a volersi prudentemente astenere dalla
formulazione di teorie affrettare sull’esistenza di Crissa, che, da diversi
secoli (si pensi all’opera di I. Tranquillo, pubblicata nel 1725), taluni
ricercatori municipali additano, a cuor leggero, quale gloriosa progenitrice del
loro patrio luogo.
Soltanto allora sarà
possibile parlare ed esprimere, a ragion veduta e con piena cognizione di causa,
il proprio pensiero sull’ormai accertata esistenza di questa antica polis
di stirpe greca.
Finché non giungerà
quel momento, però, sarà conveniente per tutti zittire, seguendo
l’esortazione del poeta latino Marziale, secondo cui, se res
est magna tacere, lo è ancor di più quando non si dispone di
argomentazioni sufficientemente valide per formulare, sostenere e difendere con
tutte le forze una propria tesi.
A conclusione della “questione crissea”, vorremmo ricordare, senza alcun tono polemico, a quanti finora hanno scritto su questa città, sia quando l’argomento è stato affrontato in maniera centrale sia en passant, che, quand’anche un giorno la ricerca archeologica dovesse dimostrare la sua esistenza storica, essa non potrà mai essere definita città magnogreca, come finora è avvenuto a tutti i livelli culturali, perché appartenente ad altra epoca storica.
Quando, infatti, parliamo di Crisso, quale ipotetico fondatore della città di Crissa dopo la distruzione della ricca città di Priamo (1183 a. C.), intendiamo riferirci esclusivamente al primo grande movimento emigratorio greco, che si è svolto tra il XII ed il IX secolo a. C.
La fondazione di colonie magnogreche nell’Italia meridionale appartiene, invece, a quella che gli storici hanno definito «seconda colonizzazione greca» ed è avvenuta fra l’VIII ed il VI secolo a. C. in conseguenza di una grave crisi economica, che ha duramente colpito la Grecia in quel tempo: essendo la raccolta bibliografica in argomento molto ampia, valga per tutti la citazione della sola opera classica J. Bérard, La Magna Grecia, Torino, 1963, passim.
In considerazione di questa netta suddivisione cronologica dei due grandi flussi demografici diretti dalla penisola greca verso l’esterno, sbagliano enormemente, quindi, quegli studiosi che considerano la città di Crissa colonia magnogreca, come, ad esempio, V. Teti (“Introduzione” al Consiliorum sive responsorum iuris di G. G. Martini [ristampa anastatica della prima edizione, apparsa in Sancti Nicolai nel 1635, presso la stamperia dello stesso Martini], Roma, 2003, pag. X); N. G. Marchese (Calabria dimenticata, cit., pagg. 421-423); G. Greco (Rocca Angitola nella storia e nella leggenda, cit., pagg. 19-20), ecc.
Per quanto riguarda i disastrosi terremoti che si sono abbattuti sul nostro paese, dobbiamo dire che esso, nel corso degli anni, a causa di questi flagelli naturali, ha sofferto moltissimo.
Relativamente al movimento tellurico avvenuto il 27 marzo 1638, non possediamo, in verità, dati di rilevazione statistica esatti circa le perdite umane e materiali subite da San Nicola, ma abbiamo validi motivi per ritenere che non possa essere uscito indenne da un sisma che ha gravemente danneggiato l’intera Calabria ed in modo particolare i paesi ad esso vicini: «abbattuti restarono [….] Belforte, Filogaso, Panaja, Montesanto». Vi furono, infatti, a «Belforte morti 13, case distrutte 25; a Montesanto morti 20, quasi tutto caduto; a Panaia morti 80, case tutte cadute; a Filogaso morti 100, case cadute 118. Fu quasi tutto disfatto; a Monterosso 33 case cadute, 1 chiesa e l’ospedale» (G. Vivenzio, Istoria de’ Tremuoti avvenuti nella Provincia della Calabria Ulteriore, e nella città di Messina nell’anno 1783 e di quanto nella Calabria fu fatto per lo suo risorgimento fino al 1787, Napoli, 1788, vol. I, pag. 12; M. Baratta, I terremoti d’Italia, Torino, 1901, pagg. 129-130).
In quello successivo e più violento del 5 novembre 1659, San Nicola ha riportato pesanti danni a persone e cose, poiché sono state distrutte 93 case, compresa la Chiesa Matrice, e sotto quelle macerie hanno trovato la morte ben 30 suoi figli, di cui 22 uomini, 6 donne e 2 minori (Ibidem, pag. 140; V. D’Amato, Memorie historiche dell’Illustrissima, famosissima e fedelissima città di Catanzaro, Napoli, 1670, pag. 242; G. Valente, Storia della Calabria nell’età moderna, Chiaravalle Centrale [CZ], 1980, vol. II, pagg. 93, 250).
Non si trova menzionato nell’elenco dei luoghi che hanno sofferto gravi perdite nel sisma del 7 dicembre 1743, ma nelle apocalittiche scosse telluriche del 5 e 7 febbraio e 1 e 28 marzo 1783, che sono state le più funeste di tutte e che hanno avuto il loro epicentro nei pressi di Soriano, è rimasto irrimediabilmente rovinato. Infatti, «una parte del monte, sul quale era collocato S. Nicola cadde nel sottoposto vallone. A causa de’ guasti riferiti, è stato deciso che Vallelonga sarà trasportata nel piano detto del Castello, ed il villaggio S. Nicola nel sito chiamato il Santissimo» (G. Vivenzio, Istoria de’ Tremuoti…, cit., vol. I, pag. 172; M. Baratta, I terremoti d’Italia, cit., pagg. 269-277).
3. DESCRIZIONE
ECONOMICO-SOCIALE ED ANTROPOLOGICA
L’economia di San
Nicola da Crissa è stata sempre prevalentemente agricola.
La maggior parte dei
suoi abitanti, prima che essi imboccassero la dolorosa via dell’esilio
volontario, emigrando verso Paesi lontani (soprattutto in Canada, dove esiste
tuttora una folta presenza di immigrati sannicolesi) in cerca di un tozzo di
pane e di una migliore e più dignitosa condizione di vita per sé e per i
propri cari, traeva i mezzi del proprio sostentamento dalle coltivazioni di
cereali, dalle colture arboree (in prevalenza l’olivo) ed orticole, oltre che
dalla pastorizia.
Il Tango, infatti,
nel ragguagliarci sulla condizione socio-economica di San Nicola nel 1650,
rileva che esso annoverava tra i
suoi abitanti «5 persone Civili incluso tre Dottori di Legge, et uno Giudice á
Contratto [….]. Il Remanente sono tutti bracciali, faticatori che
s’esercitano alle Campagne, e viveno con le loro fatiche, così anco le donne,
[….] due scarpari, 3 Mastri d’ascia, 3 fabricatori, due ferrari, et uno
Torniero» (A. Barilaro [a cura di], Apprezzo dello Stato di Soriano in
Calabria Ultra [del] 1650 di A. Tango, cit., pag. 144).
Sottolinea, altresì,
che «sono in detto Casale da 40 bovi lavorandini, e 30 bacche, da 400 pecore, e
capre, due cavalli, e quattro somarini de particolari, e de Preiti» (Ibidem,
pag. 145).
Le condizioni di
vita dei contadini e pastori sannicolesi erano, dunque, piuttosto misere ed il
nostro villaggio mancava persino dei servizi sociali più urgenti, tant’è
vero che «del Medico, e Notare, quando occorre, se ne servono delle Terre
convicine, e così anco delle cose di Spetiería» (Ivi).
Naturalmente, lo
sviluppo dell’attività agricola era strettamente legato alle dimensioni ed
alla capacità produttiva dell’assai ridotto territorio pianeggiante di cui
poteva disporre il contadino sannicolese, spesso impegnato nella faticosa opera
di terrazzare le sue superfici di terra molto piccole, le cosiddette
“rasule” (l’uso dei tempi verbali nella forma dell’imperfetto,
esprimente un’azione passata, ci viene imposto, obbligatoriamente, dal fatto
che l’occupazione campestre di cui qui si sta discutendo è stata svolta dai
Sannicolesi, come attività primaria, soltanto nei tempi trascorsi e le nuove
generazioni, in tutt’altre faccende affaccendate, tendono a stare il più
lontano possibile da essa, quasi fosse un morbo pestifero).
Queste “rasule”
richiedevano, a loro volta, una costante cura di protezione, consolidamento e
concimazione, non solo perché insistenti su un terreno a forte pendenza e
quindi soggetto a continui smottamenti, ma anche perché, per la particolare
conformazione geomorfologica dell’intero territorio di cui si è detto sopra,
spesso si rivelavano improduttive o poco redditizie, in quanto caratterizzate
dalla massiccia presenza di conglomerati argillosi e sabbiosi (L. Grimaldi, Studi
archeologici sulla Calabria Ultra Seconda, Napoli, 1845, pag. 119).
Questi ampi ammassi
arenari o depositi di sabbia sono di formazione pliocenica e denunciano una
chiara ed antichissima origine marina del nostro territorio e di quelli facenti
parte del non lontano bacino del fiume Mesima, che, proprio per questa ragione,
era conosciuto nell’antichità come «Terra Arenarum». (E. Cortese, Descrizione
geologica della Calabria, Firenze, 1934, pagg. 164-180; F. Ippolito, Geologia
dei dissesti calabresi, in “Almanacco Calabrese”, anno V [1955], pagg.
129-141).
In una società
contadina tradizionalmente indigente, quale quella sannicolese, molto diffuso
era l’allevamento del maiale per uso domestico, che costituiva un evento di
straordinaria importanza economica (D. Taruffi-L. De Nobili-C. Lori, La
questione agraria e l’emigrazione in Calabria, Firenze, 1908, pagg. 606,
631 e segg).
Il solito Tango, nel
notificarci che i Sannicolesi «viveno parcamente, [….] non se ci fá Carne, né
ci viene pesce, però quelle poche persone che ne vogliono comprare, mandano
alle Terre convicine», fa notare che «però tutti s’allevano li porci in
casa, e si fanno lo salato per uso loro, che li basta da un anno all’altro»
(A. Barilaro [a cura di], Apprezzo dello Stato di Soriano in Calabria Ultra
[del] 1650 di A. Tango, cit., pag. 145).
Infatti, grazie ad
una corretta conservazione della carne del porco, di cui peraltro niente andava
perso perché veniva sfruttata ogni sua minima parte, tanto che fosse mantenuta
sotto sale quanto che venisse insaccata e trasformata in vari tipi di salumi,
ogni nucleo familiare poteva assicurarsi una provvista alimentare bastevole per
tutto il corso dell’anno.
I vantaggi derivanti
dal possesso di un maiale, l’utilità e la rilevanza assunte da questo animale
nell’economia del contadino sannicolese ed il valore nutrizionale rivestito
dalla carne suina nella sua alimentazione sono espressi, molto efficacemente, in
alcuni significativi adagi, in cui è condensata la straordinaria saggezza
popolare dei nostri avi e di cui proponiamo qui qualche esempio:
1)-‘N
orto e ‘nu porco resuscitano ‘nu morto : “Il possesso di carne di
maiale e di prodotti orticoli riveste, nel sistema alimentare di un uomo,
un’importanza così fondamentale che è capace di fare ritornare in vita
persino un morto”;
2)-Cu’
si marita è cuntento ‘nu jorno, cu’ ammazza lu porco è cuntento ‘n annu:
“Se la felicità di chi si
sposa dura un giorno, quella di chi macella un maiale si protrae per un intero
anno ovvero per tutto il tempo in cui il contadino può derivare cibo e
sostentamento dalla sua carne conservata” (M. Tigani Sava, I salumi di
Calabria ed il rito del porco, Catanzaro Lido, 1997, pag. 61: i proverbi
riportati sono stati opportunamente adattati alla lingua dialettale sannicolese).
Benché l’attuale
spopolamento delle campagne, diretta conseguenza dell’abbandono dell’attività
agreste da parte delle nuove generazioni attratte più dalla comoda vita urbana
che da quella faticosa rurale, abbia fatto diminuire fortemente l’allevamento
domestico di maiali, ancora oggi, in non poche famiglie sannicolesi, vengono
prodotti dei capicolli e soppressate assai prelibati, grazie alla conoscenza ed
al sapiente impiego di antiche ed elaborate tecniche di lavorazione della carne
suina, che, ad onta dell’inesorabile usura del tempo che tutto travolge e
distrugge, vengono accuratamente trasmesse, da lontane generazioni, da madre in
figlia.
Per quanto concerne lo sviluppo demografico di San Nicola nei secoli, c’è da precisare quanto segue. Nella lunga e buia età medievale, molti centri urbani posti all’interno della regione calabrese hanno visto aumentare la propria popolazione, grazie al trasferimento di quanti, desiderosi di sfuggire alle feroci incursioni turchesche ed alla non meno grave infezione malarica che affliggevano le vicine zone costiere e di pianura tirreniche, avevano deciso di abbandonare i loro malsicuri antichi siti, per insediarsi in luoghi ritenuti certamente più tranquilli e salubri.
In considerazione di ciò, si
può credere che anche nel casale di San Nicola, con il passar del tempo, si sia
verificato un incremento demografico (non sappiamo, però, in che misura
percentuale rispetto alla comunità residente), grazie all’apporto fornito
dall’immigrazione di abitanti provenienti da Rocca Angitola, la cui decadenza
demografica ed abitativa, iniziata nel XVII secolo, è giunta al suo culmine con
il sopraggiungere dell’assai funesto terremoto del 1783 (G. Greco, Macherato,
Vibo Valentia, 1978, pagg. 16-18; Idem, Rocca Angitola nella storia e nella
leggenda, cit., pagg. 73-76).
San Nicola ha
conosciuto la sua massima espansione nel 1951, quando, al censimento di quell’anno,
contava ben 4.576 abitanti, ed il minimo storico lo ha toccato qualche mese fa,
il 31 maggio 2005, con 1.532 unità (N. B.: Va tenuto presente che i dati
anagrafici riportati, di per sé esigui, sono riferiti alle persone registrate
come “residenti” presso il competente ufficio comunale e non già a quelle
“effettivamente dimoranti” nel paese. Questa differenziazione contribuisce
ad assottigliare ancor di più la già magra popolazione sannicolese).
Certamente, le
attuali 1.532 persone costituiscono ben poca cosa, se comparate al dinamismo
umano che il paese ha conosciuto in tutta la prima metà del Novecento, e la
causa dell’attuale decremento quantitativo della popolazione sannicolese va
tutta addebitata all’assoluta mancanza di lavoro sul posto e nel resto della
regione di appartenenza, che costringe i giovani ad emigrare verso luoghi più
prosperi e ricchi, in cerca di una migliore sistemazione di vita (O. Baldacci, Il
movimento demografico, in “Almanacco Calabrese”, anno XIII [1963], pagg.
129-141).
4.“VIA
REGIA” E BANDITISMO LOCALE
L’intero versante
nord orientale dell’abitato di San Nicola da Crissa è attraversato, in tutta
la sua lunghezza, dalla strada statale 110, che collega il Bivio Angitola, posto
sul mar Tirreno, con Monasterace Marina, ubicata sul litorale jonico.
Essa ha un andamento
abbastanza tortuoso e di forte dislivello, determinato dal fatto che, per
assolvere il difficile compito di mettere in comunicazione le due opposte
riviere, è costretta ad inerpicarsi lungo tutta la dorsale appenninica, che
divide longitudinalmente in due la Calabria (R. De Cesare, La fine di un
Regno, cit., vol. I, pag. 31).
Quest’arteria, che
dai Sannicolesi è meglio conosciuta nelle varie forme linguistiche di “Via
regia”, “Viareggia” e “Vareggia”, è stata fatta costruire, tra gli
anni 1837-1852, da Ferdinando II, re delle Due Sicilie, sul tracciato di un
antico sentiero naturale di montagna, poco più di una mulattiera, con il
preciso scopo di potenziare l’industria siderurgica statale dei due
stabilimenti calabresi di Mongiana e di Ferdinandea, che lavoravano in funzione
di forniture militari e che suo nonno, Ferdinando I, aveva impiantato tra il
1782 ed il 1783 (B. De Stefano Manno-G. Matacena, Le Reali Ferriere ed
Officine di Mongiana, cit., pagg. X [“Prefazione” di G. Cingari], 22 e
segg.; L. Gambi, Calabria, cit., pag. 374).
In questi due
opifici del serrese venivano prodotti strumenti bellici di notevole rilevanza,
come elementi di artiglieria, specie cannoni e “metraglie” di ferro fuso, e
relative palle, fucili e corrispondenti proiettili, spade e baionette, pezzi per
ferrovie, oltre a pani di ghisa ed altro metallo ferroso, che venivano poi
lavorati in diverse fabbriche del reame.
Il re di Napoli, però,
per rilanciare la produzione metalmeccanica calabrese e renderla competitiva,
per qualità e prezzo, con quella pregiata inglese, aveva bisogno di una strada
carrettiera così efficiente da consentire ai manufatti siderurgici di Mongiana
e Ferdinandea di giungere, in tempi molto brevi, al porticciolo di Pizzo, per
essere successivamente da qui imbarcati, con un prezzo di trasporto marittimo
abbastanza contenuto, alla volta di quello di Napoli .
In Calabria sorgeva,
dunque, la più importante industria metallurgica del Regno borbonico e la
produttività raggiunta dalle due ferriere, nelle quali trovavano lavoro circa
mille operai, ha fatto conseguire all’economia del territorio serrese e di
tutto quello bruzio una posizione davvero ragguardevole, sia in campo
qualitativo che quantitativo (G. Cingari, Lo stabilimento di Mongiana nella
crisi del 1860, in “Atti del 2o Congresso Storico Calabrese”,
Napoli, 1961, pagg. 237-259; Idem, Storia della Calabria dall’Unità ad
oggi, Roma-Bari, 1982, pagg. 5, 9-10, 30, 32, 34-35, 70).
Non è nostra
intenzione indugiarci qui sull’annosa “Questione meridionale”, risalendo
alle molteplici cause che hanno originato la decadenza industriale del Meridione
d’Italia, ma come non ricordare, così come risulta da attenti studi
comparativi di economia, che il Sud d’Italia, al momento dell’unificazione
della Penisola, era più progredito del Nord, specie nel settore
dell’industria pesante o metalmeccanica, in cui vantava primati che l’intera
Europa ci invidiava? (F. Milone, L’Italia nell’economia delle sue regioni,
Torino, 1955, pagg. 938-943; C. Alianello, La conquista del Sud, Milano,
1982).
L’apertura della borbonica “Strada della Mongiana” (così era definita nei documenti ufficiali del tempo) ha fatto rifiorire quel fenomeno banditesco locale che già si era distinto nel decennio di dominazione napoleonica (1806-1815), raggiungendo ora punte di maggiore recrudescenza, soprattutto nel biennio 1843-’44.
Per quanto riguarda il decennio di dominio francese sopra richiamato, si pensi alle atroci crudeltà commesse nelle nostre contrade dal famigerato bandito Francesco Moscato della vicina Vazzano, meglio conosciuto con l’appellativo di “Bizzarro” o “Vizzarro” (S. Gambino, Vizzarro, Chiaravalle Centrale [CZ], 1981; II ediz. Ardore Marina, 1994; A. Calcaterra, Memorie istoriche militari del colonnello Antonino Calcaterra dal 1799 al 1822, Polistena, 1923, pagg. 51-58).
Era proprio nei
pressi di San Nicola, là dove il tratto di strada dell’intera via borbonica,
oltre che angusto ed erto, era anche pericoloso per il fatto che poggiava su
enormi banchi di sabbia sempre pronti a franare sotto l’azione della più
piccola spinta o sollecitazione, che i briganti locali o dei territori vicini,
annidandosi nella fitta vegetazione del contiguo bosco Fellà, tendevano
imboscate a viandanti facoltosi, per derubarli dei loro preziosi carichi o,
addirittura, per sequestrarli a scopo di riscatto (A. Galloro, San Nicola da
Crissa e la borbonica “Strada della Mongiana”, in “La Barcunata”,
cit., anno I [1995], n. 2, pag. 4).
Il punto più
cruciale era costituito dal cosiddetto “Cafuni de Punga”, che si trova poco
più sotto della chiesetta di Santa Maria Mater Domini, la stessa che è
ricordata da D. Taccone-Gallucci come
«un eremo non lungi dal paese presso al bosco Fellà» (D. Taccone-Gallucci, Monografia
della Città e Diocesi di Mileto, cit., pag. 192).
Non mancavano,
tuttavia, degli altri nascondigli, posti nelle vicine selve adiacenti ai fiumi
Angitola e Mesima, come meglio avrà modo di ragguagliarci il lavoro di M.
Roccisano-B. Congiustì (Fellà, il bosco
che parla. Possidenti, contadini e vagabondi in un bosco di Calabria),
in corso di pubblicazione presso l’editore Monteleone di Vibo Valentia, uno
studio, questo, atteso per le interessanti ed inedite informazioni
socio-economiche che vorrà fornici in argomento.
Non erano neppure
rari gli assalti che gli stessi malfattori, desiderosi di rifornirsi di armi
efficienti da rivolgere, poi, contro l’inerme popolazione civile oppressa o da
atterrire, perpetravano ai danni delle carovane militari borboniche addette al
trasferimento di fucili e relative munizioni, nuovi di zecca perché da poco
forgiati, dagli stabilimenti di Mongiana e Ferdinandea al porticciolo di Pizzo.
5. PERSONAGGI
FAMOSI DELLA VITA RELIGIOSA CIVILE
Il personaggio
che, più degli altri, ha segnato la storia sociale di San Nicola, riuscendo a
far travalicare ad essa gli angusti confini locali per proiettarla in una più
ampia dimensione non solo di spessore regionale ma anche di respiro meridionale,
è stato, senza dubbio alcuno, Gian Giacomo Martini, abate curato della sua
patria, San Nicola di Vallelonga appunto, dov’era nato tra il 1575 ed il 1580
e morto nel 1640.
Il suo alto
merito, al tempo in cui è stato vicario generale del vescovo della diocesi di
Mileto, Mons. Maurizio Centini, è consistito nell’aver introdotto per primo,
in tutta la Calabria Ultra Seconda (corrispondente a tutta l’ex provincia di
Catanzaro), nel 1634, l’arte della stampa (V.
Capialbi, Memorie delle tipografie calabresi, II ediz. a cura di C. F.
Crispo, cit., pagg. 54-56).
Egli, in
effetti, fatti venire in San Nicola gli impressori itineranti Giovan Battista
Russo e Domenico Jezzo, vi ha impiantato una tipografia, che è stata la terza
in assoluto di tutta la Calabria dopo quella fatta sorgere in Reggio da un
ebreo, tal Abramo Garton, nel 1475, e l’altra installata a Cosenza, sempre ad
opera di un altro figlio d’Israele, tal Ottaviano Salomonio di Manfredonia,
nel 1478.
Non si conoscono le
vere ragioni per cui il Martini ha fatto uscire dai suoi torchi la stampa del
solo primo volume di una delle tre opere da lui composte, Consiliorum, sive responsorum iuris…, ovvero Consigli e Responsi Legali,
una disciplina, questa, in cui era abbastanza esperto, se si pensa che aveva
conseguito presso lo Studio di Napoli la laurea in Diritto Canonico e Civile,
che gli consentiva di esercitare con successo anche la professione forense.
Quasi certamente,
essendo di salute cagionevole, il sopraggiungere di una tanto improvvisa quanto
preoccupante malattia deve avergli impedito di pubblicare le altre due fatiche,
già pronte per essere impresse: un Trattato
dei privilegi della povertà e La vita
di Giovan Dionisio Galeno, il famoso pirata rinnegato, meglio conosciuto con
il nome di “Ulucci-Alì” o, più italianamente, “Occhialì”, che tanto
terrore ha incusso alle popolazioni abitanti le coste della Calabria, sua Terra
natale (Ivi; G. Valente, Vita di Occhialì, Milano, 1960).
A causa di queste
costantemente precarie condizioni di salute, il Martini non ha potuto prestare,
per come avrebbe voluto, la massima cura al lavoro di stampa del suo Consiliorum,
che, proprio per questo motivo, è giunto a noi pieno di errori tipografici.
Per tanta
negligenza, l’Autore, fortemente rammaricato, come si evince dalla parte
introduttiva dell’opera, si è visto costretto a chiedere scusa al benevolo
lettore (V. Capialbi, Memorie delle tipografie calabresi, II ediz. a cura
di C. F. Crispo, cit., pagg. 55-56).
Un’altra
inquietante infermità per il nostro Martini, dunque, dopo quella superata tre
lustri prima, grazie all’intervento miracoloso di San Domenico di Soriano, a
cui egli si era raccomandato caldamente dopo che i tre medici che
l’assistevano avevano dichiarato, inequivocabilmente, che per lui non vi era
alcuna possibilità di salvezza: «Ebbe allora una confortante visione e poi si
addormentò per tre ore. Si destò completamente guarito con la più viva
sorpresa dei medici e dei familiari. Mandò subito a Soriano il suo magnifico
cavallo da viaggio, promesso in voto, del valore di circa cento ducati e si recò
più volte di persona per ringraziare il Santo» (A. Barilaro, San Domenico
in Soriano, Soriano Calabro [CZ, ora VV], 1969, pag. 321, che rinvia alla
fonte primaria, S. Frangipane, Raccolta de’ miracoli et grazie adoperate
dall’Immagine del Padre S. Domenico di Soriano, Messina 1621 [II ediz.,
ivi, 1634]).
Occhialì, rapito
all’età di sedici anni dai Turchi in località Le Castella, nei pressi di
Crotone dov’era nato, e venduto come schiavo a Costantinopoli, ha dovuto
abiurare la fede cattolica ed abbracciare quella islamica, cambiando anche il
nome, per poter essere lasciato in pace e mantenere salva la vita.
La sua spiccata
intelligenza ed alcune circostanze fortunate lo hanno fatto ben presto diventare
uno dei più potenti condottieri della pirateria turca ed è grazie a questi
suoi non comuni meriti militari che il sultano ottomano del tempo, Selim II, gli
ha affidato il comando dell’ala sinistra di quella poderosa armata navale
musulmana, che, a Lepanto, città greca posta all’imboccatura del golfo di
Corinto, nel 1571, si è scontrata contro quella cristiana, riportando una
sconfitta così disastrosa da rimanere memorabile nella storia dell’umanità.
Il papa
dell’epoca, Pio V (Antonio Michele Ghislieri, canonizzato nel 1712), promotore
fra l’altro di una “Lega santa” composta da stati italiani ed europei in
funzione antimusulmana, e tutto il mondo cattolico hanno attribuito questa
straordinaria ed insperata vittoria all’intercessione della Madonna del SS.
Rosario, che, per questo provvidenziale intervento, da quel momento in poi è
stata proclamata “Regina delle vittorie”.
La Chiesa cattolica
ha voluto, inoltre, che il giorno del fatidico scontro navale, 7 ottobre, fosse
dedicato alla celebrazione del nome della Madonna del SS. Rosario, a perenne
ricordo di quell’eccezionale evento bellico di cui Ella è stata grande
protagonista.
Questa lunga
digressione dal tema principale, volta ad approfondire la figura storica di
Occhialì e la battaglia di Lepanto, si è resa necessaria per guidare i lettori
ad una migliore comprensione di un meraviglioso dipinto, che si trova collocato
all’interno della Chiesetta della Vergine Maria del SS. Rosario, di cui si dirà
più approfonditamente appresso.
In campo prettamente
religioso, va segnalata la figura di mons. Antonio Papa, che «occupa il primo
posto nella gerarchia della Chiesa di questo nostro paese, per essere stato
l’unico Sacerdote ad assurgere al titolo di vescovo» (T. Mannacio, La
Confraternita del Crocifisso, cit., pag. 247).
In effetti, egli,
nato a San Nicola nel 1627, è stato elevato alla dignità di vescovo di San
Marco Argentano (CS) nel 1685, dove è morto due anni più tardi.
Poteva ben vantarsi
di appartenere alla ristretta cerchia degli amici del pontefice Innocenzo XI,
che lo ha molto amato e stimato per la sua integrità morale (D.
Taccone-Gallucci, Monografia della Città e Diocesi di Mileto, cit., pag.
192).
Passando ora
alla storia civile e patriottica, San Nicola da Crissa ha dato i natali ad
Antonio Garcea (1820), eroe del Risorgimento italiano, che ha pagato il suo
fervido amor di patria con duri anni di carcere e di esilio inflittigli dai
Borboni (G. Garcea Bertola, Antonio Garcea sotto i Borboni di Napoli e nelle
rivoluzioni d’Italia dal 1837 al 1862, Torino, 1862, passim).
Non è stato, come
si vuol comunemente far credere, un vero e proprio garibaldino, uno di quei
Mille ardimentosi che hanno seguito Garibaldi da Quarto al Volturno alla maniera
dei calabresi Francesco Stocco e dei fratelli Mauro e Sprovieri, ma soltanto un
valido fiancheggiatore dell’Eroe dei due Mondi nella sua non facile spedizione
militare.
Era comandante di
una delle tante avanguardie garibaldine, il cui scopo era quello di spianare la
strada alle Camicie Rosse, che, provenienti dalla Sicilia e da poco sbarcate a
Melito Porto Salvo (RC), si accingevano a risalire la Penisola sino a Roma.
Tra le imprese
militari compiute dal capitano Garcea, ne annoveriamo particolarmente due,
finora poco o per nulla conosciute:
-Riesce a convincere
il capitano borbonico Polistena ad arrendersi ed a consegnargli il castello di
Scilla (RC), di cui era comandante (C. Morisani, Ricordi storici. I fatti
delle Calabrie nel Luglio ed Agosto 1860, Reggio Calabria, 1872, pag. 139);
-Forte di una
colonna di 1370 uomini, ottiene dal capitano borbonico Del Bono, direttore dello
stabilimento siderurgico della Mongiana, e dalla esigua guarnigione posta a
presidio dell’opificio, la loro resa condizionata e la consegna immediata
dell’importante fabbrica di armi, che subito requisisce e di cui prende
possesso in nome e per conto del Dittatore, cioè Garibaldi. (B. De Stefano
Manno-G. Matacena, Le Reali Ferriere ed Officine di Mongiana, cit.,
pagg. 72-73).
6. ARTE
Come preannunciato
sopra, oggi, in San Nicola da Crissa, proprio all’interno della Chiesetta
della Vergine Maria del SS. Rosario, è possibile ammirare un meraviglioso
dipinto posto al centro del soffitto, raffigurante la memorabile battaglia di
Lepanto, cui si è già fatto cenno.
Il quadro, di forma
rettangolare (cm 140 x cm 280), è stato eseguito nel 1968 a tempera su tavola,
che è stata poi fissata in alto mediante appositi bulloni, da un valente
artista di Serra San Bruno, Giuseppe Maria Pisani, per volontà di mons. Vito
Cina, padre spirituale della Confraternita della Vergine Maria del SS. Rosario,
che ha ancora oggi la sua sede nell’omonimo tempio, nonché grande erudito e
profondo conoscitore della storia della Chiesa.
L’Autore, con una
magistrale tecnica pittorica, ha saputo esprimere, molto efficacemente,
l’intensità degli stati d’animo dei personaggi raffigurati.
Al centro del
dipinto, infatti, grandeggia, in tutta la sua magnificenza spirituale, la
mistica figura di papa Pio V, il quale, con volto ascetico e sguardo supplice,
efficacemente rappresentati dall’apertura massima delle braccia elevate al
Cielo, con grande sofferenza fisica e morale per le sorti della cristianità
tutta a lungo minacciata dalla feroce barbarie turca, bene espresse dalla faccia
smunta, dalle mani scarne e dalla magrezza dell’intero corpo, prega ed invoca
l’aiuto della Vergine Maria del SS. Rosario, perché, una volta per tutte,
venga debellato il dilagante flagello turco.
Del resto, Pio
V, che era già stato monaco domenicano, a chi altri poteva indirizzare la sua
supplica se non alla Madonna del SS. Rosario, il cui culto era stato istituito,
alcuni secoli prima, dal suo Gran Patriarca, San Domenico, come Protettrice dei
bisognosi che si rivolgono a Lei attraverso la recitazione del Santo Rosario?
La Madonna,
infatti, quale Madre premurosa che non abbandona mai i suoi figli in difficoltà,
non tarda ad apparirgli in mezzo alle nuvole squarciate, per manifestargli tutta
la sua benevolenza e protezione.
Ella, però,
non è sola, ma è accompagnata dal Bambino Gesù, che tiene teneramente in
braccio, il quale, a sua volta, mostra all’umanità, peccatrice e bisogna di
redenzione spirituale, il Santo Rosario come l’unico e solo mezzo di cui
avvalersi, per potersi salvare dalla vita peccaminosa ed immorale che conduce
sulla Terra.
Lo sfondo del
quadro, infine, è dominato dal nero fumo e dalle dense fiamme che si innalzano
minacciose dalle navi musulmane soccombenti, mentre su quelle cristiane,
vittoriose, sventola il vessillo trionfatore della “Lega santa”, cioè la
Croce cristiana.
Nell’altra Chiesa,
quella Matrice, dedicata a Maria SS. Annunziata, è custodita una straordinaria
scultura lignea, di grande suggestione ed imponenza, che nei fedeli «produce
molta devozione» (D. Taccone-Gallucci, Monografia della Città e Diocesi di
Mileto, cit., pag. 192).
Essa raffigura il
Crocifisso ed è stata realizzata, verso la fine del Settecento, da un artista
ignoto, appartenente alla Scuola napoletana, su commissione dell’omonima
Confraternita sannicolese.
Ci piace, a questo
punto, riportare l’efficace descrizione che della sacra Statua ci ha fornito,
esattamente quarant’anni or sono (1965), quello, che, a buona ragione, può
essere considerato il Padre degli studi storici sannicolesi ed a cui tutti noi,
novelli ricercatori delle antiche memorie patrie, dobbiamo molto, Nicola Alberto
Mannacio: «Non è veramente un Crocifisso: nel suo significato etimologico
Crocifisso vuol dire “fisso in Croce”. Il nostro, invece, è un Cristo
staccato dalla Croce. Sostenuto, per le braccia, da due Angioli, un altro, in
ginocchio ai suoi piedi, raccoglie in un Calice il Divinissimo sangue, che, a
fiotti, sgorga dal Sacro Costato. La testa del Nazareno, anziché piegata sul
petto, naturale in qualsiasi cadavere, è reclinata leggermente a destra. Gli
occhi, socchiusi, ma non spenti -di una bellezza e di un significato singolari-
sono rivolti verso il calice, ricolmo di Sangue. Ai piedi del simulacro sono la
corona di spine e i chiodi» (N. A. Mannacio, S. Nicola di Crissa e i suoi
capolavori, cit., pag. 38).
Recentemente, un
autorevole studioso d’arte sacra ha avanzato l’ipotesi che il virtuoso
Autore del venerabile Simulacro possa identificarsi con lo scultore Michele
Salerno, nato nella vicina Serra San Bruno, ma operante nella città partenopea.
Chiudiamo
queste brevi note storiche su San Nicola da Crissa, che, lungi dalla pretesa di
avere il carattere di esaustività, vogliono soltanto essere il grato omaggio di
un figlio alla Terra che lo ha allevato, con l’auspicio che da esse le giovani
generazioni sappiano trarre lo stimolo per dedicarsi agli studi storici patrii e
rivolgersi, con pazienza, alla ricerca di quelle numerose informazioni sul luogo
nativo, che ancora si ignorano.
E’ necessario,
infatti, investigare ancora molto negli archivi, pubblici e privati, sparsi per
l’Italia, al fine di raccogliere quelle notizie mancanti, che sono
indispensabili per poter attendere ad una ricostruzione completa delle antiche
vicende accadute in San Nicola, e fare un po’ più di luce su quelli che la
tradizione storica riconosce ormai come i “secoli bui” dell’intera vita
calabrese.
SAN NICOLA DA CRISSA E LE SUE “GIORNATE
MEDICHE”
BREVE SINTESI
STORICA DELLA SCIENZA MEDICA IN CALABRIA
DALL’ANTICHITÀ AI GIORNI NOSTRI
Tra le varie manifestazioni culturali che ogni anno si
svolgono in San Nicola da Crissa, ve n’è una che, rispetto alle altre,
riveste una particolare importanza, per la rilevante funzione sociale che
svolge, il rigore scientifico che l’anima, l’indiscutibile dottrina dei
convegnisti che vi prendono parte ed il nutrito e qualificato pubblico che, ogni
volta sempre più numeroso, riesce a richiamare.
Si tratta de “Le Giornate mediche-Incontarsi per
camminare insieme”, giunte quest’anno alla loro XI edizione, essendo nate
nel 1994 (con l’interruzione, però, di un anno) per iniziativa del prof.
Francesco Martino, responsabile del Centro per lo studio delle dislipidemie
infantili, presso il Dipartimento di Pediatria dell’Università “La
Sapienza” di Roma, e del parroco don Salvatore Minniti, e che, con il passar
del tempo, stanno riscuotendo sempre maggiori consensi.
Dopo il volontario trasferimento di don Salvatore
Minniti in altro luogo della diocesi di Mileto, l’onere di organizzare
questo Congresso grava sulle sole spalle del prof. Francesco Martino, il quale,
però, riesce ad assolvere questo compito con l’antica passione, paziente cura
e competenza professionale che lo hanno sempre distinto.
A questo nostro concittadino, pertanto, va riconosciuto
il merito di diffondere sempre più, nel mondo esterno, una buona immagine del
suo paese nativo, quale luogo, in cui, sia pure per pochi giorni all’anno,
vengono ampiamente esposti e discussi interessanti argomenti di natura
scientifica e medica di vitale importanza per tutti, grazie alla partecipazione
di insigni studiosi di chiara fama, sia nazionale che internazionale, nel campo
medico.
La particolare attenzione che la gente riserva alla
trattazione di queste tematiche, la sua partecipazione ai relativi dibattiti non
sono dettate da pura curiosità, ma, più semplicemente, da un’ardente voglia
di essere informati sui risultati delle ultime ricerche scientifiche, effettuate
sulle più gravi malattie di interesse pubblico che affliggono la società in
cui oggi viviamo.
Non va dimenticato, infatti, che la conoscenza di un
qualsiasi morbo e la sua cura preventiva costituiscono il rimedio più efficace
per combatterlo e debellarlo, prima che esso insidi ed annienti per sempre il
corpo umano.
Questo Convegno, dunque, ha un carattere tipicamente
medico-scientifico divulgativo, in quanto, sin dal suo primo sorgere, si è
prefisso lo scopo di avvicinare il Centro, dove si fa ricerca e ci si occupa per
lo più delle malattie complesse, alla Periferia, dove il medico interviene
sulle malattie più comuni con il preciso intento di sensibilizzare ed educare
alla prevenzione amministratori, operatori e gente comune, grazie proprio a
questa informazione ed interscambio di esperienze sanitarie.
Né, tanto meno, deve suscitare meraviglia il fatto che
simili simposi si svolgano in un piccolo paese collinare della povera e
derelitta Calabria, San Nicola da Crissa appunto.
La nostra regione, infatti, benché ciò possa apparire
enfatico e presuntuoso (in verità, non lo è, se si pone mente per un solo
attimo a quella che è stata, nei secoli passati, la sua gloriosa storia
medica), è quella che, più di ogni altra, ha le carte in regola per offrire
ospitalità a congressi di siffatta natura, per le ragioni storiche che ora
andremo a spiegare, sia pure in maniera alquanto succinta, dettata dalla
ristrettezza di spazio e di tempo concessici.
Le origini assai antiche ed illustri che vanta la
scienza medica sanitaria sono ampiamente documentate dalla grande celebrità
raggiunta dalla prima Scuola Medica, fiorita nella Crotone magnogreca nel VI e
nel V secolo a. C., dove, secondo quanto annotato da Adalberto Pazzini, massimo
storico della medicina italiana e fondatore dell’Istituto di Storia della
Medicina dell’Università “La Sapienza” di Roma, «sono state formulate le
prime leggi della biologia» (A. Pazzini, La Calabria nella storia della
medicina, in “Almanacco Calabrese”, anno II [1952], pag. 49). I più
illustri rappresentanti di questa Scuola sono stati Alcmeone e Democede.
Alcmeone è ritenuto, a buon diritto, dagli scienziati
moderni il primo fisiologo, biologo, neuro-psicologo e le sue indagini in
materia sono contenute nell’opera Ricerche anatomiche sul cervello.
Può essere considerato anche «il vero padre della
medicina e dell’anatomia umana», avendo tentato addirittura la sezione dei
cadaveri (A. Tafuri [recensore], Priolo F: Medici di Calabria, in
“Calabria Nobilissima”, anno VI [1952], n. 17, pag. 225) e sappiamo pure che
«ha studiato per primo il decorso dei nervi ottici» (W. Morabito, Alcmeone
e Democede, in “Calabria Sconosciuta”, anno XIV [Gennaio-Marzo 1991], n.
49, pag. 75; D. Teti, Alcmeone e Pitagora, Padova, 1970, pag. 26 e segg.).
Democede, invece, ha costituito il primo esempio di
chirurgo e di medico condotto, nel vero senso del termine (la considerazione
appartiene allo storico della medicina S. De Renzi ed è riportata in A. Pazzini,
La Calabria nella storia della medicina, cit., pag. 50; Erodoto, storico
greco, V sec. a. C., Storie, III, 131).
È stato medico personale di Dario, re di Persia, che ha
risanato da una «slogatura [….] abbastanza grave, dato che la caviglia gli
era uscita fuori dalle articolazioni», procuratasi «in una partita di caccia
alle fiere» (Ibidem, 129-130).
Grazie ad una profonda conoscenza ortopedica (è stato
anche autore di un trattato sulle fratture delle ossa), Democede è riuscito là
dove i valenti medici egizi della corte persiana erano falliti.
Quale metodo di cura così efficace ha potuto adoperare
Democede da guarire in breve tempo il suo illustre paziente, che era tormentato,
giorno e notte, da dolori assai atroci e non sperava più di riacquistare la
funzionalità del piede?
È probabile che si sia servito della «tecnica “androplastica”,
consistente in massaggi muscolari ritmici, usati a Crotone per tenere in forma
il famoso atleta Milone» (M. A. Ruffo, L’avventurosa storia di Democede,
medico a Crotone nel VI sec. a. C., in “Calabria Sconosciuta”, anno XX
[Luglio-Settembre 1997], n. 75, pag. 40).
Democede è riuscito a guarire completamente da un grave
tumore alla mammella, da cui era affetta, anche la moglie di Dario, Atossa,
figlia di Ciro il Grande (E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, Milano,
1927, vol. II, pagg. 62-67; G. Brasacchio, Storia economica della Calabria,
Chiaravalle Centrale [CZ], 1977, vol. I, pag. 144).
È nell’età medievale che l’arte medica calabrese
ha conosciuto uno sviluppo pari a quello del periodo magnogreco, grazie alla
febbrile attività di una vasta schiera di insigni studiosi, di cui annoveriamo
qui soltanto quelli più autorevoli e rappresentativi, come:
-M. Aurelio Cassiodoro da Squillace (486 ca-580 ca), già
ministro e segretario del re goto Teodorico, il quale, pur non essendo un
medico, ha promosso, nel suo cenacolo di studi umanistici, il “Vivarium”, il
risveglio dell’arte sanitaria, attraverso lo studio delle opere mediche
classiche di Dioscoride, Ippocrate, Galeno e Celso Aureliano e «c’è da
credere che l’influsso cassiodoriano sulla famosa Scuola medica salernitana
sia stato tutt’altro che trascurabile» (F. Russo, Medici e veterinari
calabresi [sec. VI-XV], Napoli, 1962, pag. 12; A. Galloro, L’antica
spezierìa del Convento domenicano in Soriano. Aspetti di vita civile e
religiosa in Calabria nei secoli XVII-XVIII, Vibo Valentia, 2001, pagg.
57-58; 151, nota n. 205).
-Maestro Ursone di Calabria, monaco benedettino,
probabilmente della Valle del Crati, che, vissuto nell’epoca normanno-sveva (XII-XIII
sec.), è stato uno dei rappresentanti più qualificati della Scuola Medica
Salernitana nel periodo del suo maggior splendore.
È stato un espertissimo urologo, tanto che il suo
trattatello, ricordato con il diverso titolo di De urinis o Tractatus
de urinis oppure Regulae urinarum, ha fatto testo in tutto il Medio
Evo.
È ritenuta, questa, «un’opera molto importante nello
sviluppo della scienza dello studio delle urine, il cui esame, per la
diagnostica di numerose malattie, era praticato già presso i Greci» (L.
Lucania, Medici e medicina nella Calabria medievale, in “Calabria
Sconosciuta”, anno III [Aprile-Giugno 1980], n.10,
pag. 16).
-Maestro Bruno da Longobucco (Cosenza) è stato uno dei
chirurghi più famosi di tutta l’età medievale (XIII sec.) e, pertanto,
salutato come «in re chirurgica ceterorum facile princeps» (T. Aceti, Adnotationes
in Gab. Barrium, in F. Russo, Medici e veterinari calabresi [sec. VI-XV],
cit., pag. 62).
Ha legato la sua fama a due trattati, Chirurgia magna
e Chirurgia parva, composti a Padova, dove, oltre che a Verona, ha
insegnato ed esercitato la sua professione.
-Nicola Ruperti o Deoprepio da Reggio Calabria, «un
medico, che apportò un notevole contributo alla conoscenza di Galeno in
Occidente e nello stesso tempo fu uno dei migliori e più apprezzati
professionisti dell’evo angioino» (Ibidem, pag. 71).
È stato considerato «un miracolo di dottrina» ed
indicato come il «vero promotore della medicina classica» (S. De Renzi, Storia
della Medicina in Italia, Napoli, 1845, vol. II, pag. 287).
La sua notorietà, dunque, «è legata alle traduzioni
delle opere di Galeno, cui si deve il merito di aver gettato le basi delle
fisiologia sperimentale» (L. Lucania, Medici e medicina nella Calabria
medievale, cit., pag. 16).
La sua figura ha dominato nella Napoli della prima metà
del secolo XIV e, soprattutto, nell’ambiente di quell’ Università, dove ha
insegnato medicina per lunghi anni (F. Russo, Medici e veterinari calabresi
[sec. VI-XV], cit., pag. 71).
-Maestro Nicola da Grotteria, che «viene ricordato
verso il 1430 come “philosophus et medicus celeberrimus” [….], che avrebbe
trovato un antidoto contro la peste» (Ibidem, pag. 113).
-Vincenzo Vianeo (XV sec.), celebre chirurgo («famosissimus
chirurgus») da Maida, precursore della chirurgia plastica, specialmente della
rinoplastica, famoso in tutto il Regno di Napoli per aver praticato, per primo,
su diversi pazienti la plastica facciale e ciò in data anteriore agli analoghi
interventi realizzati dai più noti Branca, operanti in Catania (A. F. Parisi, I
Vianeo di Maida e l’invenzione della plastica, in “Historica”, anno V
[1952], n. 4-5, pagg. 169-171).
Strano a dirsi, ma il Vianeo è riuscito a realizzare,
quasi sei secoli or sono, delle mirabili operazioni chirurgiche, volte a
ricostruire ed a far tornare perfetti, così come la natura li aveva generati,
labbra e nasi mutili (G. Barrio, De antiquitate et situ Calabriae, Roma,
1571, traduzione italiana curata da E. A. Mancuso [Antichità e luoghi della
Calabria di Gabriele Barrio], Cosenza, 1979, pag. 237).
Questo metodo, detto “autoplastico”, perché
ottenuto innestando nel paziente i tessuti prelevati dal suo stesso corpo,
inventato da Vincenzo Vianeo, è stato, più tardi, «perfezionato e divulgato
dai suoi figli o nipoti, Pietro e Paolo», trasferitisi, nel frattempo, a Tropea
e da qui è nata la dibattuta questione, che divide tuttora gli studiosi di
storia di entrambi i luoghi in contesa, se cioè l’effettiva patria dei Vianeo
debba considerarsi Maida o Tropea (F. Russo, Medici e veterinari calabresi
[sec. VI-XV], cit., pag. 115; A. F. Parisi, I Vianeo di Maida e
l’invenzione della plastica, cit., pagg. 169-171).
Non è mancato, dunque, chi ha voluto ritenere
l’intera famiglia Vianeo nativa di Tropea (il loro metodo risanatore, per
questo, è stato definito magia tropoënsium e la rinoplastica [o
plastica facciale] è divenuta una gloria di questa splendida città turistica
tirrenica) e sospettare che Vincenzo Vianeo possa essere stato «forse allievo
dei Branca».
Da questi chirurghi catanesi, infatti, egli avrebbe
appreso e trasferito, dalla Sicilia in Calabria, quella particolare tecnica
operatoria di cui si è detto sopra, che gli consentiva, con straordinaria
maestria, non solo di riparare normali lesioni delle labbra e dei nasi, ma
addirittura di correggere in essi gravi difetti e deformità, di natura sia
funzionale che estetica (A. Pazzini, La Calabria nella storia della medicina,
cit., pag. 51).
Tra la prima metà del XVI e quella del XVII secolo, è
brillato l’astro di Giulio Giasolino (o Jasolino), nato a Monteleone (oggi
Vibo Valentia) da un’agiata famiglia patrizia tra il 1537 ed il 1538 e morto a
Napoli intorno al 1622 (V. Capialbi, Giulio Iasolino, in “Biografia
degli Uomini illustri del Regno di Napoli”, tom. VIII, Napoli, 1822; L.
Accattatis, Uomini illustri delle Calabrie, Cosenza, 1870, vol. II,
pagg. 66-69).
Andava orgoglioso di essere nato a Monteleone e, per
questa ragione, nelle sue non
numerose pubblicazioni non mancava di sottolinearlo, definendosi «medicus
Hipponiata» (P. Buchner, Giulio Iasolino medico calabrese del Cinquecento
che dette nuova vita ai bagni dell’isola d’Ischia, in “Archivio
Storico per la Calabria e la Lucania”, anno XVIII [1949], fasc. III-IV, pagg.
101-120).
La sua fama di insigne studioso era tale, nel mondo
medico napoletano, che «il Nostro appare come perito quando Fra Tommaso
Campanella fu processato a Napoli, [….] per avere organizzato una congiura
contro gli Spagnoli ed aizzato la popolazione abbandonata con le sue prediche
violente. La rivolta fu soffocata nel sangue e Fra Campanella imprigionato»
(Ibidem, anno XXI [1952], fasc. III-IV, pag. 146).
La popolarità di questo scienziato ha varcato, ben
presto, i confini nazionali, non solo perché i suoi studi anatomici sono stati
editi in Germania dal Volkamer e dal Severino, il migliore dei suoi discepoli,
di cui si dirà più approfonditamente appresso, ma anche per il fatto che ha
avuto cura di «tenere viva a Napoli una scuola, che fu importantissimo vivaio
di medici e studiosi di tutta Europa, tra i quali il danese Bartholin» (W.
Morabito, Giulio Jasolino, in “Calabria Sconosciuta”, anno X
[Luglio-Dicembre 1987], n. 39, pag. 93).
Tra i suoi scritti, ricordiamo, particolarmente,
l’opera De’ rimedi naturali che sono nell’isola di Pithecusa hoggi
detta Ischia, in due libri, pubblicata a Napoli nel 1588, con la quale il
Giasolino dava nuova vita, facendoli nuovamente risorgere, ai bagni dell’isola
di Ischia, sottolineando, con vivo interesse scientifico, gli straordinari
benefici apportati all’uomo dalle sue calde, perché di origine vulcanica,
sorgenti termali; Quaestiones anatomicae et osteologia parva (1573:
l’osteologia è quella branca dell’anatomia che studia la struttura delle
ossa) ed altri importanti studi sulle vie biliari, cistifellea, fegato e cuore
(P. Buchner, Giulio Iasolino medico calabrese del Cinquecento che dette nuova
vita ai bagni dell’isola d’Ischia, cit., anno XIX [1950], fasc. II,
pagg. 103-116; anno XVIII [1949], fasc. III-IV, pagg. 101-120).
È stato allievo prediletto del grande maestro siciliano
Filippo Ingrassia, titolare della cattedra di medicina e chirurgia pratica
presso l’Università di Napoli, che nutriva per lui una vera e propria
venerazione, tanto da definirlo, in perfetta lingua latina, come si conveniva
alle persone dotte del tempo, in pubblico «artium et medicinae doctor
celeberrimus, anatomicarumque aggressionum peritissimus» ed in privato «Juli
mi dilectissime» (Ibidem, anno XVIII [1949], fasc. III-IV, pag. 117).
Il Giasolino, dunque, ne ha preso, ancora giovanissimo,
il posto accademico (pare che abbia insegnato anche a Padova e Bologna), per
cederlo, alla sua morte, al più geniale dei suoi allievi, Marco Aurelio
Severino.
A Giulio Giasolino, i Vibonesi, orgogliosi di cotanto
nome e grati per la fama trasmessa alla loro comune patria, hanno dedicato il
loro ospedale civile, nel cui atrio è possibile ammirare la statua bronzea
dello scienziato, che lo ritrae a mezzo busto, in età avanzata.
Il Severino, succeduto al suo Maestro Giasolino, è
stato ritenuto, a sua volta, da non pochi storici della medicina il più grande
chirurgo della sua età ed un grande rigeneratore della chirurgia italiana, per
la sua valentia professionale e per l’audacia con cui ha posto in essere
alcune tecniche rivoluzionarie ed innovative, eseguendo delle operazioni
chirurgiche molto ardite per quei tempi: si pensi, ad esempio, alla broncotomia
o tracheotomia (A. Pazzini, La Calabria nella storia della medicina, cit.,
pag. 51).
Nato a Tarsia nel 1580 e morto di peste a Napoli nel
1656, è stato docente di anatomia e chirurgia presso l’Università
partenopea, ove ha composto importanti opere di contenuto anatomico.
A lui, nell’insegnamento della stessa disciplina, è
subentrato un altro calabrese nonché suo amico, Tommaso Cornelio da Rovito
(casale di Cosenza), che era in buoni rapporti con l’anatomista Marcello
Malpigli e che ha svolto degli studi interessanti sulla milza e la digestione.
Vi sono stati in Calabria, dunque, uomini illustri anche
nel campo della medicina, che, grazie al loro fervido ingegno e al paziente
lavoro di ricerca svolto, hanno saputo, nelle età trascorse, onorare la loro
Terra e fornire un fattivo e rilevante contributo allo sviluppo dell’arte
sanitaria e del progresso umano tutto.
Tra gli altri numerosi medici calabresi del Seicento,
emergono G. Cesare Comerci da Mileto, famoso ai suoi tempi e tenuto in grande
considerazione per aver guarito Filippo II di Spagna e Carlo Musitano da
Castrovillari, attento studioso dell’ulcera, delle tonsille e, soprattutto,
della sifilide, che ha considerato, per primo, come una malattia costituzionale
(Ibidem, pagg. 52-53).
Anche nel secolo XVIII i medici calabresi hanno saputo
imprimere il loro nome nella storia della scienza medica.
Tra costoro, ricordiamo:
-Francesco Rognetta da Reggio Calabria, che, esule in
Francia, perché avversato dai Borboni, ha insegnato per un decennio alla
prestigiosa Sorbona ed ha compiuto pazienti ricerche nel campo della chirurgia
urinaria (Ibidem, pag. 54).
-Agostino Casini da Cosenza, docente di patologia
chirurgica nell’Ateneo di Napoli, cui «si deve uno dei primi interventi di
chirurgia toracica su focolai tubercolari» (Ivi).
Ci piace completare questa sommaria indagine sui medici
calabresi, dall’età magnogreca fino ai primi del Novecento, ricordando, per
ultimi, Francesco Morano, Rocco Iemma ed Antonino Anile.
Il medico Francesco Morano (Monterosso Calabro, 1837-Napoli, 1904) è stato un eccellente oftalmologo e, conseguita la specializzazione in oculistica in Italia, per meglio perfezionarsi in questo ramo della medicina, non ha esitato a recarsi in Germania ed in Austria.
È autore di pregevoli studi nella sua materia (Ibidem,
pag. 55).
Il suo nome è molto noto ai bibliofili calabresi e di tutto il Mezzogiorno d’Italia, che gli devono eterna gratitudine, perché, avendo egli speso gran parte della sua vita a ricercare opere di scrittori calabresi di tutti i tempi, le ha, poi, adunate in una copiosa “Biblioteca Calabra”, che, con grande ed insolita generosità, ha donato nel 1898 alla Biblioteca Nazionale di Napoli, dove oggi costituisce il cosiddetto “Fondo Morano” (V. G. Galati, Gli scrittori delle Calabrie, Firenze, 1928, vol. I, pagg. 8-9).
Rocco Iemma, nato a Laureana di Borrello (Reggio
Calabria) nel 1866 e deceduto a Napoli nel 1949, può essere considerato «il
fondatore della pediatria in Italia e di una grande scuola di medicina applicata
all’uomo nelle prime fasi dello sviluppo, dalla nascita alla pubertà» (A.
Sesti, La scienza medica in Calabria attraverso i tempi, in “Calabria
Sconosciuta”, anno II [Luglio-Dicembre 1979], n. 7-8, pag. 71).
Egli ha ricoperto per lungo tempo la carica di direttore
della clinica pediatrica dell’Ateneo napoletano e «le ricerche da lui
effettuate e le conquiste realizzate nel campo della tubercolosi infantile,
della leishmaniosi viscerale, della patogenesi delle anemie splenomegaliche,
della vaccinoterapia nelle malattie infettive acute, dell’immunità del
lattante, ecc., fanno di Iemma il vero iniziatore di una scuola, continuata da
una fiorente corona di discepoli, che ne perpetuano la memoria e
l’insegnamento» (A. Pazzini, La Calabria nella storia della medicina,
cit., pag. 55)
Antonino Anile, infine, nato a Pizzo Calabro nel 1869 e morto a Raiano (L’Aquila) nel 1943, ha legato il suo nome, oltre che alla riconosciuta competenza professionale di insigne anatomista, anche all’attività parlamentare, avendo rivestito la carica di Sottosegretario di Stato alla P. I., prima, e di Ministro dello stesso dicastero, dal luglio 1921 all’ottobre 1922, poi.
Ha insegnato, dal 1908 al 1911, presso la Facoltà di Scienze dell’Università di Napoli ed ha composto interessanti trattati anatomici, tra i quali ricordiamo:
Note anatomiche, Napoli, 1896; Osservazioni e
interpretazioni anatomiche, Napoli, 1900; Elementi di Anatomia umana
topografica, Napoli, 1915; Torino, 1918 ; Trattato di Anatomia
sistematica dell’Uomo, Napoli, 1919.
Uomo di vasta cultura, è stato anche saggista e poeta
delicato e gentile (V. G. Galati, Gli scrittori delle Calabrie, cit.,
vol. I, pagg. 159-161; G. Valente, Dizionario bibliografico, biografico,
geografico e storico della Calabria, Chiaravalle Centrale [CZ], 1988, vol.
I, pagg. 228-230).
Per concludere, possiamo affermare, senza esagerazione
alcuna o tema di essere smentiti, che “Le Giornate mediche-Incontarsi per
camminare insieme”, che si svolgono in San Nicola da Crissa nei primi giorni
del mese di agosto di ogni anno, possono giustamente inserirsi nel solco di
quell’antica e gloriosa tradizione storica di cui si è qui ragionato, che ha
visto primeggiare la nostra regione, nel campo della scienza sanitaria, su tutte
le altre del pur evoluto vasto bacino del mar Mediterraneo e delle terre ad esso
limitrofe.
San Nicola da Crissa (VV), luglio 2005.