22 giugno 2006
Il mondo nel pallone
di Vito Teti (dal Quotidiano)
Una sorta di antidoto alla mitologia del “vero luogo” è l’affermazione di Yves Bonnefoy, il grande poeta francese, per il quale “ogni luogo è il nostro vero luogo, nella misura in cui vi possiamo riconoscere la nostra condizione”.
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Non avevo mai pensato, almeno come in questi giorni, al calcio, alle partite di pallone, in particolare ai mondiali, come eventi strettamente legati al luogo da cui si osservano. Le partite non avvengono soltanto nello stadio, non sono soltanto uno spettacolo della televisione o, adesso, una visione nel telefonino, non sono fatti che interessano chi gioca e chi vi assiste da vicino: le partite sono eventi che accadono nel luogo in cui si guarda. I periodi e i miti, le gioie e i dolori, della nostra vita, sono spesso scanditi anche dal ricordo di avvenimenti calcistici. Il gioco del pallone è un evento che alimenta e scatena il ricordo.
La nostalgia - termine coniato (combinando nóstos, ritorno, e álgos, dolore) dal giovane alsaziano studente di medicina nel 1688 per descrivere la heimeweh tedesca, il mal du pays francese, che colpiva i militari svizzeri lontani da casa - veniva sollecitata, come ricorda Jaean-Jacques Rousseau, dall’ascolto di un’aria popolare (rand-des-vacxhes) che i pastori suonavano con i loro corni nelle alte montagne. La musica, come sperimentano ben presto gli innamorati che riascoltano le loro canzoni, agisce come segno rammemorante.
La nostalgia, la memoria, il rimpianto, il ricordo dell’infanzia sembrano segnate dal gioco del pallone, praticato o osservato. Non si capirebbe altrimenti una scrittura e un poetica del pallone che hanno visto e vedono impegnati i maggiori scrittori del Novecento.
Il gioco del calcio è anche una sorta di enorme, globale, madeleine grazie alla quale riavvolgiamo, ricordiamo, inventiamo il passato. Questo perché quel passato, quella partita, quei gol, quei rigori mancati ci hanno visto partecipi, presenti, “protagonisti” in quel determinato luogo, assieme a quelle persone, in quelle particolari circostanze, con un irripetibile stato d’animo. Le leggende, i racconti, le narrazioni del calcio svolgono anche il gioco di nuove favole, di nuovi miti, organizzano i ricordi, facilitano incontri e dialoghi.
Certo, Italia-Germania, con il celebre risultato di 4-3, resta la Partita del secolo, del Novecento, ricorda la battaglia epica tra “noi”, italiani, e “loro”, tedeschi, il nostro trionfo a dispetto delle nostre divisioni (chi non ricorda il dualismo Rivera-Mazzola, pane per i denti di una “nazione” che non riesce mai a condividere fino in fondo e vive, forse, proprio grazie alle sue forti divisioni).
Quella partita per me resta legata ai miei vent’anni, alle scene di tripudio e di festa che ho visto ad Acilia, dove abitavo presso un fratello di mia madre nel primo anno di Università a Roma. Rivedo i caroselli impazziti, con le macchine aperte e i giovani che si tuffano nella vasca della fontana della piazzetta, i gavettoni, gli abbracci con persone sconosciute. Era per me la prima manifestazione di massa diversa dalle processioni e dalle feste dei paesi e anche dai cortei politici e sindacali di quegli anni, che raccontavano la speranza delle giovani generazioni e che poi si sarebbero trasformata, in molti casi, in disperazione e delusione.
Quando penso a quella partita, mi vengono in mente la villa in cui abitavo, i cugini e gli amici con cui la guardavo, il pensiero del primo amore lontano. E, viceversa, se penso ai miei vent’anni, alle mie passioni, alle mie timidezze, alle mie speranze, ai miei errori, non riesco a non legarli a quella partita e poi a quella finale col Brasile, che ci mandò, zitti e quieti a letto, bastonati da Pelè e compagni, senza appello, comunque paghi di quello che già avevamo fatto.
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Già, il Brasile. Delizia e tormento. Piacere ed ossessione. Ammirazione e disperazione. Fascino e senso di impotenza.
La partita dell’82 in Spagna, i tre gol di Paolo Rossi, che puniscono la sicurezza di una delle squadre più forti mai apparse sulla scena del calcio. Ma quella partita non è “quella” partita soltanto per il risultato, è “quella” partita perché l’ho vista a casa di paesani a Catanzaro, dove mi trovavo per badare ai mia madre che era ricoverata in ospedale.
I mondiali del ’94 sono Toronto, il mondo dell’emigrazione, la comunità degli italiani, dei calabresi, dei paesani, delle grandi sale con schermi giganti dove i tifosi dei vari gruppi “etnici”, prima mimetizzati tra gli spettatori, si rivelavano, urlando e saltando, al gol della propria “nazionale”. I mondiali di quell’anno sono la poesia scritta da Antonino Mazza, poeta canadese originario di S. Roberto, per mia moglie, che faceva il tifo – tra lo stupore e i sorrisi di Antonino - alle mogli, figlie e nipoti di emigrati che non erano state mai in paese e che parlavano appena il dialetto dei padri. Sono i caroselli interminabili nella Little Italy, le ragazze bellissime ed alte che sfilavano sulle macchine sfreccianti nelle lunghe e larghe Street, le bandiere tricolori che volavano in alto, con gente urlante “Italia Italia”, mentre io, contento e disperato, correvo e faticavo per arrivare alla sede del “Corriere Canadese” ( era vicedirettore il mio amico Antonio Nicaso) sul quale pubblicavo articoli che raccontavano non la partita, ma gli umori della gente, le battute di Pino Marchese, i suoi giochi di parole.
“L’Italia non si Spagna” abbiamo titolato, in maniera allusiva, con una trovata di Pino, sarto, emigrato a 16 anni a Toronto, alla vigilia della partita dell’Italia contro l’allora forte squadra spagnola. Non molti capivano quel titolo, ma quanti, a migliaia, erano partiti dalla Calabria negli anni Cinquanta e Sessanta sapevano che “spagnarsi” verbo intransitivo legato, quasi certamente, alla dominazione spagnola, nella memoria degli emigrati evocava paura. Se penso a quei mondiali rivedo la fantasia e la felicità degli emigrati, a un imprecisato e non definito orgoglio identitario e un senso inedito di appartenenza che nascevano anche attraverso i trionfi calcistici. Riappare Pino che non c’è più, il fratello Saverio, i miei amici di Toronto che mi aspettano, da allora, per rivedere insieme un altro mondiale.
Della finale col Brasile, della partita, del gioco non ricordo, in realtà, quasi nulla. Quel giorno è legato all’atmosfera dell’attesa insieme a mille sannicolesi e calabresi di Toronto, in un grande parco, dove si celebrava in occasione della festa (pic nic e processione, canti e danze, gioco a bocce e a pallone) di S. Nicola, il santo patrono del paese. Non so se ho visto, per davvero, quel giorno il rigore di Baggio che volava alto, come una maledizione, come una jettatura, sulla traversa, o se invece lo ricordo per averlo rivisto, come un incubo, mille volte, in televisione, o perché mi torna in mente la persona al mio fianco che urla in dialetto “O Baggio, ma cu tutti si sorde chi pigghi, comu poi mandare lu palluni atu finu a Tavigghia!”. “Tavigghia” è la zona alta del paese, quella dove finiva il pallone, quando da bambini nelle strade facevamo dei tiri alti, a “Capudecazzu”, che, per l’appunto, finivano a Tavigghia o si perdevano a Cazzonopoli.
Una volta in una indimenticabile partita di calcio tra Papa e Caria, due “rughe” rivali del paese, Ciccio, da solo col pallone, si fermò davanti al portiere e ad alta voce, in segno di rispetto o per minacciose avvertenze ricevute, disse allo zio più grande di lui di qualche anno: “Oh, zio Toto, tira tu…”. Zio Toto partì come un razzo dall’altra porta, dal fondo della strada, tirò con grande forza e foga e, “ne vuoi più ?”, la palla battè contro i vetri di Marianna di Maida che uscì con una scopa e prese il pallone, che ci restituì dopo un mese.
Pino, durante i giorni di quei mondiali vissuti insieme a Toronto, ricordava, con nostalgia e umorismo, quegli scontri che finivano 50 a 0, il cui risultato era sempre messo in discussione, i punti li “chiamavamo” noi giocatori e i gol erano un’opinione, più o meno come oggi a tempi di Moggi. E poi tutto finiva in botte da orbi, in guerre e in spedizioni punitive condotte da una all’altra ruga con gruppi di cento, duecento bambini (dove giocano adesso i pochi bambini che sono rimasti?). Ogni spedizione veniva accolta da una pioggia di pietre di tutte le misure lanciate da quei figli di buona mamma dell’altra ruga, altri cento duecento bambini, che spuntavano da chi sa dove. “Altro che pietre”, dicevano Pino e Saverio, Mico e Nicola, mentre tornavamo – dopo l’amara finale persa ai rigori - dal parco verso il centro di Toronto, “altro che pietre. Sono mazzicani, pietre enormi, quelle che ci aspettano. Chi li sente mo’ i portoghesi?”. I portoghesi, con la bandiera brasiliana in mano, sbucavano da tutti gli angoli, ogni casa sembrava avere una bandiera brasiliana che cancellava quelle italiane. Maria, donna cinquantenne, garbata e dolce, giunta dal paese a 15 anni, abbassò il finestrino e rivolta verso quei maledetti di portoghesi, disse. “Chi cazzu festeggiate! Non siete brasiliani!”.
Quando perdeva l’Italia i portoghesi e anche altri gruppi etnici diventavano euforici, scendevano in corteo, facevano festa. Era la loro vendetta contro i caroselli, le feste, i balli dei cinquecentomila di Toronto che nell’ 82, grazie ai gol di Paolo Rossi scoprivano di essere “italiani” e di avere ragioni (oltre alle grande fatiche e ai patimenti sopportati per inserirsi nel nuovo mondo) di cui andare orgogliosi. Era la loro vendetta contro gli italiani che ormai erano diventati ricchi, comandavano e qualche volta si rivelavano prepotenti ed arroganti. Era la vendetta contro quelli che si erano trasferiti nei quartieri residenziali, nelle ville eleganti e costose, lasciando, ai nuovi arrivati, le piccole casette di quella che era stata la Little Italy.
Mi sforzavo di fare il distaccato, riflettevo su quei giochi di non facile integrazione nel nuovo mondo portati avanti anche attraverso il pallone. Una parte di me sorrideva, simpatizzava per i portoghesi (simili ai primi emigrati calabresi arrivati in Canada) che si affidavano ai cugini brasiliani per realizzare, attraverso il pallone, una sorta di riscatto da quelle comunità italiane più benestanti e più potenti. Ma era un attimo, poi mi sentivo “italiano” come i miei paesani, come gli altri calabresi e italiani, e masticavo, come loro, amaro quando in giro per le strade di Toronto, in sordina, assistevo allo smantellamento delle bare preparate per sfottere i portoghesi, in caso di vittoria italiana. Rimpiangevo non solo la sconfitta dell’Italia, ma soprattutto il fatto che mi ero perso il grande Carnevale organizzato dai calabresi nelle strade di Toronto. Ed ero addolorato per il dolore dei miei amici, che per quattro anni avrebbero dovuto sentire gli sfottò di quei “maledetti portoghesi”, in culo ai rigori. Anche gli italiani di Toronto, come i portoghesi di Toronto, non vincendo più in proprio, hanno dovuto fare della necessità virtù, scegliersi un’altra squadra per cui tifare. La Grecia, che ha vinto in finale il Portogallo agli ultimi Europei, è stata un vero miracolo. I discendenti dei magno greci hanno tifato, naturalmente, Grecia e hanno festeggiato con i greci. Ciccio, prima della finale, mi aveva detto al telefono: “Non so cosa fare. Ho un figlio sposato con una greca e un nipote che si sente greco e italiano e sbandiera la bandierina greca e poi ho un figlio fidanzato con una portoghese, parenti e amici portoghesi. Vedi quanto ne ha combinato Totti con uno sputo, con una sputazzata!”. Dopo la partita ha accompagnato il nipotino a festeggiare nel quartiere dove abitano i greci. I portoghesi erano chiusi, avviliti e Ciccio era dispiaciuto, andava a consolare i suoi amici portoghesi, dicendo, senza convinzione: “Che volete è un gioco. Una volta si vince, una volta si perde”.
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Non esistono vendette nemmeno nel calcio. Quello che è accaduto è accaduto. Se e quando l’Italia rivincerà i mondiali e il Brasile, resterà sempre in aria, diretto al cielo, a Tavigghia, a Cazzonopoli quel rigore di Baggio.
Mi hanno telefonato ieri gli amici di Toronto, vedono la partita al Club, provano vergogna e rabbia per gli scandali del nostro calcio. Sperano, comunque, che sia la volta buona, non ne possono più di vedere piangere i figli e i nipotini, che, pure canadesi, si sentono anche italiani. La memoria dei figli e dei nipoti non è ferma al paese dei padri, ma a quel paese che i padri hanno ricostruito in Canada. Il mito di fondazione della loro appartenenza non è quello dell’arrivo miracoloso del Santo, è quello dei mondiali dell’82, con santo Paolo Rossi. “E tu dove vedi le partite?”, mi ha chiesto Ciccio. E chi lo sa, ho risposto, sono sempre in giro. Forse la prima, gli ho detto, la vedo al Circolo Arci “La Scintilla” in paese. “Beato te”, mi ha detto Ciccio, che ha ancora sogni di ritorno e sa che i protagonisti di una partita di pallone, sono non solo i giocatori, ma anche coloro che seguono, guardano, tifano. Il gioco globale per eccellenza è diventato anche il gioco più locale, più fortemente identitario. Il tifo per i grandi Club, che sono multinazionali anche economiche, con squadre di calciatori tutti “stranieri”, è emblema di una globalizzazione che si ramifica in mille rivoli locali. Il tifo per la propria squadra, “italiana” o “europea”, incontra il tifo per la “propria nazione” (il “popolo nazione” dell’Ottocento sopravvive come “popolo sportivo” e l’identità nazionale sembra più legata al calcio che non ad altri miti e valori) e si combina con l’attaccamento esasperato ai colori della squadra della propria città, del propria regione, del piccolo centro in cui si vive.
Il “pallone globo” in fondo spinge a nuove forme di riconoscimento e di appaesamento, con esiti paradossali, che mettono in scacco anche la politica e lo stesso “disordine” del mondo. Indimenticabile, nella partita Iran-Messico, l’esultanza dei calciatori iraniani dopo il momentaneo gol dell’1 a 1. I salti di gioia e i gesti di ringraziamento a Dio sono identici dappertutto. Quello che non può la politica, sembra poter realizzare il calcio: l’accettazione, sia pure momentanea, di identiche regole e di analoghi comportamenti da parte di individui separati da appartenenze, storie, credo religioso. Domani le divisioni continueranno, anzi sono già in campo, mascherate o palesi. E tuttavia questo giocare insieme, con regole riconosciute (il calcio e non più la politica come la continuità della guerra con altre armi?) fa immaginare che le vie del dialogo tra civiltà potrebbero essere le più inconsuete e impensabili.
Vediamo tutti gli stessi gol, ammiriamo le stesse azioni, prendiamo atto dei risultati delle partite, ma non reggono né l’immagine localistica né quella esasperatamente globalista. Partecipiamo dello stesso rito, dello stesso spettacolo, ma non è indifferente il luogo da dove si guarda la partita, non sono irrilevanti le persone con cui la si guarda, gli spazi di socialità e le forme di convivialità che vengono inventati. I luoghi continuano a presentarsi nella loro diversità anche quando sembrano avvolti da logiche e da pratiche omologanti.
Anche noi giochiamo, guardando più o meno intensamente, più o meno distrattamente, le partite del pallone, la nostra partita.