Quel tradimento della natura
di Vito Teti
Comincia a tuonare lentamente nella notte. Sento da lontano i boati che poi si fanno sempre più forti, insistenti, sempre più vicini. Comincia a piovere con violenza, poi arriva la grandine. Mi giro nel letto, non è piacevole questa volta la pioggia. Batte, batte forte sui vetri e urla la fiumara, che non sentivo da anni, picchia la grandine sugli infissi.
Mi alzo, il mondo è tutto buio, la nebbia e la notte vengono squarciate dai fulmini che si succedono a distanza di pochi secondi. Ogni tanto un boato, poi una scarica lieve, poi scrosci d’acqua. Tutte le descrizioni di piogge e di alluvioni che mi vengono in mente –da quelle di Alvaro a quelle di Strati, da quelle di Marquez a quelle degli abitanti dei mille paesi alluvionati della Calabria- si materializzano e mi sembrano pallide immagini rispetto a quelle che osservo nella notte. Temo il peggio. Ricordo i fulmini e i tuoni della mia infanzia, le piogge interminabili, le strade piene d’acqua e fango che trascinano detriti, pietre, rami di alberi, ma non mi pare di avere mai vissuto una sensazione come questa.
E’ l’alba, scendo da mia madre, è seduta sulla sua sedia, lontana dalle finestre, lontana dai tuoni, con la figlia di mia sorella. Sta recitando le preghiere a Santa Barbara e a sant’Antonio perché arrestino la tempesta e facciano tornare il bel tempo. “Non ricordo che ci sia mai stata una tempesta così forte”, mi dice.
I miei bambini vorrebbero uscire, piove da otto ore, continua a tuonare, mi affaccio dal balcone e vedo la strada piena di pietre, fango, rami. Mia moglie, che non ha chiuso occhio, mi mostra l’acqua entrata nel portone, e poi le frane sotto il nostro orto, al di là della strada che percorro tutte le volte che parto, quasi tutti i giorni. Non si esce dal paese e non si entra. Sono caduti alberi, le strade sono interrotte, gli orti sono franati. Vengono segnalati danni dappertutto. Non funziona il telefono, non c’è la corrente elettrica, non so cosa fare, mi sento smarrito. La casa di molte persone è stata invasa dalla terra nera.
Dovrei partire, mi dico. I bus non vanno a Vibo Valentia hanno fatto scendere i passeggeri, i camion si sono fermati, non si va a Cosenza e nemmeno a Serra. Isolamento. Vuoto. Senso di impotenza. Soltanto nella tarda mattinata mi rendo conto di quello che è successo. Gli anziani dicono che ne hanno viste di piogge e frane, ma mai come adesso, in piena estate, dopo giornate di afa e di caldo. Quasi un tradimento, uno scherzo della natura. Eppure sappiamo che sono quelli estivi i temporali più devastanti.
Arrivano notizie drammatiche dai paesi vicini. Un pastore è morto a Sant’Onofrio, colpito da un fulmine mentre cercava di portare in salvo il suo gregge. Altri quattro morti a Vibo e dintorni, non si sa bene ancora come, non si sa bene ancora dove. Tutto in una nottata, in una mattinata di luglio. Ieri era caldo, c’era il sole, si vedevano l’Angitola e la vallata del Mesima, il grano appena tagliato restituiva i colori dell’estate e il sapore della calura. I bambini progettavano di andare al mare, qualche immigrato era tornato per l’estate.
Toto è venuto da Toronto con i tre figli, tutti nati in Canada. Lo incontro in piazza, sta togliendo da ore con la pala il fango entrato nella casa dei suoi genitori. Faccio un giro nel paese, incontro Bruno che ha fotografato tutte le frane, tutti gli smottamenti, tutte le case devastate dal fango. La gente è sgomenta, non sono arrivati i giornali, non si può partire, non si conoscono i danni. Sono venuti i pompieri, stanno togliendo il fango da una casa nel centro del paese.. Ascolto le notizie del telegiornale. Le reti nazionali della sera non danno nemmeno la notizia: quattro morti in un alluvione fanno meno impressione di qualche dramma privato in qualche città del Nord. I soccorsi sono stati rapidi, efficaci, la gente qui si è “impaddata” le maniche, si è data da fare, è andata in giro a portare soccorso.
E’ arrivato Bertolaso, fa un giro assieme al presidente della giunta regionale Agazio Loiero nei luoghi del disastro. Gli amministratori e i politici della zona dicono che è un dramma imprevisto e imprevedibile. Ed è vero. E’ anche vero che questo territorio non è stato, davvero, rispettato. Abbiamo costruito dovunque e comunque. Abbiamo cementificato anche quando non serviva, costruito case nuove che rimangono vuote in mezzo a case antiche già vuote, alzato edifici inutili, pilastri nudi. Abbiamo abbandonato le campagne e le fiumare a se stesse. A bivona e a Porto Salvo, lungo la costa, i danni sono, a quanto si dice, enormi. Qualcuno si è salvato uscendo dal tetto.
Sarà la volta buona per capire che i paesi non vanno sguarniti, abbandonati e che il problema delle marine e delle coste va affrontato prima, a monte? Piangiamo i morti, adesso, come tante altre volte, come troppe volte. La natura non è stata benigna, il trauma è stato improvviso, si è scatenata davvero la fine del mondo. Tutto questo, in un momento di dolore e senza voler individuare i colpevoli, dovrebbe fare capire che sono necessari un diverso riguardo e un autentico rispetto di questi luoghi. Una più attenta politica del territorio avrebbe certo limitato i danni. Li avrebbe resi più accettabili, meno pesanti e devastanti. Ma questa resta la terra delle emergenze perenni, degli abusivismi insensati, delle dimenticanze non progettate, delle colpe attribuite sempre agli altri, dei “come siamo sfortunati noi” e dei “ci mancava pure questo adesso”, dei pianti sterili, delle promesse vane, delle buone intenzioni e degli slanci enormi al momento del dramma, e poi delle catastrofi che rischiano di diventare alibi e a volte, per qualcuno, fortuna.
Riusciranno i nostri politici a pensare di meno a loro perpetuo e instancabile “riposizionamento” politico e individuale e un po’ di più alla riorganizzazione e alla valorizzazione del territorio? Al buio, senza computer, per telefono, detto questa dolente testimonianza, dall’interno, da un paese della Calabria interna che non si rassegna a morire. Domani pare ci sarà di nuovo il sole.