La congrega di Francesco per il mondo appestato
di Domenico Teti
A peste, fame et bello, libera nos Domine. Avrò avuto otto o nove anni quando imparai a sentire nelle congreghe di quaresima queste invocazioni, che mi suonavano misteriose come le altre della litania – a parte forse il flagello terraemotus, che fin da bambini spesso ci buttava dal letto e ci costringeva impauriti a lunghe veglie notturne. La peste, la fame e la guerra la conoscevamo solo dai racconti dei grandi che, loro sì, di guerre ne avevano attraversate almeno due, senza contare quelle coloniali, si ricordavano bene la «peste» spagnola e la fame l’avevano provata in tempo di guerra e spesso anche di pace.
E ora noi che abbiamo cinquant’anni ci ritroviamo a pregare, con gli anziani e coi giovani e i ragazzi, usando le parole di cento e cento anni fa, di essere liberati dalla nuova peste che ci attanaglia, e dalla fame e dalle guerre – combattute o no con le armi – che ne potrebbero scaturire. E il papa si mette alla guida di questa accorata preghiera mondiale, in forma solenne, dopo essersi portato in solitario pellegrinaggio a San Marcello al Corso il 15 marzo per pregare davanti al Crocifisso – come ha ricordato alcuni giorni fa Vito Teti – «per i fratelli e le sorelle assenti con legittima causa».
Il rito, in tutti i sensi memorabile, che Francesco ha celebrato in piazza San Pietro lo scorso 27, ultimo venerdì di marzo, ha esattamente la struttura del nostro rito della congrega, che secondo gli antichi Statuti deve comprendere tre parti: la meditazione, l’orazione e la compunzione (o penitenza), in cui ha un ruolo centrale il bacio del Crocifisso, per compiere il quale ci si avvicina all’immagine sacra con ripetute genuflessioni e «baciando la terra». Il 27 marzo abbiamo assistito appunto a un rito concepito con un momento di ascolto del vangelo (nella nostra funzione il canto del Recordemini ha esattamente questo significato) e di meditazione del padre spirituale universale e quindi un momento di preghiera litanica (Libera nos Domine, Anima Christi …).
Al termine della preghiera, mentre la cappella intonava l’Adoramus te Christe, il papa si è recato con passo grave e dolente a posare un bacio sui piedi del miracoloso Crocifisso di San Marcello, su cui calava, come un pianto cosmico, una pioggia insistente. Il Crocifisso verso cui il popolo romano in tempi passati ha nutrito una enorme devozione, fomentata dalla omonima arciconfraternita a cui il nostro sodalizio sannicolese è aggregato fin dal 1773, è storicamente invocato contro le epidemie fin da quando, nel 1522, al passare della sua processione propiziatoria, durata sedici giorni, i rioni dell’Urbe videro prodigiosamente regredire il contagio.
Chi frequenta abitualmente la messa sa che l’immagine del Crocifisso è legata all’idea di pericolo mortale e di guarigione fin dalla sua prefigurazione nell’antico testamento. Mi riferisco in particolare alle letture della festa del 14 settembre, l’Esaltazione della Santa Croce, che ripresentano lo scoppio del malcontento degli ebrei contro Dio e contro Mosè nel deserto. «Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti infuocati i quali mordevano la gente, in mezzo a Israele morì gran parte della popolazione». Segue il rinsavimento del popolo e la preghiera di intercessione di Mosè, in risposta alla quale il Signore dice al condottiero di Israele: «Fatti un serpente infuocato ed esponilo come segno; chiunque sarà stato colpito e lo guarderà, resterà in vita». «Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo espose come segno; quelli che erano stati colpiti e lo guardavano, venivano guariti» (Numeri 21, 4-9).
È lo stesso Gesù nel vangelo di Giovanni, proclamato anch’esso nella festa del 14 settembre, ad applicare a se stesso questa pagina vetero-testamentaria: «come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede abbia la vita eterna in lui» (Giovanni 3, 14-15). Il Crocifisso diventa quindi, per la parola dello stesso Cristo, simbolo e mezzo di salvezza e guarigione. È chiaro che Cristo parla in primo luogo di salvezza eterna e di guarigione spirituale, come è reso evidente dall’equiparazione al serpente: egli assimila sé stesso alla causa della morte, cioè al peccato, assumendolo su di sé (qui tollis peccata mundi…) per far perire, negli uomini che a lui guardano, il germe stesso che provoca la morte dell’anima.
Però è umano che l’uomo in carne e ossa ora guardi al Crocifisso implorandolo per la salvezza anche della vita terrena e, con essa, di tutto quanto la disumanità del male che oggi imperversa sembra volere, spietatamente, travolgere: la vicinanza, anche ai malati e ai moribondi, la possibilità del conforto e della consolazione, la condivisione della sofferenza e perfino del lutto. Un grande padre della Chiesa dei primi secoli, Ireneo di Lione, in un passo molto citato dice che Cristo «ha reso visibile Dio agli uomini con molti interventi provvidenziali, perché l’uomo non venisse privato completamente di Dio, e cadesse così nel nulla, perché l’uomo vivente è gloria di Dio» (Trattato contro le eresie, lib. IV, 20, 7).
Il Crocifisso ora è innalzato nel deserto, in questo deserto che sono diventate le piazze, le strade, ma anche le case di tanti anziani, di tante persone sole e i luoghi di cura in cui si soffre questa crudele pena ulteriore dell’isolamento. Chi guarda a Lui oggi Lo implora per la fine del male che flagella la comunità degli uomini, perché l’uomo «non cada nel nulla» e possa predisporsi in qualche modo a ricostruire. Ricostruire, certo, avendo cura di fuggire tutti quei «peccati sociali» che hanno concorso a creare le condizioni per l’accanirsi del flagello e più ancora la drammatica difficoltà della società a fronteggiarlo.
Come ha detto il papa in piazza San Pietro: «Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza.
Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza».